1.1. Cronaca di una riforma annunciata
1.1.4. L’inizio delle polemiche
Insieme all’apprendistato, il decreto-legge che costituirà la prima parte del Jobs Act, nonché la prima misura legislativa messa in campo dal Governo Renzi, modificherà anche il lavoro a termine con l’obiettivo di facilitare le assunzioni. Tale tipologia contrattuale diventa infatti oggetto di una discussa e ampia liberalizzazione. Il decreto Poletti abolisce la causale per i contratti di lavoro a termine per una durata di 36 mesi e la contesa tra PD e Ncd si incentra sul numero di proroghe possibili durante tale periodo. Nuovo Cen-tro Destra (Ncd) e Partito democratico (PD), le due principali forze politi-che politi-che compongono la maggioranza di Governo, si confrontano per due settimane prima di raggiungere un accordo per la conversione in legge del decreto. In base al luogo dell’efficacia, che tornerà più volte nella comunica-zione di Renzi, il Premier si sottrae dichiaratamente alla partita interna alle Commissioni Lavoro di Camera e Senato, presieduta la prima da Cesare Damiano (PD) e la seconda da Maurizio Sacconi (Ncd). Tale contesa appare volta sostanzialmente a intestare alla propria parte politica il titolo di vera anima riformista del Governo. Renzi, associando i due litiganti, dichiara al Tg1:
Loro sono il partito dei chiacchieroni, noi facciamo le cose concrete. Stiamo qui a discutere se le proroghe sono 5 o 8, si decida, noi vogliamo governare.
(2) Cgil, Cisl e Uil promuovono Renzi: ci ha ascoltati. Critiche da Fi, M5s e Lega, in Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2014.
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Intanto il 3 aprile viene presentato il disegno di legge che contiene le dele-ghe al Governo per la decretazione sui vari ambiti del Jobs Act. Il titolo è: Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di so-stegno alla maternità ed alla conciliazione. La legge delega viene messa a punto grazie a una larga squadra di tecnici, che non comprende però alcun rappre-sentante delle parti sociali. Il fatto conferma un profilo dell’impostazione politica di Renzi che emerge sempre più chiaramente nel corso del 2014. Il Premier persegue non solo l’autonomia, ma la totale indipendenza dai sin-dacati e dalle associazioni datoriali, già messi in guardia il 9 marzo quando, nuovamente ospite a Che tempo che fa, Renzi aveva affermato:
Ascoltiamo Confindustria e Cgil, Cisl e Uil ma decidiamo noi. Avremo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione.
Un colpo al potere di intermediazione salariale del sindacato viene poi por-tato indirettamente dal Governo con l’approvazione del cosiddetto “decreto Irpef”, in vigore dal 1° maggio 2014. Il decreto prevede la diminuzione della tassazione sul lavoro ma viene ricordato per il fatto di concretizzare tale ta-glio sotto forma di un aumento di 80 euro in busta paga per circa 10 milioni di lavoratori.
A ottobre, ai microfoni della Leopolda Renzi teorizzerà poi esplicitamente il valore politico della «disintermediazione dei corpi intermedi», visione con-fermata ancora più esplicitamente qualche giorno dopo durante un’intervista a Otto e mezzo (La7), dove il Premier dichiarerà la volontà di escludere il sin-dacato anche dalla discussione sulla legge di stabilità; probabilmente la più perentoria epigrafe non solo della già esaurita esperienza della concertazio-ne, ma anche del dialogo sociale (cfr. infra, § 1.1.4).
Intanto, a partire da aprile, l’esclusione del sindacato dal confronto relativo alla modifica del disegno di legge delega acuisce le tensioni tra le varie cor-renti della minoranza del PD, vicine soprattutto alla Cgil, e Ncd. Come det-to, le due aree detengono le presidenze delle Commissioni Lavoro, rispetti-vamente quella della Camera, nella persona dell’ex sindacalista Cesare Da-miano, e quella del Senato, nella persona di Maurizio Sacconi, già protagoni-sta della protagoni-stagione del Libro Bianco stilato da Marco Biagi nel 2001. Il con-fronto già occorso attorno al decreto Poletti si ripete, tramutandosi in scon-tro aperto e trasmettendosi anche a livello sociale, grazie alla mobilitazione dei sindacati.
