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1.2. Il frame nella comunicazione politica

1.2.4. La frontiera delle emozioni

Al centro della teoria di Lakoff sull’efficacia del linguaggio politico c’è la contestazione del modello dell’attore razionale, ossia di quella che il linguista definisce «idea illuministica della ragione»: una razionalità conscia, universa-le, indipendente dalla percezione corporea e soprattutto letterale e non sog-getta alle emozioni. Il rovesciamento di questo modello avviene in seguito alle evidenze scientifiche dell’esistenza di un inconscio cognitivo e del ruolo delle emozioni nel funzionamento del ragionamento e il contributo

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mentale per una critica della razionalità, secondo Lakoff, è quello di Anto-nio Damasio che, in L’errore di Cartesio, aveva dimostrato come la razionalità abbia bisogno dell’emotività per svolgere le sue funzioni (Damasio 1994, 93). Lakoff considera centrali in questo senso anche i citati studi in campo eco-nomico di Kahneman e Tversky, che, come si diceva, avevano già conside-rato il peso che le emozioni giocano anche sulle scelte economiche, tradi-zionalmente considerate le scelte razionali per definizione. Una delle conse-guenze della fiducia nel modello della ragione universale era infatti la con-vinzione che fornire cifre o dati e fatti agli individui fosse sufficiente per permettere loro di raggiungere una decisione razionalmente giusta, senza fa-re appello a valori ed emozioni. Le scoperte neuroscientifiche che contro-vertirebbero questo assunto conducono Lakoff a ipotizzare che l’aspetto che maggiormente ha contribuito al successo della comunicazione dei con-servatori americani sia stato il suo effetto emotivo.

L’emotività è una dimensione integrata nelle metafore. Esperienze che con-tribuiscono alla costruzione e al consolidamento di metafore primarie com-portano l’integrazione in queste strutture di una valutazione morale circa quello che è giusto e quello che è sbagliato, sulla base essenzialmente della desiderabilità o meno di un’esperienza. Per questo, secondo Lakoff, utiliz-ziamo quasi universalmente metafore secondo le quali il buio corrisponde a una condizione spiacevole e la luce a una piacevole.

Un esempio di applicazione di questo principio alla comunicazione politica, anch’esso particolarmente noto, è quello dell’espressione “tax relief” (Lakoff 2004, 115), che, come fa notare Di Pietro (2014, 5), è stato utilizzato anche nel contesto politico italiano nell’equivalente formula dello “sgravio fiscale”. All’interno di questo frame metaforico le tasse vengono metaforizzate impli-citamente come un peso dal quale ci si può liberare. Se viene fatto ricorrente impiego di questo frame, il pubblico si abituerà quindi a concepire prevalen-temente le tasse in questi termini emotivamente negativi.

Una simile riflessione sulla qualità intrinsecamente emotiva delle metafore deliberatamente scelte può essere certamente svolta anche con riferimento al lessico del lavoro guardando a metafore come “precariato”, “gabbie sala-riali”, “somministrazione”, “flessibilità”, “flexicurity”, “mobilità”, “stabilità”, “posto fisso”, “ammortizzatori sociali”, “mercato del lavoro”. In questi termini Juan Luis Conde Calvo ha sottolineato un possibile confronto tra la metafora della “flessibilità” e quella della “mobilità”. Quest’ultima restituisce una sensazione positiva, auspicabile perché «presenta i fatti come una buona opportunità che pare liberare il lavoratori da una paralisi», laddove invece il termine “flessibilità” evoca comunque l’obbligatorietà o la costrizione di una base di riferimento. Parlare di “mobilità” nasconderebbe quindi quello

che Conde considera comunque una condanna obbligatoria per il lavorato-re, ossia «la necessità perentoria di inseguire di città in città un contratto precario», tale per cui, addirittura, al personaggio “lavoratore” implicato dal frame della mobilità, «l’originale inglese “mobility” avrebbe dovuto essere tra-dotto con “migrazione” o “nomadismo” […] “transumanza”» (12).

