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CONCRETO, PARABOLICO, ASTRATTO PERCENTUAL

8. Le “grandi negazioni programmatiche”

Le raccolte antume di Lucian Blaga iniziano sempre con una poesia “programmatica”, un manifesto di ciò che la raccolta vuole trasmettere. Lavorando con il corpus si è notato che tre delle sette raccolte antume iniziano proprio con una negazione. Eu nu strivesc corola de minuni a lumii è senza ombra di dubbio la poesia blaghiana più commentata, ricordata, antologizzata. Si tratta del primo testo a comparire in Poemele luminii e ha un carattere evidentemente programmatico. Proprio perché inizia con una forte e decisa negazione, vale sicuramente la pena prestarle un po’ di attenzione:

Eu nu strivesc corola de minuni a lumii și nu ucid

cu mintea tainele, ce le-ntâlnesc în calea mea

în flori, în ochi, pe buze ori morminte. Lumina altora

Sugrumă vraja nepătrunsului ascuns în adâncimi de întuneric,

dar eu,

eu cu lumina mea sporesc a lumii taină – și-ntocmai cum razele ei albe luna

nu micșorează, ci tremurătoare

mărește și mai tare taina nopții, așa îmbogățesc și eu întunecata zare cu largi fiori de sfânt mister și tot ce-i nențeles

se schimbă-n nențelesuri și mai mai sub ochii mei –

căci eu iubesc

și flori și ochi și buze și morminte366.

Senza addentrarsi in un’analisi eccessivamente dettagliata della poesia, che è stata oggetto di studio per i critici degli ultimi cento anni, si osserva innanzitutto come il componimento sia come suddiviso in due parti: una prima parte (vv. 1-5) nella quale il poeta nega due volte. In questa prima parte è significativo che la negazione sia riferita alla 1 persona singolare, è proprio l’io poetico, agente animato e in modo astratto (facendo

366 Opere, vol. I, p. 2. “Io non schiaccio la corolla di meraviglie del mondo/ e non uccido/ con la mente i

misteri che incontro/ sul mio cammino/ nei fiori, negli occhi, su labbra o su tombe./ La luce degli altri/ annienta l’incanto dell’impenetrabile che s’occulta/ in abissi di tenebra,/ ma io,/ io con la mia luce accresco il mistero del mondo ˗/ e appunto come con i raggi suoi bianchi la luna/ non scema, ma tremula/ vieppiù accresce l’arcano della notte,/ così arricchisco anch’io il tenebroso orizzonte/ di larghi brividi di santo mistero,/ e tutto quel che è non-senso/ si muta in non-sensi ancor più sconfinati/ sotto gli stessi occhi miei ˗/ perché/ e fiori e occhi e labbra e sepolcri/ a me sono cari” (Del Conte, p. 45).

riferimento a quanto detto su modo astratto, parabolico e concreto) a negare. Nella seconda parte, al contrario, sempre l’io poetico propone in maniera affermativa le sue intenzioni, precedute dall’avversativo ci. Dunque, Blaga, in un paradossale rovesciamento delle consuetudini logiche e linguistiche, scrive una dichiarazione d’intenti dapprima negando di avere certe intenzioni e solo in un secondo momento passando invece a parafrasare le iniziali negazioni ripetendo gli stessi concetti con valenza affermativa. Di fatto l’intero corpus blaghiano ha inizio da una negazione, il non aver intenzione di calpestare la corolla delle meraviglie del mondo e di ucciderne con la propria mente i misteri. La meraviglia a cui allude il poeta è qui evidentemente la meraviglia in senso filosofico, lo stupore che è “la molla di ogni scoperta” e “commozione davanti all’irrazionale”367 di cui parlava Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere e che nel

Teeteto368 di Platone è indicata proprio come fonte prima del filosofare. Il Blaga poeta preannuncia qui il Blaga filosofo in modo manifesto. Ma se, ricordando quanto detto da Virno, ammettiamo che la negazione ci parla anche (e forse in primo luogo) dell’istanza che viene negata, e se ammettiamo che nel concetto di negazione così come inteso da Freud ci sia del vero, allora possiamo vedere come nella determinatezza di questo nu iniziale così forte si celi la fragilità di un giovane poeta (e filosofo) che, affermando quello che non ha intenzione di fare, annuncia di fatto la possibilità di fallire nel suo intento. Blaga è qui un poeta che ha “fiutato una traccia” e, nello sforzo di trattenerla e di non perderla nel vento, utilizza il pensiero e il logos quali strumenti razionali di questa impresa. Proprio negando la possibilità di perdere quella traccia il poeta sembra parlare oltre che al lettore, a sé stesso allo specchio. Si può considerare questa prima negazione quale la soglia da attraversare per penetrare all’interno dell’universo poetico blaghiano.

