2.3. Una sola nuova retorica? Burke e Perelman a confronto
2.3.2. Una nuova retorica per il lavoro
La vicinanza tra le nozioni di identificazione e comunione e la concezione della figuratività del linguaggio costituiscono due tratti di forte somiglianza tra i due contemporanei percorsi della nuova retorica in Europa e in Nord America. Ma è probabilmente un terzo aspetto, ancora più pervasivo, che lega trasversalmente Perelman e Burke, permettendo di parlare oggi di una sola nuova retorica. Si tratta della concezione del rapporto tra retorica e ve-rità e, da questa, della concezione del rapporto tra oratore e pubblico. Il confronto tra Burke e Perelman alla ricerca del perimetro di una sola neo-retorica risulta così importante anche per chiarire perché, trattando di lavoro e di relazioni industriali, ho voluto scegliere questa corrente di studi a scapi-to invece della neodialettica, o pragma-dialettica, proposta dalla Scuola di
Fondata sul lavoro. La comunicazione politica e sindacale del lavoro che cambia
Amsterdam di Frans van Eemeren e Rob Grootendorst (cfr. van Eemeren, Grootendorst 1984). Come sottolinea infatti Venier, in Italia attualmente chi fa teoria dell’argomentazione si colloca sulla scia di questa scuola, che adotta una prospettiva dichiaratamente dialettica e normativa, parlando appunto di “nuova dialettica” anziché di “nuova retorica”. Pur ispirandosi dichiarata-mente a Perelman, questi autori si pongono in contrasto con il suo pensiero affermando che lo scopo dell’argomentazione non è la persuasione, bensì lo «scambio dialogico teso al raggiungimento della verità» (Venier 2008, 108-110; cfr. anche Ead. 2013, 660).
Considerando le premesse esposte all’inizio di questo lavoro, ossia il supe-ramento del conflitto ideologico tra capitale-lavoro (la cifra della grande tra-sformazione dei rapporti di produzione), sarebbe evidentemente pertinente assumere l’impostazione dialettica della Scuola di Amsterdam.
Bisogna osservare però che uno «scambio dialogico teso al raggiungimento della verità» può ben essere individuato come obiettivo dell’argomentazione anche dalla prospettiva della neoretorica, senza bisogno di implicare un «contrasto insanabile tra persuasione e verità» (ibid.). È con un’operazione come quella già descritta di Venier, che mette a confronto neoretorica e pragmatica, che si mostra la «non casualità della convergenza tra tante cor-renti di pensiero, la non casualità di una svolta» per la quale
la ragione della retorica non è «una logica meno perfetta ma più flessibi-le» di quella formale, ma è l’ambito del nostro agire linguistico, l’unico che possediamo (ibid., 642).
Anche secondo la visione di Francesca Piazza, che ha dedicato molto lavoro ad Aristotele,
guardare all’attività del persuadere come ad uno dei luoghi in cui si mani-festa il nesso, specificamente umano, tra logos e polis non significa tanto sostenere che gli esseri umani riescano davvero a persuadersi su ogni co-sa […]. Significa piuttosto […] che parlare per cercare di persuadere non è uno dei tanti usi del linguaggio (da affidare magari ad abili professioni-sti); ma una possibilità costitutiva della specifica cognitività umana (2008, 11-12, citata in Venier 2013, 638).
È anche uno sguardo storico a giustificare questa affermazione. Come fa notare Piazza, la persuasione e la verità sono praticamente fatte coincidere già da Aristotele nella sua Retorica.
Si vede subito che la dimensione della verità è continuamente messa in gioco in tutta la sua difficile – ma ineludibile – relazione con la
dimen-sione del persuasivo. E d’altra parte, come potrebbe essere altrimenti? Di che cos’altro cerchiamo di persuaderci l’un l’altro se non, appunto, della verità (presunta o reale, ma questo è un altro problema) di ciò che dicia-mo? È Aristotele stesso a dichiararlo, quando nella sua Retorica afferma che noi: «persuadiamo attraverso il discorso […] quando mostriamo il vero […] o ciò che appare tale […] a partire da ciò che è persuasivo in relazione a ciascun caso» (Aristotele 1356a, 19-20, citato in Piazza 2011, 122-123).