Il confronto è serrato soprattutto perché in fase di approvazione della dele-ga il parere della commissione e gli emendamenti proposti diventano vinco-lanti per il Governo. Una volta che la legge delega sarà però approvata, i
de-creti saranno emanati dall’esecutivo senza che esso debba tenere necessa-riamente conto di altri pareri. Il 29 maggio 2014, durante una riunione di di-rezione del suo partito, Renzi descrive quindi con una ormai classica meta-fora bellica la disputa intorno al Jobs Act, ribadendone la dimensione simbo-lica e la priorità programmatica: «Il lavoro è la madre di tutte le battaglie». Il vero innesco della battaglia sarà costituito da un argomento che Renzi a-veva dichiarato più volte di voler tenere fuori dal dibattito: l’articolo 18. Il confronto tra Governo, minoranza del PD, opposizioni e parte del sindaca-to non è però ancora entrasindaca-to nella sua fase polemica acuta. Ancora solo il 9 giugno 2014 il segretario della Cgil Susanna Camusso, parlando durante un dibattito con il Ministro Poletti, afferma per esempio che, dal punto di vista dell’imprenditore, il contratto a tutele crescenti «risolve il problema dell’articolo 18», cioè lo supera, ma aggiunge che esso «ricostruisce le tutele del lavoro che oggi sono scomparse».
La dichiarazione della Camusso si spiega se si considera che in quel momen-to il contratmomen-to a tutele crescenti è ancora concepimomen-to nel dibattimomen-to pubblico come un “contratto unico” che verrebbe applicato soltanto ai lavoratori in ingresso nel mondo del lavoro. Il passaggio della legge delega relativo al contratto a tutele crescenti è però piuttosto vago. Invero, è complessiva-mente tutto il disegno di legge a essere criticato per la sua ampiezza, che, se-condo gli scettici, permetterebbe al Governo una eccessiva discrezionalità. L’articolo 4 (Delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali), comma 1, lettera b, recita:
Redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate secondo quanto indicato alla lettera a), che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via spe-rimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti.
Posto che il testo non parla di “contratto unico”, l’interrogativo riguarda quindi ciò che non viene precisato dalla delega. Il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherà solo ai nuovi assunti? Che cosa significa poi “tutele crescenti”? Di che natura sarebbero le tutele? E in che senso sarebbero cre-scenti? Si tratterà di uno “scatto” della tutela reale (ossia il diritto del dipen-dente al reintegro in caso di licenziamento illegittimo previsto dall’articolo 18), dopo un determinato periodo di tempo?
Tali domande non suscitano però un distinto interesse nell’opinione pubbli-ca, almeno fino all’agosto del 2014. Lo si osserva bene guardando le curve dei volumi di ricerca per il termine “Jobs Act” visualizzate su Google.
Fondata sul lavoro. La comunicazione politica e sindacale del lavoro che cambia Figura 1 – Volumi di ricerca Google Trends per la query “Jobs Act”, Italia, 2004-2016
Fonte: Google Trends
La questione dell’articolo 18 implicata dalla locuzione “tutele crescenti”, in-fatti, non ha ancora conquistato il dibattito pubblico. Il confronto tra gli at-tori istituzionali comincia a spostarsi più stabilmente verso l’articolo 18 solo a partire dalle parole di Angelino Alfano, segretario di Ncd, che durante la quiete feriale estiva esprime l’auspicio che nel Consiglio dei Ministri del 29 agosto il Governo approvi «l’abolizione dell’articolo 18», definito come un «vecchio totem degli anni Settanta». Alfano chiede inoltre che tale misura sia adottata all’interno di un differente decreto chiamato “sblocca-Italia”. Vo-lendo ridimensionare ulteriormente il valore della contesa specifica sull’articolo 18, durante la conferenza stampa del 1° settembre 2014 Renzi tenta di rappresentare nuovamente la discussione come un dibattito ideolo-gico:
Io dico tutte le volte: mi sembra un tema un po’ ideologico. E si riparte con le paginate: “articolo 18 sì”, “articolo 18 no”, “articolo 18 no”, “arti-colo 18 sì”.
Renzi riconnette quindi il problema al Jobs Act e riconduce i termini della questione alla auspicata riscrittura dell’intero Statuto dei lavoratori.