Emozione e verità

Il ruolo delle emozioni nel formare le opinioni, e quindi il consenso, si è guadagnato proprio in tempi recentissimi largo spazio, a dire il vero più sui titoli di giornale e sul web che nei testi accademici (13). Recuperando il titolo di un libro dell’americano Ralph Keyes pubblicato nel 2004, si è giunti a parlare di “era della post verità”, ossia di un momento storico contrassegna-to in particolare da Brexit e dalla salita alla Casa Bianca di Donald Trump. Un’era nella quale nel formare l’opinione pubblica sembrano contare di più le emozioni suscitate dai racconti piuttosto che i fatti per sé stessi. Ciò indi-pendentemente da quale rapporto di coerenza esista tra la realtà fattuale e la sua rappresentazione. Questa almeno la definizione di “post-truth” data dall’Oxford Dictionary che l’ha proclamata a novembre 2016 parola dell’anno (14).

È facile osservare quanta pertinenza guadagni all’interno di questo fenome-no la teoria del framing da Kahneman e Tversky applicata alla rappresenta-zione nelle situazioni di scelta economica (cfr. supra, § 1.1). In particolare se si considera la fraseologia proposta dall’Oxford Dictionary:

In this era of post-truth politics, it’s easy to cherry-pick data and come to whatever conclusion you desire.

Il concetto di “post-truth” è andato poi affiancandosi sempre più spesso a quello di “fake news”, neologismo del 2017 secondo quanto riporta l’Enciclopedia Treccani, riferito alle notizie false diffuse attraverso la rete. A

(12) J.L.CONDE CALVO, Atlas desnudo: la mitología neoliberal, in LaMarea.com, 10 gennaio 2014. http://www.lamarea.com/2014/01/10/uni-en-la-calle-19/.

(13) Si vedano per esempio i seguenti titoli di quotidiani anglofoni: W.DAVIES, The age of post truth politics, in The New York Times, 24 agosto 2016; A.KIRSH, Lie to me, fiction in the post truth era, in The New York Times, 15 gennaio 2017; J.JACKSON, Post-truth era is perilous for media, says former Sunday Times editor, in The Guardian, 22 febbraio 2017; C.BARNETT, We may live in a post-truth era, but nature does not, in The Los Angeles Times, 10 febbraio 2017.

(14) La definizione riportata dall’Oxford Dictionary è la seguente: «Relating to or denoting cir-cumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than ap-peals to emotion and personal belief».

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ben vedere il giovane concetto di “fake news” ha sfumature diverse nel con-testo anglofono. Il significato a cui si riferisce la Treccani è infatti più corret-tamente ascrivibile all’espressione “bufale”, “hoaxes” in inglese, che identifi-ca le notizie prive di alcun fondamento, create ad arte deliberatamente (15).

Figura 1 – Ricerche Google per la query “post-truth”, tutto il mondo, ultimi 5 anni

Fonte: Google Trends

Figura 2 – Ricerche Google per la query “fake news”, tutto il mondo, ultimi 5 anni

Fonte: Google Trends

È ad ogni modo proprio la denuncia di tale scollamento fra rappresentazio-ne e realtà, pur non rappresentazio-necessariamente implicata dal termirappresentazio-ne “post-truth”, a mettere a rischio la proficua ricerca di una moderna nozione di “verità”. Ci si può infatti ragionevolmente chiedere se quella della post verità sia una novità assoluta nel campo della democrazia. Con ciò non intendo solo fare riferimento al fatto che l’esistenza del termine sia attestata dall’Oxford Dictio-nary già dal 1992 e che la sua comparsa sia direttamente connessa alla

ca (16). Mi riferisco piuttosto al fatto che la questione trova naturale cittadi-nanza non solo nella teoria del frame, bensì anche nella neoretorica novecen-tesca, nonché nella retorica antica, riconducendoci all’originaria distinzione fra pathos ed ethos e, in fondo, a quella tra verità e apparenza. È questo solo uno dei tanti motivi che portano ad introdurre ora la prospettiva teorica e filosofica della neoretorica.