Secondo Piazza questa citazione basta a mostrare quanto la coppia ve-ro/falso sia lontana dalla prospettiva di Aristotele quando parla del discorso retorico. Anche le proposizioni che non hanno la pretesa di essere “vere” ma solamente “verosimili” si impegnano su stati di cose del mondo, seppure con un differente grado di certezza (2011, 123).
Proprio il rifiuto della separazione tra dimostrazione e argomentazione è, come detto (supra, § 2.1), il punto di partenza della riflessione di Perelman, che si era sempre opposto alla formalizzazione della teoria della argomenta-zione. E la verità diventa quindi in questa prospettiva niente di più di ciò di cui ci persuadiamo, con diversi gradi di certezza a seconda del dominio di discorso. Per converso si può così illuminare da un punto di vista filosofico quella “incertezza” delle scienze sociali ed economiche indicata dagli studi di Kahneman e Tversky (cfr. supra, § 1.1).
Similmente la neoretorica americana, nelle parole di Antoine Compagnon (11), si distingue per l’allontanamento da una impostazione secondo la quale il discorso è essenzialmente contrappositivo e polemico e dove verità e falsità combattono tra loro. Tale impostazione, come abbiamo visto illustrando i tipi di identificazione descritti da Burke, apparterrebbe piuttosto alla “vec-chia retorica”. Compagnon, scrivendo della retorica di Burke, afferma infatti che «la vecchia retorica era aggressiva, la nuova retorica è cooperativa, mu-tuale, consensuale» (Compagnon 1999, 1258).
Anche di questo Perelman è consapevole, giacché nel suo saggio del 1968 Burke viene citato una seconda volta. Poco dopo aver paragonato comu-nione e identificazione, Perelman riporta la stessa citazione di Burke scelta da Compagnon, tratta da Rhetoric of Motives (1950), ricordando come per l’americano la retorica fosse
radicata in una funzione essenziale del linguaggio stesso, una funzione completamente realistica e continuamente rinata; l’uso del linguaggio come un mezzo per indurre cooperazione in esseri che per natura
(11) Noto studioso francese che ha partecipato all’epica impresa, curata da Marc Fumaroli, di redigere una sorta di summa della storia della retorica.
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spondono ai simboli (Burke 1950, 67, citato in Perelman [1968] 2000, 1388).
Se quindi Burke voleva allargare l’ambito della teoria della retorica oltre il suo focus convenzionale sulla persuasione intenzionale, deliberata, Perel-man e Olbrechts-Tyteca miravano invece a sottolineare la funzione sociale della retorica che loro credevano venisse trascurata nel modo classico di trattare il discorso epidittico (Gage 2013, 124; cfr. infra, § 1.2.1). Sia le pro-poste teoriche di Burke sia quelle di Perelman offrono quindi una sorta di terza via per la ragione che va oltre la dicotomia tra logica illuminista, posi-tivismo logico (ragione cartesiana) e scetticismo o relaposi-tivismo radicale. En-trambi i pensatori condividono una visione della verità come costruzione sociale e il ruolo della molteplicità di prospettive (Fernheimer 2014, 46). In entrambi i progetti, l’argomentazione è guidata dal desiderio di arrivare a una nozione condivisa di verità che sia accettata da più pubblici, che dipen-da dipen-dalla loro reazione, e che rimanga sempre aperta alla modifica successiva per via di altri argomenti (ibid., 43-44).
Diversi autori sottolineano le ragioni storiche di tale convergenza tra i pro-getti di Burke e Perelman. Per Gage (2013, 124), come per Fernheimer (2014, 43), il loro pensiero si sviluppa in risposta alla problematica della ve-rità, del giudizio di valore, imposta dalla Seconda guerra mondiale. Fatto che per quanto riguarda Perelman e Olbrechts-Tyteca è espressamente dichiara-to nell’introduzione al TA, dove gli audichiara-tori affermano che il modello carte-siano della ragione non ha saputo fornire un antidoto contro le tragedie del-la guerra.
