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1.2. Il frame nella comunicazione politica

1.2.1. Metafora e metonimia

Il concetto di frame, in tutte le sue versioni, descrive innanzitutto una dimen-sione cognitiva prima che comunicativa e testuale: i frames possono essere pensati come schemi, strutture di concettualizzazione di situazioni, conden-sate dalla lingua. Come sintetizza efficacemente Calabrese, il frame esprime

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la convinzione che ogni nostra nuova esperienza viene compresa sulla base di un confronto con un modello stereotipico, derivato da esperienze simili registrate nella memoria: ogni nuova esperienza è valutata sulla ba-se della sua conformità o difformità rispetto a uno schema pregresso (2013, 29).

Il funzionamento del frame sembra quindi basarsi su una dinamica analogica di confronto tra schemi cognitivi. È questo a ben vedere l’elemento della teoria dei frames portato a estreme conseguenze dalla sua applicazione alla comunicazione politica così come effettuata dal linguista George Lakoff, l’autore più celebre in materia degli ultimi quindici anni.

La linguistica cognitiva e la metafora concettuale

Il linguista di Berkeley George Lakoff è considerato il fondatore di un nuo-vo cognitivismo che prende avvio dall’allontanamento dalla fortunata scuola generativista di Noam Chomsky (3).

La nozione che ha portato Lakoff al successo internazionale è quella di «me-tafora concettuale». Benché tale concetto assuma una centralità definitiva già nel 1975 (cfr. Di Pietro 2014, 47), una dimensione cognitiva della figura re-torica della metafora era stata ipotizzata anche dal filosofo Mark Johnson, il quale si trasferì all’Università di Berkeley nel 1979, incontrando Lakoff. Il primo risultato della collaborazione tra i due fu un testo ancora oggi capita-le, Metaphors We Live By (1980), nel quale viene introdotta la distinzione tra

(3) La teoria generativista si distingue per una concezione cognitiva della linguistica: essendo per Chomsky il linguaggio una capacità mentale innata, la linguistica costituisce parte della psicologia. Inoltre per i generativisti il linguaggio sarebbe dovuto ad una struttura genetica, indipendente dal suo uso nel contesto sociale, motivo per cui la linguistica si dovrebbe con-centrare sulla ricerca delle proprietà universali comuni a tutte le lingue, attraverso un’analisi che postuli più livelli di profondità del linguaggio (Graffi 2010, 358). Questa visione del lin-guaggio come struttura cognitiva stratificata che precede l’interazione sociale venne conte-stata da diverse correnti, tra le quali una interna alla stessa grammatica generativa, la c.d. semantica generativa. Questo termine sembra essere dovuto proprio a George Lakoff, che è annoverato quindi oggi tra i protagonisti di quelle che lo storico della linguistica Giorgio Graffi definisce “guerre linguistiche” (ibid., 364-365). Seguendo le osservazioni sulla seman-tica proposte da Fillmore, questa corrente affermava che la semanseman-tica non sarebbe derivata dalla struttura sintattica contrariamente a quanto sostenuto del generativismo standard, ma ne sarebbe stata indipendente. La semantica generativa deriva quindi dalle posizioni origi-narie di Chomsky e si pone l’imperativo di descrivere la lingua a partire dalla semantica, condividendo pur sempre l’obiettivo di arrivare a una descrizione corretta della realtà della mente (ibid., 374). Pur riconoscendo il contributo del maestro nell’aver sottolineato l’importanza di un livello innato del linguaggio, Lakoff fonda quindi nel 1975 la linguistica cognitiva.

metafora poetica e metafora concettuale. Secondo gli autori le metafore sa-rebbero strutture mentali che si possono esprimere con il linguaggio ma ne sono indipendenti (cfr. Lakoff, Johnson 1980, 11). È questo l’assunto di ba-se che persiste sino alle più recenti pubblicazioni di Lakoff.

