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I rapporti tra neoretorica europea e neoretorica statunitense

La traduzione del TA porterà il pensiero di Perelman negli Stati Uniti solo nel 1969, ossia diciotto anni dopo la pubblicazione di uno degli articolo ca-posaldo della nuova retorica statunitense ad opera di uno degli autori più influenti nelle teorie americane della comunicazione di tutto il Novecento: Rhetoric – Old and New di Kenneth Burke, pubblicato nel 1951.

La ricerca di Burke si distingue a prima vista da quella di Perelman non solo per lo scarto temporale di sette anni (ricordiamo che il TA viene pubblicato in Europa nel 1958), bensì soprattutto per il fatto di intrattenere con la reto-rica classica un rapporto meno esclusivo di quanto si verificasse nell’opera di Perelman. La retorica del filosofo americano si inserisce infatti nel solco della sua riflessione sulla comunicazione in senso generale, intesa come atti-vità umana e come azione simbolica. Secondo le letture critiche del corpus scientifico di Burke, la nuova retorica burkeiana sarebbe infatti assimilabile a una visione in tutto e per tutto semiotica, fatto che impone di spiegare quali

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aspetti accomunino l’opera di Burke all’opera di Perelman, permettendo di parlare di una sola “neoretorica”.

Dal punto di vista della tradizione filosofica, l’impostazione dell’americano rivela un debito verso il pragmatismo fondato dal connazionale Charles Sanders Peirce. Come ha scritto Umberto Eco, se si adotta una definizione di segno quale quella coniata da Peirce, la dimensione pragmatica costituisce non solo un aspetto della lingua, indagato poi dalla pragmatica linguistica, ma anche una dimensione eminentemente semiotica, ossia da inscriversi in una teoria generale del segno.

Dire che la pragmatica è una dimensione della semiotica non significa privarla di un oggetto. Significa invece che l’approccio pragmatico ha a che vedere con la totalità della semiosi, la quale, per essere compresa pienamente, dev’essere avvicinata anche da un punto di vista pragmatico (Eco 1990, 259).

L’ipotesi filosofica di fondo della semiotica peirceiana è che l’uomo non ab-bia accesso diretto alla realtà, che gli si offre solo attraverso i segni che si frappongono tra lui e gli oggetti del mondo. Peirce definisce il segno come qualsiasi oggetto materiale che sia interpretato da qualcuno nei termini di un altro oggetto secondo «qualche rispetto o capacità» pertinente rispetto al contesto. La definizione di Peirce implica mettere l’interprete al centro del processo di costruzione del significato. Quella di Peirce è quindi una pro-spettiva pragmatica, in cui il significato attribuito dall’uomo ai segni dipende dall’uso che egli ne fa.

Per almeno un aspetto fondamentale il pragmatismo peirceiano, che tanta influenza ha avuto sulla semiotica di Burke, è accomunato a quanto accadu-to in Europa parallelamente allo sviluppo del pensiero di Perelman e che ha portato alla nascita della pragmatica linguistica. Tale aspetto è costituito dal superamento della disputa tra logicisti e anti-logicisti. Il riconoscimento di una comprensiva dimensione pragmatica si manifesta infatti anche in Euro-pa, ma proprio nella linea di studi che hanno concepito il linguaggio come un “fare”. Il punto di partenza di una riflessione pragmatica all’interno delle scienze del linguaggio è il secondo Wittgenstein. Nelle sue Ricerche filosofiche (1953) il filosofo osservava che la coerenza tra i concetti espressi in un di-scorso ordinario poggia non su rigide regole logiche, ma sulle “somiglianze di famiglia”. Questo concetto di somiglianza comporta una dinamica rela-zionale per la quale la parola non è più messa in un rapporto di identità con la realtà. Il filosofo austriaco rinunciava così allo studio del linguaggio for-male a favore della ricerca di una logica intrinseca nel linguaggio ordinario, per giungere poi alla consapevolezza che il linguaggio trae il suo significato

dal suo contesto d’uso. Le proposizioni del linguaggio ordinario, quindi, non possono essere trattate in base al criterio di verificabilità. John Austin, le cui posizioni teoriche (How to Do Things with Words, 1962) sono di fatto ri-tenute fondative del nuovo ramo della linguistica, sviluppava la “teoria degli atti linguistici” proprio in sintonia con la svolta di Wittgenstein. Dopo que-sto breve riassunto della nascita della pragmatica linguistica non sorprenderà forse che anche la retorica possa essere messa in rapporto con la pragmatica linguistica, almeno se si utilizza la lettura pragmatica di Perelman proposta da Federica Venier nel 2008. Lo studio della linguista bergamasca è infatti volto a ricondurre retorica e pragmatica linguistica all’interno di una pro-spettiva unificata (cfr. Venier 2008, 11) (6).