Io le confermo quello che abbiamo sempre detto: uno che nella delega riscriviamo lo Statuto dei lavoratori, due che vanno cambiati gli ammor-tizzatori sociali. Questo è guardare la luna anziché il dito.
Nell’incertezza determinata dal testo della legge delega, il Jobs Act viene in-fatti inquadrato dai media e dai commentatori come potenziale riscrittura complessiva dello Statuto dei lavoratori, rimandando quindi al paragone con l’Autunno Caldo del 1969, stagione storica altamente conflittuale, che aveva portato proprio allo Statuto dei lavoratori.
Renzi coglie il frame proposto dai media rispondendo a una domanda duran-te una trasmissione duran-televisiva su Rai 3 (Millennium), il giorno dopo le dichia-razioni di Alfano:
È giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori? Sì, lo riscriviamo. E riscri-vendolo pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bam-bino perché non ha le garanzie minime. Non parliamo solo dell’articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni […]. Oggi l’articolo 18 è assolutamen-te solo un simbolo, un toassolutamen-tem ideologico; proprio per questo trovo inutile stare adesso a discutere se abolirlo o meno. Serve solo ad alimentare il dibattito agostano tra gli addetti ai lavori.
Lo ripeterà dai cantieri dell’Expo di Milano il giorno seguente:
L’ultimo tema di cui abbiamo bisogno è una discussione ideologica sull’articolo 18. Possiamo evitarla riscrivendo tutti insieme la delega per la modifica dello Statuto dei lavoratori.
Proprio all’interno di questa cornice di discorso, i rapporti tra il Premier e i sindacati si incrinano definitivamente. Il 9 settembre Susanna Camusso, par-tecipando alla prima puntata della trasmissione Diciannovequaranta (La7), an-nuncia l’idea di una manifestazione nazionale a ottobre, allo scopo di rimet-tere il lavoro «al centro dell’attenzione» e sollecitare «decisioni di politica e-conomica». Per l’occasione la Cgil cercherà il coinvolgimento di tutto il sin-dacato confederale. Si legge sul comunicato stampa della Cgil:
Le riforme vanno fatte, ma non contro i lavoratori e la Cgil è disposta a discutere una modifica dello Statuto dei lavoratori, ma per renderlo più inclusivo, non per ridimensionare i diritti esistenti, conquistati con anni di lotte.
L’attacco al Governo è sufficientemente esplicito. D’altronde già a maggio, durante il congresso nazionale della Cgil dal titolo Il lavoro decide il futuro, Camusso aveva elencato le priorità del sindacato indicando quattro sfide: riforma delle pensioni; riforma degli ammortizzatori sociali; contrasto al la-voro povero; misure fiscali con al centro la lotta all’evasione. Di queste sfi-de, solo la riforma degli ammortizzatori sociali costituirà una parte del Jobs Act.
Nove giorni dopo Camusso parla ancora contro Renzi, facendo riferimento alle liberalizzazioni e all’attacco al sindacato operati dal Primo Ministro bri-tannico Margaret Thatcher negli anni Ottanta. Secondo il segretario della
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Cgil, Renzi avrebbe «un po’ troppo in mente il modello della Thatcher». Camusso parafrasa l’analogia parlando di «politiche liberiste estreme» e dell’idea che «è la riduzione dei diritti dei lavoratori lo strumento che per-mette di competere» (3). È l’occasione per Renzi per includere definitiva-mente i sindacati tra i suoi oppositori. Il Premier replica infatti rapidadefinitiva-mente con un videomessaggio:
Chiedo dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande in-giustizia che ha l’Italia, l’inin-giustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi il lavoro non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario […]. Sono i diritti di chi non ha diritti quelli che ci interessano, e noi li difen-deremo in modo concreto e serio (4).