Ciò che avviene quando è attiva una metafora concettuale è la comprensio-ne di un concetto comprensio-nelle fattezze di un altro, in un processo che filtra qualità e aspetti dell’oggetto metaforizzato. Una metafora è quindi una mappatura di un certo frame su una determinata situazione che viene dinque concettua-lizzata attraverso la struttura di quella metafora (ibid., 29).

Lakoff e Johnson traggono dal linguaggio quotidiano numerosi esempi di espressioni che riflettono metafore concettuali. Per esempio la metafora «la discussione è una guerra [è] una di quelle metafore con cui viviamo in que-sta cultura» e che «struttura le azioni che noi compiamo quando discutiamo» (ibid., 23).

Un’altra metafora concettuale citata dai due autori è quella secondo cui “il tempo è denaro”. Moltissime espressioni comuni connettono infatti denaro e tempo quando esso è risparmiato, sprecato, esaurito, ecc.

Questa concezione del tempo come una risorsa limitata e concettualizza-ta in termini moneconcettualizza-tari si riflette nella nostra cultura in molti modi diversi. Ad esempio: gli scatti del telefono, i salari a ore, le tariffe delle camere d’albergo, i bilanci annuali, gli interessi sui prestiti (ibid., 27, corsivo mio). Il professore di Berkeley proporrà poi una nuova distinzione dovuta alle ul-teriori ricerche sulle modalità con le quali le metafore vengono acquisite nel corso dell’esperienza infantile. Lakoff parlerà di «metafore primarie» e «me-tafore complesse». Le prime sarebbero strutture fondamentali, frutto di in-terazioni fra i dominî percettivi, soprattutto quello senso-motorio. L’esempio tradizionale di Lakoff è quello dell’aumento verticale del liquido versato in un bicchiere che dà luogo alla metafora basilare secondo cui «l’aumento è una direzione verticale». È sulla base di queste strutture pro-dotte dall’esperienza che avviene la proiezione metaforica tra i concetti, procedendo quindi dal semplice al complesso.

Il framing metaforico

Nell’opera di Lakoff il concetto di metafora concettuale, embodied, connessa alla realtà esperienziale, e il concetto di frame sono spesso difficili da distin-guere. Per una critica alla concezione di Lakoff rimandiamo alla fine di que-sto capitolo. Per ora limitiamoci ad osservare come nell’opera del linguista la

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metafora concettuale tenda ad assumere un primato cognitivo, pre-lin-guistico, mentre il frame resti un modello originato dal linguaggio.

Si possono però già facilmente separare così i concetti di frame e di framing metaforico. Quest’ultimo costituisce il processo di mappatura con il quale le pro-prietà di un frame vengono applicate a una realtà diversa, operazione che può essere segnalata linguisticamente da una metafora.

L’idea di una base metaforica delle visioni del mondo è il principale contri-buto di Lakoff all’analisi della comunicazione politica. Dal 2004 lo studioso ha intensificato l’applicazione della sua teoria alla comunicazione politica, mettendola al servizio dei democratici americani. Nel fortunato libro Don’t Think of an Elephant! Know Your Values and Frame the Debate, pubblicato in Ita-lia nel 2006, il linguista di Berkeley fornisce una spiegazione del dominio po-litico dei conservatori negli ultimi decenni, descrivendolo come una opera-zione di framing.

Il punto di partenza dell’analisi del linguista è la riflessione su una metafora primaria che descrive la Nazione come una famiglia. Così come esistono due idee di famiglia, esisterebbero anche due idee di Nazione. Per questo motivo, se per i conservatori l’autorità viene proposta nei termini di un “pa-dre severo”, i progressisti la intendono invece attraverso la figura del “pa“pa-dre premuroso”. Il primo modello comporterebbe un’idea della politica permea-ta dall’etica dell’interesse personale propria della visione conservatrice; il se-condo invece trasmetterebbe i valori della collaborazione, della solidarietà, dell’empatia che starebbero alla base della società nella visione progressista. “La Nazione è una famiglia” non è altro che la descrizione linguistica del processo cognitivo di mappatura di una struttura concettuale, ossia di un frame che in questo caso è quello della “famiglia”, su una realtà differente, quella della Nazione. Tale struttura concettuale di “famiglia” è consolidata dalla comune esperienza della famiglia come prima realtà sociale, è quindi una struttura già esistente, tanto prontamente reperibile tra i cittadini da es-sere attiva a livello inconscio.

