1.2. Il frame nella comunicazione politica
1.2.3. Storytelling: un alter ego del frame?
La parola che negli ultimi dieci anni è stata più spesso associata alla comuni-cazione politica è certamente “storytelling”, concetto spesso sostituito in ita-liano con quello di “narrazione”. La fiducia nell’efficacia comunicativa del racconto si è dimostrata pervasiva in diversi campi. Sotto la generica insegna di storytelling, il principio della narrazione ha orientato le nuove teorie del marketing, del giornalismo, dell’organizzazione aziendale, dell’orientamento professionale, della psicologia, dell’insegnamento… È andato così manife-standosi quello che è stato definito «narrative turn» (Bruner 1990 [1992]) (6). Nonostante il concetto sia ormai divenuto di dominio pubblico e sia impie-gato in maniera alquanto a-tecnica, l’importanza della narratività si basa sugli studi sviluppati all’interno di quella branca della semiotica che studia i testi narrativi, la narratologia. Si tratta di una disciplina che nelle sue origini strut-turaliste si manifesta attraverso teorizzazioni alquanto complesse e diversifi-cate, impiegate anche nell’analisi della comunicazione politica.
(6) Un ulteriore cambio paradigmatico che si aggiunge a quelle che, con una intuitiva meta-fora spaziale (Mininni 2003, 24), nel secondo Novecento sono state definite “svolte”: quella linguistica codificata da Rorty nel 1967, quella “discorsiva” nella psicologia di Harré e Gil-lett (1994), nonché la svolta iconica codificata all’inizio degli anni Novanta da Boehm e Mi-tchell (cfr. Boehm 1994 [2009]; MiMi-tchell 1994 [2008]).
Fondata sul lavoro. La comunicazione politica e sindacale del lavoro che cambia
I punti di contatto tra frame e narrazione sono molti. L’ipotesi di fondo della narratologia (7) è d’altronde un’ipotesi cognitiva piuttosto semplice: le pro-prietà del racconto, prima ancora che essere una caratteristica dei testi, sa-rebbero caratteristiche proprie del modo con il quale gli esseri umani orga-nizzano e interpretano le loro esperienze. In altre parole, il senso sarebbe colto dagli esseri umani solo quando formulato narrativamente. Quello della narratività sarebbe quindi un meccanismo cognitivo fondamentale, che por-ta ad attribuire un senso narrativo alle successioni di eventi consequenziali, ossia a trattarli come cause ed effetti secondo la logica del post hoc, ergo propter hoc.
Le più recenti teorie che impiegano il concetto di frame ipotizzano una base neurologica non solo per la semantica, e quindi per la metafora, ma anche per la narrazione. In From Molecule to Metaphor (2006) Jerome Feldman, stu-dioso della c.d. brain science, ha descritto come le narrazioni complesse con le quali entriamo in contatto nella vita quotidiana, sia quelle naturali sia quelle finzionali, sarebbero costituite a loro volta da narrazioni con strutture sem-plici dal punto di vista neurale, chiamate proprio frame o script, comprensive di ruoli e relazioni tra ruoli. Concordando con Feldman, Lakoff afferma che le narrazioni semplici sarebbero frames ma con strutture aggiuntive, date dai punti di vista che determinano il positivo e il negativo e dai circuiti neurali che collegano emozioni ritenute appropriate in corrispondenza di determi-nati tipi di evento (Lakoff [2008] 2009, 24).
È stato soprattutto Jerome Bruner, studioso di psicologia culturale, ad attri-buire a questa concezione narrativa importanti aspetti socio-culturali. Se ne possono riconoscere almeno tre. Secondo Bruner, «la vita collettiva sarebbe difficilmente possibile se non fosse per la capacità umana di organizzare e comunicare l’esperienza in forma narrativa» (Bruner 2002, 18). Inoltre «la condivisione di storie comuni crea una comunità di interpretazione» (ibid., 29): è soprattutto attraverso le nostre narrazioni che costruiamo una versio-ne di noi stessi versio-nel mondo, ed è «attraverso la sua narrativa che una cultura
(7) Il termine “narratologia” è stato coniato da Todorov nel 1965, ma l’autore al quale maggiormente si deve la produzione di un lessico tecnico condiviso è stato il lituano Algir-das Greimas, autore a sua volta debitore delle analisi sviluppate da Vladimir Propp per un verso e per l’altro da Claude Lévi-Strauss. Con i suoi studi strutturalisti sulla fiaba di magia contenuti nel suo Morfologia della fiaba (Propp 1928 [2000]) l’autore russo aveva influenzato Greimas con l’idea di poter rinvenire una struttura comune a tutti i racconti attraverso una sintassi di funzioni narrative. Non è difficile notare una somiglianza tra l’idea di una struttu-ra profonda della narstruttu-razione e la nozione di fstruttu-rame coniata negli stessi anni di attività di Greimas, ossia quel frame inteso come situazione stereotipata che comprende un set di e-venti o azioni normalmente possibili e che nasceva all’interno delle ricerche sulla intelligen-za artificiale.
