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Le riflessioni sin qui riportate in questo paragrafo offrono da un lato una descrizione riassuntiva di una storica linea di pensiero che riflette sulla reto-ricità della filosofia e delle scienze, soprattutto di quelle sociali. Dall’altro la-to abbiamo suggerila-to come, a partire dall’interesse delle scienze cognitive per le figure retoriche, si possa delineare anche un percorso inverso, ossia quello di una retorica il cui normale sviluppo scientifico seguirebbe quello «spostamento di enfasi» dal dominio del discorso a quello della mente, già esercitato dalla neoretorica di Perelman e Burke. Parrebbe a questo punto logico parlare di una “neuro-retorica”.

Ciò comporta tuttavia il rischio che tale impostazione neuro-retorica, in ba-se alla quale le nozioni della retorica sono reinterpretate dalla prospettiva delle scienze cognitive, si trasformi in un nuovo scientismo. Il rischio cioè di un “neuro-realismo” contro cui ci mette in guardia Jordynn Jack (2010, 405), curatrice del numero monografico della Rhetoric Society Quarterly. Il ri-sultato è infatti un’impostazione talvolta tendente al para-meccanicismo, in-teressata al funzionamento della persuasione come reazione al tocco di quell’«emotional button» parodisticamente ipotizzato da Jack.

La prospettiva teorica che assumiamo qui è invece quasi opposta, e cioè considera le recenti teorie cognitive alla luce della riscoperta della retorica, nella convinzione che sono alcune intuizioni del passato a permettere un corretto inquadramento dell’effettivo significato delle scoperte recenti. Il corredo concettuale della retorica non trae infatti il suo portato euristico e analitico dalle scoperte neuro-cognitive, ma semmai, come osserva Dan-blon, ne riceve una conferma, l’indicazione che quanto intuito dalla neoreto-rica ci poneva già su una buona strada, data la sua consapevolezza della cen-tralità della dimensione cognitiva, e cognitiva in quanto antropologica (cfr. supra, § 3.1).

È certo utile, in un’ottica retorica, conoscere le dinamiche neuro-cognitive che possono individuare dei principî di efficacia per la comunicazione. D’altronde, come osserva Emmanuelle Danblon nel suo libro dal significa-tivo titolo L’uomo retorico. Cultura, ragione, azione:

Le scienze cognitive offrono un apporto non trascurabile per […] coglie-re meglio i fenomeni che combinano sempcoglie-re l’idea di una coglie-retorica come facoltà e l’idea di una retorica tecnica (2015, 33).

Tuttavia questo non significa appiattire la critica retorica su una modellizza-zione neuro-quantitativa degli effetti di un testo. Se la retorica è una facoltà spontanea, la sua tecnicizzazione è infatti logicamente successiva e sconta le

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condizioni storiche del suo sviluppo. Per questo Danblon propone per e-sempio un modello che chiama “naturalista”, «un’opzione divenuta impre-scindibile per gli antropologi e gli psicologi, ma ancora marginale negli studi retorici» (ibid., 37).

Avere consapevolezza dell’effetto cognitivo della narrazione e della metafo-ra non esaurisce per esempio la ricerca delle metafo-ragioni della persuasività di una piuttosto che di un’altra metafora o narrazione, ossia dell’uso di questo o quest’altro frame, ragioni che sono agganciate soprattutto alla storia culturale di un contesto. Dice senza mezzi termini Jack:

[le neuroretoriche] possono tendere verso una feticizzazione acritica del cervello come oggetto di studio separato dal contesto storico e retorico (2010, 409).

A livello retorico infatti, contesto storico e culturale rimangono condizioni imprescindibili per l’analisi critica e un dispositivo testuale deve quindi esse-re sempesse-re considerato attraverso quelle pesse-remesse culturali che vengono dall’esperienza, come messo in evidenza d’altronde dal modello di una ra-zionalità incarnata, radicata nel vissuto personale.

È sempre quindi nell’interazione tra le facoltà mentali universali e il contesto storico-culturale che risiede il funzionamento di un testo, ossia, in ultima i-stanza, in quella topica che la retorica mette a fondamento della argomenta-zione e della quale, come vedremo, la noargomenta-zione di frame costituisce di fatto un contemporaneo corrispettivo (cfr. infra, § 3.6).

