Le riflessioni di Lakoff sulla metafora rappresentano solo una recente tappa di un cambio di orientamento nel modo di concepire il valore cognitivo ed euristico della metafora, un percorso che in realtà può essere descritto a par-tire da Aristotele. Nel loro libro del 1980, Lakoff e Johnson facevano nota-re, anche se solo a pagina 190, come il filosofo greco riconoscesse già il «va-lore positivo della poesia» e la portata gnoseologica della metafora. Nella Re-torica Aristotele affermava, infatti, che «noi apprendiamo soprattutto dalle metafore» perché esse hanno la capacità di «portare l’oggetto sotto gli occhi» (Retorica, 1405a). I due studiosi affermavano però che:
Although Aristotle’s theory of how metaphors work is the classic view, his praise of metaphor’s ability to induce insight was never carried over into modern philosophical thought. With the rise of empirical science as a model for truth, the suspicion of poetry and rhetoric became dominant in Western thought, with metaphor and other figurative devices becom-ing objects of scorn once again (1980, 190, corsivo mio).
Assumendo uno sguardo storico appare difficile concordare con Lakoff e Johnson. Certamente a seguito di quel processo di riduzione filosofica della retorica già descritto si esauriva l’interesse per il portato epistemologico la metafora e la retorica cominciava a guadagnarsi la cattiva reputazione del-la quale soffre ancora oggi. Pare però comunque eccessiva l’affermazione secondo la quale la capacità euristica della metafora indicata da Aristotele non sarebbe mai stata rivalutata nell’era delle scienze empiriche. Si pensi an-che solo, per avere un’idea della centralità della metafora nel pensiero euro-peo, all’opera di Vico o a quella di Nietzsche.
Sono molti gli autori che hanno riscontrato una linea di pensiero che per-metterebbe di connettere proprio Aristotele al filosofo e giurista napoletano del tardo Rinascimento e al filosofo tedesco del secondo Ottocento. Secon-do quest’ultimo in particolare, la letteralità altro non sarebbe che la conse-guenza dell’irrigidimento di metafore. Nella visione di Nietzsche, quindi, si delineano i confini di un continuum metaforico, giacché «non è tanto che le metafore siano cognitive quanto che la cognizione sia metaforica» (Klamer, Leonard 1994, 26).
La vicenda del ruolo strutturale della figuratività nel linguaggio è poi ricca di ulteriori contributi, tra i quali si annoverano certamente quelli dei nostri due protagonisti della neoretorica, già accennati.
Seguendo il filo cronologico, si è detto del pensiero di Burke, il quale già nel 1935 definiva il tentativo di separare gli argomenti messi a punto per analo-gia da quelli logici come un tentativo che appariva sempre più vano (Burke [1935] 1984, 96).
Abbiamo già incontrato anche il contributo del secondo Wittgenstein, de-terminante per la nascita della pragmatica linguistica, consistente nella sua riflessione sul meccanismo del gioco linguistico, così pervasivo nel linguag-gio ordinario. Alla luce della sua lezione poi, il filosofo anglo-americano Max Black proponeva nel 1954 di abbandonare la concezione sostitutiva della metafora (scambio tra significato letterale e significato non-letterale di un termine) per adottare una teoria “interattiva”. Secondo Black
quando adoperiamo una metafora abbiamo due pensieri di cose differen-ti contemporaneamente atdifferen-tivi e sorretdifferen-ti da una singola parola o frase il cui significato risulta dalla loro interazione ([1954] 1983, 55).
Nel già citato articolo del 1969 (Analogie et métaphore en science, poésie et philoso-phie) è proprio Perelman a far notare come l’affermazione del filosofo Max Black secondo la quale «ogni scienza deve partire da una metafora per giun-gere a un’algebra» (Black 1962, 242) presupponesse l’eliminabilità della me-tafora (Perelman [1969] 1977, 524) (1). La conclusione di Perelman è invece alquanto chiara: le affermazioni filosofiche non sono controllabili empiri-camente. Pertanto le procedure che permetterebbero di dimostrare il carat-tere accettabile o meno di una metafora in quanto ragionevole, secondo lo studioso, sono
tecniche di giustificazione che si basano sull’argomentazione, tecniche di persuasione e di convinzione, di cui l’analogia e la metafora costituiscono gli elementi essenziali (ibid., 531-532).