fornisce ai suoi membri modelli di identità e capacità di azione» (Id. [1996] 2001, 12). Secondo questa prospettiva psico-culturale, nel vedere sé stessi nei termini di soggetti protagonisti di narrazioni, noi ci rappresentiamo in-consciamente come se disponessimo solo delle scelte possibili definite dai frames e dalle narrazioni culturali, con la loro inerente tinta emozionale. Per-tanto, quando si affronta un periodo di crisi, si smarrirebbe la trama narrati-va che orienta le azioni secondo un senso e che compatta un’identità perso-nale. Il filo narrativo conferisce senso alla successione delle proprie azioni e permette di rispondere a domande come “Chi sono (che ruolo ho)?”, “Che progetto ho?”, “Cosa voglio?” e “Perché?” (8).
Secondo Lakoff, al di sotto delle superficialità culturali, molte narrazioni ri-sulterebbero comunque simili. In questi casi il linguista parla di “narrazioni profonde”, per esempio quelle che chiama “narrazioni di salvazione”. Il framing realizzato attraverso una narrazione può costituire una metonimia, come nel caso della narrazione esemplare dove la vicenda di un individuo sia proposta come rappresentativa della vicenda di tutti i componenti di un gruppo, oppure una metafora. Nelle parole di Lakoff:
You can have metaphorical narratives, like you have a hero that rescues someone. That rescue narrative applies in politics, that is a metaphorical application (9).
L’idea di una competizione per la conquista di oggetti di valore presente nel-le fiabe (10) si presta ad essere applicata nella comunicazione orientata alla
(8) Il pensiero di Bruner si discosta quindi dall’analisi narratologica strutturalista in senso stretto in quanto quello che conta non è tanto il modo in cui un testo è costruito, ma il fat-to che esso venga utilizzafat-to operativamente per costruire la realtà da parte della mente, in quella che si manifesta come una narrative construction of reality (Bruner 2002, 32).
(9) Colloquio personale con George Lakoff, a Berkeley, il 12 maggio 2016.
(10) Lakoff aveva già osservato la struttura comune a molte fiabe popolari confrontandosi proprio con le analisi di Vladimir Propp e organizzando già nel 1964 un incontro della Lin-guistic Society of America. Qui lo studioso aveva presentato un testo intitolato Structural Complexity in Fairy Tales, rimasto inedito sino al 1972 (Lakoff 1972). In ogni caso i concetti sviluppati successivamente da Lakoff paiono tutte versioni neuro-cognitive delle originarie intuizioni greimasiane. L’analisi dei miti effettuata da Lévi-Strauss aveva infatti influenzato Greimas sul piano della semantica, con l’idea di una struttura profonda dei valori culturali, costituita da significati in relazione di contrarietà. Ciò implicava per Greimas il «carattere polemico della narrazione ossia lo scontro tra due percorsi narrativi: quello del soggetto e quello dell’anti-soggetto [che] si svolgono in due direzioni opposte ma [sono] caratterizzati dal fatto che i due soggetti mirano a uno stesso oggetto di valore» (Greimas, Courtés [1979] 2007, 217). Per Greimas qualsiasi categoria semantica può essere rappresentata su un qua-drato semiotico e può essere investita di una determinata disposizione affettiva, ossia di
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conquista della leadership politica, esattamente come fatto da Lakoff. Lo strumento più efficace per raggiungere questo obiettivo sarebbe quello delle narrazioni morali, soprattutto di quelle “cultural narratives” che, oltre a coin-volgere l’uditorio, incorporano una visione morale, una rappresentazione valoriale di una determinata azione proposta. La ricorrenza della narrazione culturale dell’American Dream, per esempio, è chiara negli Stati Uniti, deposi-tata nei molteplici racconti di Horatio Alger aventi come protagonisti giova-ni lavoratori della working class che raggiungono il successo grazie ai mezzi offertigli dalla società. È questa narrazione che sarebbe inconsciamente atti-va nel pubblico quando i politici rappresentano la Nazione come una co-munità diretta verso il progresso, anche quando non venga fatto diretto rife-rimento all’American Dream.