Il discorso politico a difesa di una riforma del lavoro, così come la comuncazione attorno a una negoziazione aziendale, non può reperire le stesse i-dentiche premesse in due contesti differenti, come sono, nei casi che an-dremo ad osservare, quello italiano e quello statunitense. Per fare qualche esempio, una certa tendenza autocritica della cittadinanza italiana non offre gli stessi luoghi del pride a stelle e strisce; l’individualismo americano non as-somiglia al familismo mediterraneo; la sensibilità civica statunitense verso il valore dell’onestà porta (“post-truth” permettendo) i politici ad avanzare i propri records come argomenti a favore della loro credibilità, comportamento alquanto raro in Italia. Che dire poi della concezione consumistica statuni-tense secondo cui poter consumare è un diritto dato per scontato non solo dalle imprese commerciali, ma spesso anche dai sindacati.

La stessa variabilità si osserva ovviamente anche dal punto di vista storico: la società industriale della crisi del 1929, che aveva coinvolto anche il settore automotive, non aveva evidentemente un tessuto produttivo e un mercato si-mile a quello del 2009 quando era iniziata l’operazione di acquisizione di Chrysler da parte di Fiat. Nonostante gli accostamenti tentati, le lotte

sinda-cali dell’Autunno Caldo del 1969 non emergevano da un contesto compara-bile a quello della grande manifestazione della Cgil del 2003 e tantomeno a quello dell’ottobre 2015, che ha visto il culmine delle proteste contro il Jobs Act.

Prima di passare all’analisi vera e propria dei nostri casi di studio dovremo affrontare una ricostruzione cronologica che tenga conto di diversi aspetti contestuali, in particolare socio-economici.

Una questione etica

Il paradigma della rappresentazione, ossia un paradigma sbilanciato sulla componente retorica, anziché su quella “neuro”, porterebbe all’estrema conseguenza della non valutabilità etica del discorso in quanto legittimereb-be una lettura relativista del discorso politico. È la critica fondamentale alla quale si espone il pensiero di Lakoff. Come detto, secondo Lakoff la spe-ranza che comunicando i fatti in sé si possano convincere gli elettori della bontà di una misura politica rispetto al loro interesse personale sarebbe in-fatti velleitaria. La comunicazione politica dovrebbe incentrarsi invece sulla comunicazione dei valori che orientano l’azione, piuttosto che indugiare sul-la descrizione dei fatti.

L’impossibilità di determinare una morale universale si potrebbe però tra-durre in puro relativismo culturale, giacché se l’unica verità è la connotazio-ne morale di una rappresentazioconnotazio-ne, la verità è sempre relativa. A questo ri-guardo risultano utili le parole rilasciate dal linguista in un’intervista di Ste-fano Di Pietro, ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma, nel 2009. Quando Lakoff viene interrogato da Di Pietro su questo punto, i fatti sem-brano riacquistare una certa centralità nel pensiero del linguista californiano. Egli chiarisce infatti che la necessità di incentrare il discorso politico sulla dimensione valoriale ed emotiva costituisce un principio di efficacia. Il man-tenimento di una certa coerenza tra i fatti disponibili alla rappresentazione, i mezzi utilizzati nell’azione politica normativa e i valori comunicati è in cari-co sostanzialmente all’oratore politicari-co. Durante il citato cari-colloquio personale che ho avuto con Lakoff, egli ha riassunto il principio di una comunicazione politica efficace, ma comunque etica, parlando proprio di «honest framing»:

There’s a difference between honest framing and manipulative framing. I’m studying framing to let the people do honest framing and to know the difference between manipulative framing and honest framing (5).

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La buona comunicazione politica è in sostanza per Lakoff una comunica-zione dove la coerenza tra i fatti riportati, la visione morale implicata dalle politiche comunicate e le emozioni suscitate dalle metafore e dalle narrazio-ni utilizzate (e quindi dai frames) si mantengono tra loro coerenti. Se insom-ma il discorso politico è sempre espressione di una morale, non sempre è onesto. È in questo modo che Lakoff risolve la questione del controllo eti-co, del rapporto tra discorso e fatti.