L’impostazione di Lakoff si concentra quindi sui meccanismi elementari del pensiero per rinvenirvi le ragioni del successo di un certo linguaggio politi-co. Tali processi basilari della mente interagiscono con la realtà nell’esperienza quotidiana. È su questo piano che si esercita la forza del lin-guaggio politico: nel proporre cioè una descrizione del mondo che risulta più o meno plausibile in base al corredo concettuale che un determinato gruppo sociale ha costituito, in contesti culturalmente differenti, ma impie-gando inconsciamente meccanismi universali.

Ilframing del lavoratore

Lakoff ha applicato la sua frame analysis anche al dibattito pubblico sul lavoro, pur non avendo mai prodotto un’analisi dedicata a questo argomento (4). Secondo il linguista, nella visione progressista i lavoratori sono visti come creatori di profitto (profit creators) giacché solo attraverso il loro contributo le imprese possono produrre ricchezza. Si trat-ta di una idea generale del lavoratore in quanto trat-tale, mentre la visione conservatrice am-mette tale idea di lavoratore solo relativamente a quei lavoratori considerati come asset (top manager, esperti finanziari e tecnici). Tutti gli altri lavoratori sarebbero considerati dai conservatori nei termini di una risorsa da sfruttare, intercambiabili, pagati il meno possibile e senza potere alcuno se non organizzati in un sindacato.

Il frame del lavoratore come creatore di profitto è secondo Lakoff un frame negletto nel dibattito pubblico americano, dove prevale piuttosto il frame conservatore che mette al centro la responsabilità individuale. I lavoratori vendono singolarmente la loro forza la-voro alle imprese per un certo prezzo; prezzo inflazionato dall’attività dei sindacati, che si oppongono quindi al diritto dell’impresa di massimizzare i profitti.

Nelle due opposte visioni anche i benefit elargiti dalle aziende come i piani di assistenza sanitaria e quelli pensionistici assumono un significato differente. Nell’ottica progressista essi sono pagamenti differiti per il lavoro già svolto e contribuiscono a consolidare la lealtà del lavoratore all’azienda, mentre nell’ottica conservatrice sono considerati come extra, componenti aggiuntive del salario (Lakoff, Wehling 2012, 83-85).

Come si può ben intendere la visione di Lakoff è una visione redistributiva, sempre lega-ta a una contrapposizione tra frames valoriali, giacché, come si vedrà, secondo l’autore una morale neutra e universale non può esistere (cfr. infra, § 1.2.4).

La metonimia

Diversi studiosi di linguistica cognitiva hanno recentemente dedicato i loro studi a una supposta natura cognitiva della metonimia e alla sua applicazione analitica del discorso politico (cfr. Ding 2015).

Sebbene avessero dedicato a questo tropo minore attenzione che non alla metafora, già Lakoff e Johnson nel 1980 consideravano la metonimia come processo cognitivo basato sulla contiguità concettuale. Laddove la metafora implica una interazione tra dominî concettuali parzialmente differenti, la metonimia concettuale avverrebbe invece all’interno dello stesso dominio. In questo modo lo studio della metonimia procede secondo gli assunti della linguistica cognitiva: come la metafora, la metonimia proviene dalla

(4) Dal punto di vista dell’analisi uno dei pochi lavori interamente dedicati alla rappresenta-zione mediatica del lavoro negli Stati Uniti è quello di Christopher Martin, il quale ha ana-lizzato una grande mole di articoli di giornale e online identificando cinque frames ricorrenti: “il consumatore è re”; “il processo produttivo non è di pubblico interesse”; “l’economia è guidata da grandi leader e imprenditori”; “il posto di lavoro è una meritocrazia” e “l’azione economica collettiva è un male” (2004, 8-11).