Intanto l’iter della riforma affronta il dibattito al Senato. Renzi cerca un compromesso tra Ncd e minoranza del suo partito. Il 17 settembre 2014 un retroscena di Francesco Bei de La Stampa rivela che Renzi avrebbe confida-to ai suoi più stretti collaboraconfida-tori la maturata intenzione di intervenire sull’articolo 18 per decreto legge, mantenendo il reintegro per i licenziamen-ti disciplinari. Lo strumento del decreto non viene adottato, ma durante la riunione di direzione del PD del 29 settembre 2014 viene effettivamente approvato un ordine del giorno che impegna il partito a mantenere il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori e al-cune tipologie di licenziamenti disciplinari, i più diffusi, che andranno defi-nite in fase di decretazione. Il Premier dichiara infatti:
Io credo che [il reintegro] vada superato dandogli una giustificazione da sinistra. Certo, lasciandolo come doveroso e costituzionalmente garantito per i discriminatori. Certo, lasciandolo per il disciplinare. E io accetto la sfida per una qualificazione puntuale di entrambe queste fattispecie. […] Ma se vogliamo dare tutela ai lavoratori non è difendendo una battaglia che non ha più ragione di essere, è finalmente intervenendo su altri temi, su una rete più estesa di ammortizzatori sociali con una garanzia del red-dito per i disoccupati.
Altri nodi di discussione sono il licenziamento per scarso rendimento, il co-siddetto opting out (la possibilità di licenziare anche in caso il giudice ordini la reintegrazione, ma corrispondendo un indennizzo più elevato), e l’applicazione della nuova disciplina anche ai licenziamenti collettivi.
(3) Il video della dichiarazione di Susanna Camusso è reperibile al seguente URL: https://www.youtube.com/watch?v=B66vkdFMEME.
(4) Il videomessaggio di Matteo Renzi è reperibile al seguente URL: https://www.youtube.com/ watch?v=lNg8eAcodEw.
L’ordine del giorno votato soddisfa solamente una delle minoranze del PD, quella dei cosiddetti “giovani turchi”, che fa capo al presidente del partito Matteo Orfini. Restano contrarie alla delega tutte le altre anime minoritarie del PD e viene scontentato anche l’Ncd, che, in vista del successivo dibatti-to alla Camera, avrebbe preferidibatti-to un tesdibatti-to più esplicidibatti-to in materia di licen-ziamenti. La minoranza del PD presenta sette emendamenti al Senato, tra i quali uno volto ad assicurare l’articolo 18 ai neoassunti dopo tre anni. Nell’incertezza dei numeri, il Governo pone quindi la questione di fiducia sul disegno di legge.
L’approvazione della legge delega al Senato è attesa per il 5 ottobre. In gior-nata il Governo presenta un maxiemendamento interamente sostitutivo del disegno di legge che compie ulteriori modifiche in direzione delle richieste della minoranza PD, come il mantenimento del tetto all’uso dei voucher e dei livelli retributivi in caso di demansionamento. Il “sì” alla fiducia giunge all’una di notte, con ampio margine (165 “sì”, 111 “no” e due astensioni), ma ostacolato dall’ostruzionismo dei senatori del Movimento 5 Stelle. Durante la riunione di Direzione del 29 settembre Renzi aveva anche lancia-to una nuova sfida al sindacalancia-to «su tre punti: una legge sulla rappresentanza sindacale degna di questo nome, il collegamento con la contrattazione di se-condo livello e il salario minimo». Il 7 ottobre avviene il primo incontro fra Governo e sindacati al termine del quale Renzi parla di «intese sorprenden-ti». Susanna Camusso afferma invece che l’unica novità è stata la convoca-zione di un secondo incontro per il 27 ottobre sul tema della legge di stabilità. Il 13 ottobre il Premier è a Confindustria Bergamo. Qui la vicenda del Jobs Act inizia ad intrecciarsi con quella della legge di stabilità 2015. Durante l’ultima direzione del suo partito Renzi aveva ammesso: «ho la responsabili-tà di non aver saputo comunicare la storiciresponsabili-tà del grande taglio del costo del lavoro» operato con gli sgravi contenuti nel decreto sull’Irpef approvato a maggio. Forse proprio per questo motivo, durante la presentazione del dise-gno di legge di stabilità 2015, Renzi pone il nuovo taglio di tasse sul lavoro come elemento centrale della prima manovra finanziaria del suo Governo. A partire dal 1° gennaio del 2015 le imprese che assumono a tempo inde-terminato godranno di un generoso sgravio contributivo: fino a 8.060 euro all’anno per tre anni per ogni dipendente neoassunto. Complessivamente vengono stanziati 18 miliardi. È una costosa misura che nel 2015 avrà effetti sensibili, riconosciuti trasversalmente, sull’aumento percentuale di contratti a tempo indeterminato avviati.