In conclusione, se pure vogliamo limitarci a una storia della metafora in prospettiva cognitivista, non si può non notare la limitatezza di riferimenti a questa storia nel famoso libro di Lakoff e Johnson Metaphors We Live By.
(1) In questo articolo Perelman condensa in pochissime righe una panoramica su quella cor-rente di pensiero, a lui contemporanea, che riconosce alla metafora un ruolo costitutivo nel pensiero filosofico e scientifico. Qui lo studioso mette la metafora al centro della sua rifles-sione sulla verità, aggiungendosi alla schiera di coloro che attribuiscono a Nietzsche un ruo-lo profondamente innovativo nel modo di trattare la regina delle figure retoriche.
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Nessuno degli autori che a loro modo hanno contribuito a una rivalutazione della figuratività (Vico, Nietzsche, Perelman, Burke…) è citato da Lakoff.
3.2.1. Metafora e metonimia come organizzazione linguistica
In secondo luogo inoltre, essendo Lakoff un linguista, non si può non nota-re come in Metaphors We Live By egli non abbia citato l’autonota-re che – date le sue vicende – può essere considerato il vero capostipite di una corrente che, proprio all’interno della linguistica, considera la metafora come un meccani-smo cognitivo fondamentale. Si tratta di Roman Jakobson, col quale Lakoff era stato peraltro in contatto al MIT.
Come si accennava nel primo capitolo (cfr. § 1.2.1), la linguistica cognitiva ha affiancato allo studio della metafora anche quello della metonimia, anch’essa non solo figura retorica ma vera e propria realtà cognitiva. Tutta-via l’ipotesi che la metafora e la metonimia fossero due principî comple-mentari a livello della realtà mentale e che rappresentassero l’immagine delle due relazioni fondamentali dell’organizzazione linguistica, quella paradigma-tica e quella sintagmaparadigma-tica, era già stata formulata da Roman Jakobson nel suo saggio Afasia come problema linguistico, pubblicato nel 1955 (2).
A partire dagli studi sulle disfunzioni linguistiche, Jakobson aveva infatti formulato l’ipotesi che metafora e metonimia fossero da considerare non tanto come due diverse figure retoriche, quanto piuttosto come due direttri-ci del linguaggio, due prindirettri-cipî che informano le possibilità del nostro dire. La metafora è connessa alla somiglianza e quindi è espressione del
(2) Il saggio viene tradotto in Italia da Lidia Lonzi per Einaudi nel 1971 con il titolo Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile e afasia, opera pubblicata originariamente in tedesco nel 1944 col titolo Kindersprache und Aphasie. Nel 1944 Jakobson si era già trasferito da tre anni negli Stati Uniti ed era visiting professor alla Columbia University di New York. Nello stesso anno aveva fondato il Circolo di New York. La riflessione di Jakobson sui meccani-smi linguistici prosegue, arricchita, in un altro saggio di solo un anno più tardi: Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia. Qui Jakobson ribadisce che «la concorrenza di entità simultanee e la concatenazione di entità successive sono i due modi secondo i quali noi, soggetti parlanti, combiniamo gli elementi costitutivi del linguaggio» ([1956] 2002, 25). La versione originale del saggio Afasia come problema linguistico venne pubblicata in inglese col titolo Aphasia as a Linguistic Problem nel 1955. Al momento della prima pubblicazione il linguista era già stato naturalizzato cittadino americano e si era spostato a Harvard. Il saggio era destinato ad ave-re particolaave-re influenza sugli studi successivi, tanto che gli studi di ave-retorica che oggi mo-strano maggiori ricadute immediate sulla linguistica sono costituiti, secondo Federica Ve-nier, da quel neonato filone che collega la retorica alle scienze cognitive.
mento selettivo del parlare (3). La metonimia è invece connessa alla contigui-tà ed è quindi espressione del procedimento combinatorio del linguaggio (4). Nel famoso libro del 1980 di Lakoff e Johnson, Jakobson viene citato solo una volta, elencato tra gli esponenti di quello strutturalismo europeo che studiava la realtà mentale del linguaggio, e non solo la sua dimensione testu-ale (Lakoff, Johnson 1980, 205). Nessun riferimento è però fatto al saggio di Jakobson Aphasia as a Linguistic Problem.