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zione quotidiana con gli oggetti del mondo; come con la metafora, due sen-sazioni esperite contemporaneamente produrrebbero un risultato unico quando fossero contigue, come nel caso della relazione tra la parte e il tutto o tra la causa e l’effetto. La generazione di una metonimia avrebbe, secondo loro, due configurazioni integrate che possono riassumere il funzionamento di tutte le metonimie: “il tutto per la parte” o “la parte per il tutto” (5). Se-condo Lakoff ([2008] 2009, 189), un esempio di questo meccanismo meto-nimico è in gioco quando la comunicazione costruisce dei prototipi, ossia ogniqualvolta all’interno di una categoria si costruisce un elemento centrale che la rappresenta interamente, trasferendo sugli altri componenti della ca-tegoria le sue caratteristiche. Così, per esemplificare usando i nostri casi di studio, una riforma del lavoro può diventare la rappresentante di un’intera azione di governo, o un contratto aziendale può diventare l’espressione di un fenomeno generale nelle relazioni industriali nazionali.

Tra i linguisti cognitivi, John Taylor è stato il primo a concepire l’idea di una metafora basata sulla metonimia, invertendo il rapporto di dipendenza tra i due procedimenti. Resta infatti difficile determinare quale “distanza” cogni-tiva si possa riscontrare fra i dominî interessati dal processo metaforico e quelli coinvolti in un processo metonimico. D’altronde una metafora prima-ria come quella “aumento è direzione verticale”, prodotta dalla comune e-sperienza dall’innalzamento del livello di un liquido in un bicchiere, sarebbe facilmente interpretabile anche come metonimia del tipo “effetto per la cau-sa”.

La teoria del blending

Definendo la metonimia in modo simile alla metafora concettuale, ossia come associazione diretta tra oggetti che contraddistinguono le esperienze quotidiane, due linguisti cognitivi, Fauconnier e Turner (2002), hanno pro-posto un’integrazione di metafora e metonimia.

Guardando alla teoria dei frames e della metafora concettuale, la teoria del blending ricongiunge metafora e metonimia come casi speciali di un meccani-smo più generale di mappatura mentale. Tale teoria, anche detta della “inte-grazione concettuale”, nasce dagli studi di Gilles Fauconnier sugli “spazi mentali” già teorizzati da Lakoff (Fauconnier 1994) e viene poi sviluppata

(5) A ben vedere, la metonimia così descritta rimanda alla classica definizione di sineddo-che. Sulla difficile distinzione tra metonimia e sineddoche si veda Bottiroli 1987. Quanto alla qualità cognitiva della metonimia dirò più approfonditamente più avanti riportando il pensiero del linguista Roman Jakobson, che dell’idea di una metonimia come direttrice e-lementare del linguaggio può essere considerato il capostipite (cfr. infra, § 3.2.1).

dal primo insieme a Mark Turner. Secondo gli autori i parlanti e gli interpre-ti costruirebbero inferenze durante la loro esperienza linguisinterpre-tica predispo-nendo dei “blends”, o “conceptual integration networks”. Il meccanismo del blend presiede quindi alla costruzione degli spazi mentali che risultano essere ne-cessari alla comprensione, giacché ogni rappresentazione configura una real-tà fatta di entireal-tà collocate nello spazio e nel tempo. Non sarebbe in altre pa-role possibile per l’essere umano attribuire senso ai testi senza costruire uno spazio concettuale, il che spiega l’efficacia transculturale delle metafore spa-ziali o delle narrazioni metaforiche di progresso o di riparazione, molto fre-quenti nel discorso politico.