(16) Nell’articolo individuato dall’Oxford Dictionary, ossia quello di Steve Tesich apparso su The Nation, l’autore scriveva a proposito della prima guerra del Golfo Persico: «We, as a free people, have freely decided that we want to live in some post-truth world». Come fa poi notare l’Accademia della Crusca, «una delle prime attestazioni di post-verità (la prima finora rintracciata) [è] in un articolo apparso sulla “Repubblica” il 1° maggio 2013, firmato da Barbara Spinelli, proprio in riferimento alla guerra del Golfo: “Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush ini-ziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono”. Qui siamo di fronte a usi ancora settoriali – spiega l’Accademia – nel 2016 la parola è diventata viralmente comune» (M. BIFFI, Viviamo nell’epoca della post-verità?, 25 novembre 2016, www.accademiadellacrusca.it).

CAPITOLO 2

La nuova retorica

Il fatto che la comunicazione sia un’attività imprescindibile dell’agire politi-co potrebbe ormai essere facilmente derubricato tra i luoghi politi-comuni patri-monio di tutte le generazioni cresciute nell’era dell’informazione mediata. Nonostante ciò, la comunicazione costituisce qualcosa di più di un semplice aspetto necessario dell’agire politico, come evidenzia la teoria del framing. La comunicazione assurge piuttosto a elemento costitutivo della politica. Tale legame strutturale fra politica e comunicazione non è una constatazio-ne recente, ma risale agli albori delle riflessioni sulla democrazia, trascen-dendone la storia e le trasformazioni. Giacché «L’uso dell’argomentazione presuppone che si escluda l’uso della violenza» (Perelman, Olbrechts-Tyteca [1958] 2001, 59), la retorica è concepibile come fondamento dell’ordine de-mocratico. In questo senso il comunicare costituisce il tratto distintivo, la quidditas, di quella forma di governo che per ottenere il consenso necessario ad essere esercitata sostituisce il potere deliberativo del discorso all’uso co-ercitivo della forza.

D’altronde nel IV secolo a.C. era stato il più autorevole dei codificatori della disciplina del discorso, Aristotele, a rivalutare esplicitamente la retorica co-me tecnica indispensabile alla vita pubblica. Diverse ricostruzioni storiche hanno inoltre sottolineato come l’interesse degli studiosi per la disciplina della retorica antica abbia conosciuto un andamento parallelo a quello della forma repubblicana e della preminenza politica della società greca. Proprio prendendo avvio dallo studio delle dinamiche discorsive delle antiche poleis, lo studioso del rapporto tra opinione pubblica e politica più influente del secondo Novecento, Jürgen Habermas, ha sviluppato una riflessione che, secondo alcuni suoi interpreti, giunge a ritenere che la comunicazione sia qualcosa di più di una condizione necessaria dell’esercizio politico, intrave-dendo la possibilità di promuovere la comunicazione a paradigma metasto-rico della politica. Secondo lo studioso di democrazia digitale Rony Meda-glia, Habermas sostiene infatti implicitamente che si possano recuperare gli elementi peculiari della sfera pubblica borghese, pur in un contesto struttu-ralmente differente (Medaglia 2004, 155). Le condizioni che rendevano

pos-sibile l’argomentazione e la decisione politica erano: «universalità, autono-mia, libero accesso» (ibid.). Guardando alle trasformazioni più recenti, sono proprio questi gli aspetti portati a sostegno della tesi di una democratizza-zione digitale da parte dei suoi apologeti. Sono condizioni che presiedono a quel fenomeno di disintermediazione cui Habermas farebbe implicitamente riferimento prescrivendo la tutela dell’autonomia comunicativa dalla interfe-renza delle “forze sociali”.

In questo panorama i social media costituiscono l’antitesi dei mezzi di comu-nicazione di massa. All’espansione e alla massificazione del pubblico desti-natario dei messaggi di pochi intermediari mediatici, all’uditorio indistinto contrassegnato dall’etichetta di “opinione pubblica”, si sostituisce l’ideale di una comunicazione diretta, orizzontale, non distorta e non pre-interpretata dai media. È proprio il fenomeno della c.d. “disintermediazione” che do-vrebbe far convergere l’attenzione degli studiosi sui discorsi prodotti dai comunicatori politici, piuttosto che sulla loro rappresentazione mediatica, sempre più spiazzata rispetto alla comunicazione diretta di un leader verso il suo pubblico.