Nei casi che andremo a prendere in esame l’aspetto conflittuale del confron-to costituisce un tratconfron-to determinante e la ricerca sistematica di una contro-parte si rivela funzionale allo sviluppo di un programma narrativo confacen-te alle rispettive auto-rappresentazioni delle forze conservatrici e delle forze progressiste. Non per questo però, come vedremo più avanti, la prospettiva narratologica può essere applicata acriticamente.
Il rapido declino dello storytelling
Nonostante la riconosciuta proprietà costruttiva delle storie, lo storytelling sta incontrando critiche sempre più frequenti che sorgono dal suo uso all’incrocio fra constatazione e prefigurazione di una situazione sociale. Con riferimento proprio alle politiche dal lavoro, basta uno sguardo agli articoli di commento politico (11) pubblicati nel periodo che è seguito alla approva-zione di tutti i decreti attuativi previsti dal Jobs Act per rendersi conto di co-me si stia assistendo al frequente ricorso alla parola “storytelling” in senso de-teriore, ossia denunciando una operazione di cosmesi narrativa cerimoniata dall’ex Presidente del Consiglio Renzi e volta a istituire relazioni di cause-effetto, spesso non giustificate, tra i deboli segnali della ripresa economica e occupazionale e le misure messe in campo dall’esecutivo.
La degenerazione della reputazione del c.d. storytelling non è però circoscritta all’ambiente del giornalismo d’opinione. Anzi, è nel panorama accademico
un’attrazione o una repulsione di base. A questo investimento di valore, disposto a coppie di opposti, Greimas dà il nome di “assiologizzazione”.
(11) C. DI FOGGIA, A novembre cala, ma Poletti non esulta. Ecco perché, in Il Fatto Quotidiano, 30
dicembre 2015; C. DI FOGGIA, M.PALOMBI, Cassa integrazione: il governo fa festa, ma il dato è falso, in Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2015; M.BELPIETRO, Siamo allo “storyballing” e a dirlo non è un gufo ma quelli che fanno i conti, in Libero, 26 agosto 2015; D.DI VICO, Le distanze sociali crescono e la rete dà voce al rancore, in Il Corriere della Sera, 22 maggio 2016.
che la fiducia incondizionata nel paradigma della narrazione è entrata in cri-si. La sociologa americana Francesca Polletta allude alla fiducia incondizio-nata nel paradigma dello storytelling e alla pretesa di un potere esplicativo u-niversale della narratologia con questa elencazione:
I manager sono tenuti a raccontare storie per motivare i loro lavoratori e i medici sono formati per ascoltare le storie dei loro pazienti. Anche i reporter hanno aderito al giornalismo narrativo e gli psicologi alla terapia narrativa. Ogni anno decine di migliaia di persone entrano nel National
Storytelling Network, o partecipano a uno dei circa duecento festival di stor-ytelling organizzati negli Stati Uniti. Basta un colpo d’occhio in una
qualsi-asi libreria per constatare il successo impressionante dei libri dedicati all’arte dello storytelling, considerata come un cammino verso la spirituali-tà, una strategia per candidati a borse di studio, un modo per risolvere i conflitti o un piano per perdere peso (Polletta 2006, 1, citato in Salmon 2008, 5).
Nonostante la grande fortuna riscontrata dal paradigma interpretativo dove la narrazione assurge a macro-configurazione dell’agire e del comunicare po-litico, essa si sta quindi caricando di un valore dispregiativo, individuando una sorta di illusoria taumaturgia della narrazione o peggio di diffusa mani-polazione affabulatoria. La narratività sta passando quindi dall’essere inter-pretata come un meccanismo fondamentale della comprensione dei fatti a venire invece intesa come un dispositivo politico per il governo delle menti, da una narrazione come articolazione cognitivamente ricca a una narrazione vuota e ingannevole.
Quanto sta accadendo sembra rispecchiare quello che è stato il destino della più antica delle discipline del discorso, ossia la retorica. Anzi, in questo sen-so storytelling e retorica sembrano essere considerati come equivalenti rive-lando in realtà la diffusione di una concezione prevalente ancora poco mo-derna del discorso persuasivo.