Nel 1980 Lakoff e Johnson avevano già notato che molte metafore sono basate su quelli che chiamavano «image schemas», come quelli di contenimen-to, movimencontenimen-to, vicinanza e distanza, collegamento e separazione, orienta-mento fronte-retro, rapporti parte-intero, ordine lineare, orientaorienta-mento giù-su. Su queste basi si sviluppa proprio il modello della metonimia elaborato da John Taylor, secondo il quale in molti casi ci sarebbe una relazione me-tonimica tra la nozione di verticalità e la sua estensione metaforica in termi-ni di quantità (“su” è “più”), valutazione (“su” è “meglio”) e potere (“supe-riore” vs. “infe(“supe-riore”) . Anche i concetti di “controllo”, “superiorità morale” e “posizionamento” nella scala sociale, visti dal lato del lessico, in molte lin-gue sono espressi da termini che indicano una relazione “sopra-sotto” e “al-to-basso”. Concetti politici che coinvolgono la leadership e l’azione politica sono poi spesso espressi come metafore del viaggio. Questo è il motivo per il quale il discorso politico include sistematicamente espressioni come «arri-vare a un crocevia, andare verso un futuro migliore, superare ostacoli sul cammino, non deviare dai propri piani» (Chilton 2004, 52) o, per dirla con il più evidente degli esempi della comunicazione del Governo Renzi dedicati al tema del lavoro, “il lavoro svolta”.

Quella del blending è, in sintesi, una teoria integrativa e ubiqua (L’Hôte, Lemmens 2009, 3-4; Di Pietro 2014, 79). Una teoria tanto comprensiva che Coulson e Oakley affermano che sia stata invocata «per spiegare qualsiasi cosa, dall’esperienza percettiva […] fino alla partecipazione nei rituali» (Coulson, Oakley 2001, 192). Il blending ha però il pregio di mettere al centro della rappresentazione dei processi mentali la dimensione spazio-temporale, senza la quale un frame sarebbe impossibile. Inoltre questa teoria supera l’idea di una preminenza tra uno dei due procedimenti, metaforico e meto-nimico, dal punto di vista cognitivo, per mettere al centro un più generale processo mentale.

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Spazio e tempo del cambiamento

Rispetto all’analisi del discorso politico, il concetto di blending è stato appli-cato in connessione all’uso di metafore di orientamento. Con questo intento procede per esempio l’analisi di Emilie L’Hôte e Maarten Lemmens sui di-scorsi di Tony Blair del 2006. In Reframing treason: metaphors of change and progress in new Labour discours gli autori effettuano un’analisi delle metafore del cambiamento e del progresso nei discorsi del Labour Party britannico du-rante la riforma interna avviata da Tony Blair. Attraverso uno studio insie-me qualitativo e quantitativo, i ricercatori descrivono coinsie-me il Partito laburi-sta si sia sistematicamente auto-presentato come agente di un cambiamento positivo attraverso accurate metafore del tempo e dello spazio.

L’Hôte e Lemmens affermano che il motivo per il quale questa combina-zione metaforica riusciva a rappresentare il cambiamento in una luce positi-va è la sua funzione di framing della trasformazione del partito. In questo modo la svolta verso il liberismo veniva sempre proposta nei termini di uno sviluppo. Il procedimento messo al centro della strategia comunicativa era quello della metonimia: «un elemento nel programma politico sta al posto del programma politico intero/un elemento del programma politico sta per il partito, promuovendolo» (L’Hôte, Lemmens 2009, 22).

Come vedremo, quanto osservato da L’Hôte e Lemmens trova diversi paral-lelismi con il caso del Jobs Act italiano. Da più parti considerata esemplare dello spostamento verso il liberismo del Partito democratico, la riforma è stata scelta dallo stesso ex Presidente del Consiglio come rappresentante metonimico di tutta l’azione riformatrice del Governo, complessivamente rappresentata come “la svolta buona” nella quale il Jobs Act assumeva addi-rittura i connotati di una “rivoluzione copernicana”.