Quella neoretorica è quindi, per così dire, un’argomentazione che permane aperta e pertanto, come sintetizza Reboul, nella neoretorica
non ci sono argomenti infallibili, poiché ogni argomento può essere con-traddetto da un altro argomento. […] L’argomentazione non è per que-sto fallace; se ogni argomento può diventare sofistico per abuso di prova, è anche vero che può non diventarlo e che si parla a buon diritto di un’oggettività dell’argomentazione. In altri termini, non si richiede a un argomento solo di essere efficace, cioè di persuadere l’uditorio. Gli si ri-chiede di essere giusto, cioè di persuadere qualsiasi uditorio, di rivolgersi all’uditorio universale. A quali condizioni può farlo? Esponendosi delibe-ratamente alla discussione, alla controargomentazione. E qui ritroviamo il grande principio: ciò che salva la retorica è che l’oratore non è solo, che la verità si trova e si afferma alla prova del dialogo. Sia con gli altri. Sia con se stessi ([1994] 2002, 208).
Danblon specifica ancora meglio il senso della ricerca neoretorica che si confà al nostro obiettivo di studio, incentrato sulla rappresentazione della modernità del lavoro. La retorica dovrebbe infatti avere la precipua funzio-ne di riconfunzio-nettere coppie oppositive delle quali la rappresentaziofunzio-ne politica è pervasa e tra le quali quella formata da capitale e lavoro costituisce una di-cotomia ancora persistente.
Tutto ciò che noi percepiamo in coppie oppositive deve essere ripensato insieme. A questa condizione, essenziale, possiamo ritrovare la natura e l’utilità delle funzioni della retorica […]. Le opposizioni sono ideologiche ma la realtà è continua […]. Si tratta quindi di rendere alla retorica la sua anima con un gesto assai semplice. Laddove la tradizione vede un’opposizione, conviene ritrovare una filiazione (Danblon 2015, 37-38). Si tratta in sostanza di quella qualità dialogica del metodo della neoretorica di cui si è detto nel secondo capitolo (cfr. supra, § 2.3.2), ossia della capacità di ricomporre un accordo partendo da posizioni contrapposte.
In sintesi, la letteratura critica sembra quindi offrire tutti i presupposti per assumere la neoretorica come prospettiva utile ad individuare sia un metodo d’analisi sia un metodo di produzione dei discorsi argomentativi relativi al mondo del lavoro e alle sue trasformazioni, in una visione alternativa a quel-la meramente conflittuale. Di fronte alquel-la neoretorica, quel-la dialogicità non appa-re infatti una pappa-rerogativa esclusiva della dialettica. Non trovo quindi la ne-cessità di rinunciare alla retorica nei termini di una disciplina che, nella sua consapevolezza contemporanea, considera il pubblico non come mero de-stinatario, ma come un uditorio da coinvolgere e convincere per mezzo del discorso.
CAPITOLO 3
Frame e retorica a confronto
Come descritto nel primo capitolo, il concetto di frame si sviluppa e viene applicato all’analisi della comunicazione politica in maniera irrelata non solo rispetto alla disciplina dell’antica retorica, bensì anche al suo recupero avvia-to in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del Novecenavvia-to. Tuttavia sono evidenti alcune connessioni tra le teorie che utilizzano il ter-mine “frame” e la retorica, in particolare nel ruolo assegnato dalle prime alla figuratività del linguaggio, alla narrazione e all’emozione, nozioni tutte già considerate dalla trattatistica classica.
Come abbiamo visto, tali nozioni subiscono una traslazione sul livello co-gnitivo. La descrizione di un suo eventuale valore retorico viene complicata da una certa confusione tra il piano testuale della comunicazione e il piano prettamente cognitivo dell’interprete. La frame analysis non si pone però nei suoi teorici come un superamento della retorica classica né come una sua rivalutazione in senso cognitivo. Pochi sono anzi gli autori che accostano frame e retorica riconoscendo cioè nel concetto di “frame” un valore comuni-cativo descrivibile nell’ottica della retorica.
Eppure, svolgendo un confronto diacronico, lo sviluppo della frame analysis e il recupero della retorica si muovono nel solco dell’evoluzione delle scienze del linguaggio verso una visione pragmatica del linguaggio come agire e co-me agire simbolico. Un’ipotesi cognitiva particolarco-mente evidente in campo statunitense, che guida la retorica di Burke e che fonda la teoria di Lakoff. In senso sincronico, quindi, retorica e frame possono essere guardati dalla stessa prospettiva e possono essere considerati unitariamente, pur senza es-sere assimilati.