Tutto ciò per dire qualcosa che si sarà già intuito: ad uno sguardo ampio si può osservare nel corso del Novecento una diffusa e trasversale tendenza al superamento di una concezione cartesiana della ragione che affiora nei di-versi procedimenti teorici che hanno voluto ricondurre ad unità l’antica se-parazione tra la logica e la retorica/dialettica, sia questa unità quella dell’argomentazione che include la dimostrazione, quella della pragmatica linguistica che include la retorica, o quella che include la retorica nella se-miotica, come fatto da Burke.

(6) Nel suo libro Il potere del discorso, Venier tenta di avvicinare in un modo nuovo il recupero della retorica aristotelica attuato da Perelman alla nascita della pragmatica. Da un lato ve-dendo le connessioni storiche fra l’operazione di Austin e quella di Perelman, in un comune atteggiamento etico verso le tragedie della prima metà del Novecento; dall’altro vedendo in quale misura la retorica possa configurarsi come una parte della pragmatica, tesa com’è al conseguimento di un obiettivo perlocutorio come quello del persuadere. Così come nel TA la dimostrazione scientifica è inglobata nell’argomentazione, similmente Austin non nega la differenza tra enunciati constativi (riferiti agli oggetti del mondo) ed enunciati performativi (che implicano il compimento di un atto, come promettere o ordinare), ma li ritiene tratta-bili all’interno di un’unica teoria secondo la quale, come detto, ogni proferimento costitui-sce non solo un’enunciazione (locuzione), ma un vero e proprio agire finalizzato (illocuzio-ne) che comporta effetti più o meno previsti (perlocuzio(illocuzio-ne). Ciò porta Venier a ritenere che il discorso volto alla persuasione sia da ricondurre nel più ampio alveo delle facoltà perfor-mative del discorso. La studiosa conclude così che allo stato attuale retorica e pragmatica linguistica risultano essere discipline non reciprocamente sovrapponibili, bensì variamente intrecciate quando osservate in prospettiva diacronica. In prospettiva sincronica, però, ac-costare retorica e pragmatica significa includere la prima nella seconda, facendone la parte che si occupa dell’azione persuasiva, quindi solo di una delle possibili azioni linguistiche. Nell’intento storico di questo lavoro Venier mette così in rilievo una «comune matrice ari-stotelica sottesa tanto all’opera di Perelman, e dunque alla rinascita della retorica, quanto ai lavori di John Austin e di Paul Grice, e dunque ai due principali esponenti della riflessione che condurrà alla nascita della pragmatica linguistica» (Venier 2013, 638). Questa comune matrice è appunto una concezione del linguaggio in termini di attività, concezione ben evi-dente, come vedremo, anche nell’opera di Burke.

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Vedremo al fondo della prima parte di questo libro quale è il principio car-dinale di questa tendenza generale. Per il momento proseguiamo la rassegna critica sin qui impostata descrivendo meglio come questa si sviluppi nell’opera di Burke.

2.2.1. La semiotica di Burke

Come detto, la nuova retorica di Burke si inscrive evidentemente in una ri-flessione semiotica. Quando nel 1951 viene quindi pubblicato Rhetoric – Old and New, la concezione dell’attività semiotica umana era già stata sviluppata dall’autore in diverse opere precedenti (7). Tutta la ricerca di Burke si trova quindi già evidentemente impostata nei termini di un agire simbolico ricor-sivo dove la realtà ha effetti sensibili, e può essere usata per indurre effetti sensibili sugli altri.

Burke però non si concentra tanto su una teoria generale della comunica-zione, ma dedica la maggior parte della sua attenzione all’uso specifico della lingua. Quella che emerge in Burke è quindi la consapevolezza di fondo di un procedimento semiotico che presiede alla costruzione simbolica del rea-le, che viene realizzata però soprattutto per mezzo delle parole.

Da qui la concezione di un “terministic screen”, uno “schermo terminologico” che si frappone tra gli oggetti del mondo e gli interpreti filtrandone alcuni aspetti (8).

Identificazione e funzione politica

Il problema della semantica per Burke è intrinsecamente politico, perché si inscrive nella funzione sociale del linguaggio di «trascendere le divisioni u-mane e ottenere l’identificazione» ([1950] 1969, 72). La retorica è radicata per Burke proprio nell’uso del linguaggio come «mezzo simbolico per in-durre cooperazione» (ibid., 43). Per questo la retorica diventa per lui un agire simbolico, un «struttura simbolica come integrazione» (ibid., 121).