Anche in questo caso non vi è alcuna novità rispetto alla posizione della ne-oretorica. Ciò che la nuova retorica invita a riconsiderare è il fatto che, an-che in condizioni di sincerità, il discorso dell’oratore è sempre un esercizio persuasivo e quindi retorico.

Perelman e Olbrechts-Tyteca nel TA sottolineavano come per Aristotele l’argomentazione non scindesse ragione, morale, ed emozione dal compor-tamento, rappresentandole piuttosto come sfere interdipendenti (logos, ethos e pathos). Esiste quindi un forte ed antico nesso tra la retorica e le nozioni di verità, credibilità, etica, comportamento; rapporti che, in una parola, vengo-no raccolti nella sfera della politica. Secondo Elio Raimondi

Per Aristotele la retorica è un momento all’interno di una teoria generale del comportamento dell’uomo come ente pubblico, una zona che pertie-ne al linguaggio in quanto fondatore del comportamento sociale […]. E se la retorica appartiene alla sfera del comportamento pubblico, è anche intimamente congiunta all’etica (2002, 19-20, citato in Venier 2013, 642). Si tratta di un’osservazione centrale per analizzare uno degli aspetti più este-si della comunicazione politica del Jobs Act, al quale dedicheremo particolare spazio. Dopo l’approvazione di tutti i decreti attuativi, quando l’attenzione si è spostata verso gli effetti della riforma, si è assistito a un’esaltazione della dimensione numerica funzionale a reclamare l’esistenza di una verità indi-scutibile e necessaria. All’uso dei dati corretti sono state così associate le a-nalisi oneste, contrapposte alle critiche infondate, alle interpretazioni errate, o addirittura alle affermazioni falsificatorie e menzognere.

Tale concezione della sfera del numero è stata promossa in particolare dalla comunicazione governativa. L’esecutivo ha infatti invitato più volte a consi-derare i numeri “ufficiali” come espressioni di fatti indiscutibili, per loro na-tura indisponibili a una qualsivoglia contesa retorica. Secondo questo argo-mento i dati sarebbero dotati di un carattere verofunzionale tale da permet-tere di determinare la verità della più semplice delle asserzioni valutative del-la riforma del del-lavoro: Il Jobs Act funziona. Lo slogan scelto per promuovere le slide pubblicate il 29 agosto, volte a descrivere i risultati di due anni di

go-verno, recitava per esempio: Numeri, non chiacchiere. Presentando l’iniziativa nella sua e-news l’ex Presidente del Consiglio scriveva:

Dire la verità in modo semplice e chiaro, offrire numeri e cifre è possibi-le. Poi ognuno si fa una propria opinione. Ma i numeri sono chiari. Le ci-fre non mentono.

Vale la pena, quindi, di distinguere chiaramente alcuni concetti ormai spesso confusi nel commento politico che origina dai dati del lavoro, ossia quelli di errore e menzogna. Tali concetti possono essere individuati da due condi-zioni distinte: la condizione di correttezza e la condizione di onestà. Siamo in presenza di un errore quando il discorso dell’esecutore non riguarda fatti realmente accaduti o entità realmente esistenti. Ciò indipendentemente da cosa pensi l’esecutore rispetto a quanto affermato. La menzogna si verifica invece quando «l’esecutore non crede alla verità di ciò che racconta» (cfr. Pi-santy 2009, 5). Ciò che individua quindi la menzogna non è la mancanza di fondamento di quanto affermato, né la scorrettezza delle prove portate a sostegno di un argomento, bensì la mancanza di onestà. Si mente sempre sapendo di mentire e il discrimine è l’intenzione: mentirei anche nel caso in cui cioè che affermo, ma in cui non credo, si rivelasse corretto. Va quindi da sé che un errore può anche rivelarsi una menzogna. Tuttavia è sufficiente una delle condizioni summenzionate per classificare un ragionamento come er-rore o come menzogna.