D’altro canto, alla visione utopistica della democrazia disintermediata si contrappone però il rischio di una inconciliabilità tra le opinioni, complicata dalla frammentazione dei pubblici e dal ricatto sempre esercitabile da parte di minoranze organizzate (1).

Non solo: alcuni studi basati sull’analisi matematica dei dati prodotti dalle visite alle fonti contro-informative e di taglio complottistico presenti sui so-cial network (cfr. Aa.Vv. 2015) mostrano l’esistenza di un effetto circolare che porta gli utenti ad appiattire la varietà delle fonti scelte e delle opinioni in-contrate, andando in direzione contraria ai benefici di un pluralismo libero e autonomo. Le espressioni “filter bubble” e “confirmation bias” indicano proprio questo fenomeno, sempre più studiato. Ciò dimostrerebbe la persistente importanza dei ruoli di intermediazione nel trattamento delle informazioni, pur se non più centralizzata come in passato.

Come se non bastasse poi, la qualità democratica dell’informazione digitale ha mostrato in modo talmente evidente il lato più preoccupante della meda-glia del web, tanto da fare parlare di una “era della post verità”, soprattutto in ragione dello squilibrio assunto dagli aspetti emotivi della comunicazione politica nelle campagne che hanno portato al voto favorevole all’uscita della

(1) La capacità delle tecnologie digitali di formare ed attivare pubblici ha avuto come caso di studio prediletto la cosiddetta Primavera Araba, nella cui analisi si è cominciato a parlare di cyberpublics, formati e rafforzati attraverso l’uso dei social media, spesso attivati da poche per-sone (cfr. Riotta 2013, 80-97).

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Gran Bretagna dall’Unione europea e alla elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America del magnate Donald Trump.

La conclusione tratta è che nel formare l’opinione pubblica sembrano con-tare di più le emozioni piuttosto che i fatti stessi, indipendentemente da quale rapporto esista tra la realtà e la sua rappresentazione. Questa almeno la definizione di “post-truth” data dall’Oxford Dictionary a novembre 2016 quando l’espressione inglese è stata proclamata parola dell’anno. Questo termine è andato poi affiancandosi sempre più spesso a quello di “fake news”, neologismo affine all’espressione “bufale”, “hoaxes” in inglese, ma che in contesto anglosassone non identifica solo le notizie prive di alcun fon-damento, bensì anche diversi gradi di manipolazione retorica.

In entrambi i casi di Brexit e di “Trump President” si è trattato di eventi non prefigurati dai sondaggi e verificatisi inoltre in totale controtendenza rispetti ai messaggi prevalenti sui media mainstream, che proprio per questo nel contesto americano sono stati accusati dallo stesso Donald Trump di di-stribuire “fake news”. Non è un caso che il New York Times abbia scelto di condurre una campagna per gli abbonamenti attraverso dei claim pubblicita-ri come “Truth, discover it with us” o “Just facts. No alternatives”. Fatto sorpren-dente se si ritiene che, come osserva l’editorialista della stessa storica testata Roger Cohen, «fact-based journalism is a ridiculous tautological phrase. It’s like talking about oxygen-based human life» (2).

Tutte le dinamiche sin qui descritte si erano già manifestate, pur con impatti diversi, sia durante l’evoluzione della campagna comunicativa del Jobs Act, sia negli sviluppi della vicenda dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco, nonché nel più recente caso della contrattazione tra il sindacato dell’auto americano United Automobile Workers (Uaw) e la Fiat Chrysler Automobi-les (Fca).