(7) Permanence and Change (1935), Attitudes toward History (1937), A Grammar of Motives (1945) e A Rhetoric of Motives (1950). Già nel 1957 Paul Meadows scrive The Semiotic of Kenneth Burke, analizzando come tale concezione si fosse evoluta in quelle opere. Qualche anno più tardi rispetto a Meadows, in un articolo dagli analoghi intenti (Kenneth Burke’s Semiotic, 1978), Ri-chard Fiordo evidenzia questo stesso aspetto della semantica burkeiana.

(8) «Any such screen necessarily directs one’s attention to a particular field within which there can be different screens for spinning out the implications of the given terminology» (1966a, 50).

Il principio sotteso a tutta l’attività semiotica umana per Burke è quello della “identificazione”, che costituisce la discriminante fra nuova e vecchia retori-ca. Scrive Burke:

Se dovessi riassumere in una parola la differenza tra la “vecchia” e la nuova “retorica” (una retorica rinvigorita da freschi insight che le “nuove scienze” hanno portato alla disciplina), la ridurrei a questo: la parola chiave per la “vecchia” retorica era “persuasion” e il suo focus era l’intento deliberato [deliberate design]. La parola chiave per la “nuova” reto-rica sarebbe “identificazione”, la quale può includere un fattore parzial-mente “inconscio” in appello (1951, 203).

Per Burke ciò che bisogna indagare è qualcosa che non sta né nella inten-zione dell’oratore solamente, né nell’interpretainten-zione idiosincratica degli in-dividui, bensì si colloca a metà strada. È quel contenuto intersoggettivabile che Burke descrive così:

Un’area intermedia dell’espressione che non è interamente intenzionale né interamente inconscia. Giace a metà strada tra il proferimento senza scopo [aimless utterance] e il discorso diretto a uno scopo [speech directly

pur-posive] (1950, XIII).

Burke distingue tre tipologie di identificazione secondo le sue diverse dina-miche. L’identificazione per simpatia (identification by sympathy) è una modalità deliberata perseguita per esempio, scrive Burke, da un politico quando si ve-ste, si comporta e parla come il suo pubblico. Questo tipo di identificazione però coincide con la vecchia retorica (1973, 268). La modalità di identifica-zione che per Burke è distintiva della nuova retorica è invece l’identification by antithesis, ossia quella raggiunta mostrando «some opposition shared in common». È questa che permette di approfondire l’analisi portandola al li-vello di quella che l’autore chiama underlying rhetoric. Si tratta di un processo facilmente riconoscibile nei due casi che prenderemo in esame, caratterizzati da un conflitto tra attori contrapposti, talvolta coinvolti nel dibattito dalla controparte come capro espiatorio al fine di aggregare un consenso, come nel caso dell’attacco di Matteo Renzi ai sindacati, messo in atto come argo-mento a difesa del Jobs Act.

Burke cerca però un livello ancora più profondo di identificazione osser-vando non tanto gli argomenti proposti, ma il “non detto”. Lo studioso chiama identificazione by inaccuracy or unawareness quell’identificazione basata sull’inconsapevolezza del pubblico rispetto ad alcuni aspetti della situazione reale che vengono esclusi dalla situazione retorica. L’analisi può quindi sem-pre raggiungere il livello di quella tensione costitutiva tra una rapsem-presenta-

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zione di una situazione e le rappresentazioni alternative di cui il pubblico, identificatosi con l’oratore, resta inconsapevole.

Per Burke questa tensione ha a che fare con ogni prospettiva situata, perché essa è da un lato “possessed” da una tradizione, un’ideologia, e dall’altro è gui-data da un impulso creativo a «inventare nuove soluzioni» ([1935] 1936, 267) rappresentative della realtà.

Riassumendo: la riflessione di Burke procede dal processo di attribuzione di significato ai termini della lingua, per poi passare alla definizione retorica di una situazione, sino ad arrivare all’effetto politico della definizione dei gruppi sociali. Questo percorso si sviluppa sempre secondo una costante dinamica analogica (cfr. Fiordo 1978, 65) in una sorta di continuum della persu-asione. Personalmente credo però che sia ancora più efficace un’altra metafo-ra per descrivere il modello di Burke. Dal significato dei termini a quello dei gruppi sociali Burke descrive una sorta di procedimento “spiroidale” dell’agire simbolico: un andamento circolare e insieme progressivo (9).