La ricerca della linguistica cognitiva, insomma, rappresenta al momento un tentativo di compimento, più che l’avvio, di una rivisitazione cognitiva della metafora e della metonimia. Rivisitazione che arriva ad attribuire alle due fi-gure retoriche per eccellenza una natura eminentemente concettuale. La me-tafora approda definitivamente al dominio pre-linguistico venendo concepi-ta come un dispositivo elemenconcepi-tare del sistema cognitivo umano.
Quanto alle conseguenze più generali del pensiero di Lakoff, ossia il suppo-sto cambio di paradigma implicato dall’abbandono di un modello di razio-nalità “illuminista”, basta fare di nuovo riferimento alle parole con le quali si apre il TA di Perelman e Olbrechts-Tyteca per rendersi conto di come que-sta non fosse un’idea nuova.
La pubblicazione di un’opera dedicata all’argomentazione e la ripresa in essa di un’antica tradizione, quella della retorica e della dialettica greche, costituiscono una rottura rispetto ad una concezione della ragione e del ragionamento nata con Descartes, che ha improntato di sé la filosofia occidentale degli ultimi tre secoli (Perelman, Olbrechts-Tyteca [1958] 2001, 3).
Con Emmanuelle Danblon si può però risalire ancora più indietro, sempre seguendo il filo conduttore della metafora. In una recente rilettura della stu-diosa belga di retorica, già Vico e Nietzsche trattavano l’antica disciplina del discorso come funzione del linguaggio, in una linea di “resistenza” contro una bipartizione dell’uomo in essere razionale ed essere passionale; linea che
(3) Il linguista russo-americano si rifaceva agli studi pionieristici del neurologo John Hugh-lings-Jackson, che già verso la fine dell’Ottocento aveva connesso neurologia e studio dell’afasia infantile osservando che per alcuni pazienti «dire ciò che un cosa è equivale a dire a che cosa assomiglia» (Hughlings-Jackson 1879, 44, citato in Jakobson [1956] 2002, 37). (4) Metafora e metonimia sembrano quindi diventare espressione rispettivamente di quei rapporti paradigmatici e sintagmatici descritti da Saussure, fatto che consentirebbe di deli-neare una polarizzazione dei meccanismi linguistici: da un lato l’asse della selezione, i rap-porti paradigmatici, di tipo associativo, che si manifestano in absentia giacché la selezione di un’unità esclude tutte le altre associate, e che sono ben rappresentate dalla metafora; dall’altro l’asse della combinazione, i rapporti sintagmatici, di contiguità, e quindi in praesen-tia, che è ciò che invece rappresenta la metonimia.
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avrebbe avuto già in Aristotele il suo primo testimone (cfr. Danblon 2015, 42). Secondo Danblon, Vico e Nietzsche sono infatti accomunati anche da una «critica della Modernità […] che passa da una obiezione radicale alla ri-cerca cartesiana di un fondamento della ragione» (ibid., 48). Proprio quel tratto ripreso dalla letteratura cognitiva più recente, che ha nel già citato li-bro di Antonio Damasio, L’errore di Cartesio, la sua opera più presa a riferi-mento, come fatto anche da Lakoff (2004; 2008 [2009]).
Se ne può concludere che le nuove acquisizioni delle neuroscienze cognitive hanno semplicemente portato le precedenti intuizioni filosofiche nell’oriz-zonte di una nuova plausibilità che ha contribuito all’imporsi di una consa-pevolezza maggiore nell’ambito delle scienze, soprattutto quelle sociali, ri-spetto all’importanza del linguaggio.