Se, dunque, tali dinamiche invitano complessivamente a rivolgere attenzione ai discorsi dai quali prende origine il dibattito pubblico, ossia quelli prodotti dall’iniziativa dei leader, e se, come detto, la democrazia è, oggi come ai tempi di Aristotele, quel sistema che mette l’uso delle tecniche argomentati-ve al servizio del goargomentati-verno delle opinioni dei cittadini, e quindi del consenso, non è però comunque possibile descrivere l’attenzione antica e

(2) R.COHEN, Am I imaging it?, in The New York Times, 10 febbraio 2017. Si consideri anche il libro divulgativo di recente pubblicazione del Ceo del quotidiano statunitense Mark Thompson dal titolo La fine del dibattito pubblico. Nonostante l’ingannevole sottotitolo della versione italiana (“Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia”), l’autore dichiara: «Un tempo la retorica […] era considerata la regina delle scienze umane. Oggi vive in un limbo ovattato. Farò il possibile per rimetterla sul trono» (Thompson 2017, 2).

ranea per la retorica come se tra i due archi cronologici esistesse una conti-nuità.

La retorica nella sua forma antica ha anzi conosciuto un plurisecolare perio-do di abbanperio-dono da parte degli intellettuali a tutto vantaggio della continuità di una riflessione sul linguaggio meramente filosofica. La decadenza del ge-nere del discorso deliberativo (quello finalizzato a convincere un’assemblea pubblica della bontà di una decisione), conseguente alla fine della polis greca, nel corso dei secoli ha determinato infatti lo sviluppo dei soli elementi or-namentali del discorso, consolidando un legame tra retorica e letteratura a scapito dell’interesse per la componente argomentativa, che avvicina invece retorica e filosofia.

Da quello che Gérard Genette ha descritto come processo di «restringimen-to» (Genette 1970) si è ereditata la concezione che ancora oggi avvolge la retorica nel senso comune, una concezione che coinvolge spesso anche la comunicazione politica, identificata non come libero agire razionale finaliz-zato al consenso, ma come discorso senza sostanza, caratterizfinaliz-zato dalla pre-valenza del formalismo. Tale comunicazione politica si rovescia frequente-mente in politica comunicativa, o comunicante, nel senso di mero agire di-scorsivo, attributivo, senza parallele conseguenze prescrittive che prendano corpo nelle leggi.

Se la comunicazione politica è ormai considerata quale campo interdiscipli-nare autonomo, che trascende i confini della retorica antica e si avvale del contributo delle scienze sociali, linguistiche, antropologiche, poco frequente è stato invece il ritorno alla retorica per l’analisi della comunicazione politi-ca, dimensione che, come detto, pure ne aveva costituito la base.

Solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento si è assistito a una rivalutazione programmatica dell’antica disciplina della retorica come metodo argomentativo, dotato di una validità epistemologica, adeguato all’indagine filosofica, e anche allo studio del diritto.

Tale percorso avviene parallelamente in Europa e negli Stati Uniti descri-vendo quella che è oggi denominata “neoretorica”, ossia una corrente inter-disciplinare che amplia l’orizzonte tradizionalmente assegnato alla retorica classica come mera cosmesi letteraria, manipolazione del discorso vuoto e artefatto.

Il tentativo di restituire alla retorica un valore scientifico emerge evidente-mente negli Stati Uniti e in Nord America con l’opera di Kenneth Burke, A Rhetoric of Motives (1950), seguita dall’articolo intitolato Rhetoric – Old and New (1951), e in Europa dopo la pubblicazione del Traité de l’argumentation: la nouvelle rhétorique di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1958 [2001], d’ora in poi TA).

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L’interdisciplinarità della neoretorica è chiara anche solo osservando il cam-po di studi dai quali provengono i suoi due padri. Dice per esempio di Burke il critico Denis Donoghue (1985, 65):

Non è ancora chiaro che tipo di autore Burke sia, non sembra adeguato chiamarlo critico letterario, poeta, romanziere, scrittore di brevi racconti, sociologo o filosofo della storia.

L’interdisciplinarità è un tratto distintivo anche di Perelman, giurista polacco attivo a Bruxelles, addottoratosi con una tesi sull’opera di Gottlob Frege e co-autore insieme a una psicologa del TA, opera basata su un corpus di e-sempi provenienti da vari ambiti, dalla filosofia alla legge, passando per la politica e il giornalismo (cfr. Carr 1993, 475).