Il 25 ottobre 2014 si incrociano due eventi dalla grande valenza comunicati-va. Sulla piazza fisica e su quella mediatica si sfidano il corteo dei sindacati Cgil e Uil, all’insegna dell’hashtag #tutogliioincludo, e la Leopolda: la
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convention del PD. Pochi giorni prima, il 18 ottobre, ha avuto luogo anche la mobilitazione nazionale organizzata separatamente dalla Cisl. Diversi son-daggi registrano in quei giorni la disaffezione degli italiani nei confronti del sindacato. Il 71%, secondo la stima dell’istituto Ixè per la trasmissione Agorà (Rai 3), non avrebbe fiducia in loro. Rispetto ai tre milioni di persone con cui la Cgil affermava di aver riempito il Circo Massimo durante la grande manifestazione del 2002, il numero dichiarato questa volta si dimezza. La mobilitazione conferma però chiaramente lo scontro con il Governo. Nel frattempo sul palco della Leopolda si susseguono diversi imprenditori. Dal convegno dei Giovani Imprenditori a Napoli il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi risponde in diretta al discorso di Susanna Camusso, ammo-nendo che «uno sciopero non è quello che serve in questo momento», men-tre servirebbero invece le infrastrutture digitali, necessarie a richiamare inve-stimenti stranieri. Annamaria Furlan, in un’intervista di Antonella Baccaro per il Corriere della Sera, formula un più preciso giudizio provvisorio sul tratto a tutele crescenti, precisando che, come per la Cgil, «Il reintegro con-tro i licenziamenti discriminatori e disciplinari […] non si tocca». Per quanto riguarda i neoassunti la Cisl è invece disponibile «a discutere che per tre o quattro anni non scatti l’articolo 18 se si assorbono nel contratto a tutele crescenti le forme di precariato» (5).
Due giorni dopo la conclusione della Leopolda, il 27 ottobre 2014, si tiene il secondo incontro, già programmato, tra Governo e sindacati, con al centro la questione della legge di stabilità. Susanna Camusso lo definisce “surreale” e aggiunge:
Non abbiamo discusso, ma ascoltato la relazione del Ministro Padoan. A questo punto avrebbero potuto mandarci un’e-mail e sarebbe stato ugua-le. L’esecutivo non vuole nemmeno provare a misurarsi. Questo non ci pare un governo innovatore. Non c’è stato un reale confronto. Avevamo avvisato che in assenza di risposte saremmo andati avanti con lo sciopero generale. Mi pare che siamo in assenza di risposte.
All’incontro partecipavano i Ministri Pier Carlo Padoan (economia e finan-ze), Poletti, Marianna Madia (semplificazione e pubblica amministrazione) e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Matteo Renzi, assente, risponde a Camusso in serata attraverso le telecamere di Otto e mezzo (La7):
(5) A. BACCARO, Le critiche della Cisl sulle misure “Ma no allo sciopero”, in Corriere della Sera, 27 ottobre 2014. L’articolo è reperibile al seguente URL: http://www.bollettinoadapt.it/le-critiche-della-cisl-sulle-misure-ma-allo-sciopero/.
La cosa surreale è che la Camusso dica che si deve trattare. Deve trattare con gli imprenditori, non con il governo. Le leggi il governo non le scrive trattando coi sindacati. Noi ascoltiamo tutti, dobbiamo parlare col sinda-cato, ma è il momento che in Italia ognuno torni a fare il suo mestiere. Noi abbiamo detto: questa è la nostra manovra, diteci cosa pensate, an-che via mail. Ma nessuno può pensare di trattare sulla legge di Stabilità (6). Intanto, sul fronte del Jobs Act, ottenuta la fiducia al Senato il disegno di leg-ge delega deve passare in prima lettura alla Camera. Renzi afferma che il Governo porrà la questione di fiducia anche in questo ramo del parlamento, ma solo se ce ne sarà bisogno. Il 13 novembre il Premier decide infine di non farlo accogliendo alcune delle modifiche proposte dalla sinistra parla-mentare del PD e aprendo la strada al successivo voto favorevole anche in