Anche Lauda somnului si apre con una negazione (quella della poesia Biografie, della quale riportiamo qui di seguito i vv 1-3):

Unde și când m-am ivit în lumina nu știu, din umbră mă ispitesc singur să cred că lumea e o cântare.

[...]369.

367 Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1997, p. 250. 368 Platone, Opere complete, vol. II, cit. pp. 81-171.

369 Opere, vol. I. p. 188. “Dove e quando mi sono affacciato alla luce, non so:/ dall’ombra mi induco da

Anche questa negazione può essere letta come una sorta di soglia da attraversare: se la negazione di Eu nu strivesc corola de minunii a lumi rappresentava infatti una negazione legata alla volontà, qui la negazione è legata al “non sapere”, collocandosi all’interno della dicotomia – tipica della poesia blaghiana – tra luce e ombra, manifesto e misterioso. Troviamo in questi versi iniziali un tema ricorrente in Blaga e strettamente collegato al tema della morte: quello della propria nascita. Quella notte di maggio in cui il poeta vide la luce è spesso evocata, ora con rabbia nei confronti della madre, ora con stupore e incredulità, ora con angoscia. La mancanza di senso dell’evento, l’angoscia generata nell’io poetico dal ripensare alla sua venuta al mondo, rappresentano un’immagine che Blaga esplora in maniera approfondita tanto quanto esplora quella della morte. A differenza di quanto avviene ad es. in Nebănuitele trepte, dove la seconda poesia della raccolta porta come titolo proprio la data di nascita del poeta (9 mai 1895), qui Blaga apre il volume negando di conoscere l’esatto momento della propria nascita, della propria “venuta alla luce”, in un certo senso negando idealmente quel momento cairotico e fondamentale della propria esistenza. E questa negazione avviene proprio in Lauda somnului, raccolta in cui il sonno e la morte vengono cantati con un ritmo lento dalle composizioni quasi esclusivamente di ambientazione notturna. Nascita e morte, naturalmente, sono strettamente collegate in ogni cultura: nella nascita è infatti presente tutta la tragedia della vita e della morte. Alla nascita, nella stanza del parto, partecipa l’eros (d’altra parte è ora risaputo che lo stesso ormone coinvolto nel piacere sessuale, l’ossitocina, è responsabile anche delle contrazioni uterine che inducono il parto370) e

soprattutto partecipa il thanatos, l’ombra della morte che ogni partoriente percepisce vicina, nascosta in un angolo. Il senso della morte acquista una nuova realtà per entrambi i partecipanti dell’evento. Blaga, interrogandosi con angoscia (l’angoscia in senso heideggeriano) nel corso di tutta la sua opera su quale sia stato il significato della sua propria nascita, accusando ora la madre, ora l’ignoto, e infine qui negandola e dunque, se diamo retta a Virno e Freud, investendola di un significato intenso proprio attraverso la negazione, ci svela che è proprio la nascita, la genesi, il vero atto di coraggio. La nascita e non la morte è l’evento che genera l’angoscia. Il sentimento della propria insensata “gettatezza” nel mondo è la spinta, in Blaga, ad affacciarsi sull’orlo dell’abisso, da cui

370 Kerstin Uvnäs-Moberg, Ossitocina, l’ormone dell’amore, Torino, Edizioni Il Leone Verde, 2019, pp.

osservare angosciosamente il tutto e il nulla del mondo, per poi farsi forza e spingersi a continuare il viaggio, ponendosi altre domande e accrescendo così la “meraviglia del mondo”. Lo stesso messaggio, ovvero quello di farsi animo per superare l’abisso di angoscia, riconoscendo la benedizione data dal riuscire a vedere nella sua nudità “l’orrore” riecheggia anche nell’ultimo verso di Bunavestire pentru floarea marului (nona poesia della raccolta La curțile dorului), in cui l’io poetico invita il fiore del melo a non aver paura del frutto, a lasciarsi pervadere dall’angoscia del sublime generata dalla consapevolezza della nascita˗morte e poi ad accettarlo in quanto nuova potenziale fonte di meraviglia: “Bucură-te, floarea mărului,/și nu te speria de rod!”371.

La terza negazione “programmatica” è quella che troviamo al v. 6 di Sat natal, poesia che apre La cumpăna apelor. Pur non trovandosi in apertura di componimento come le due negazioni precedenti, quella presente in Sat natal – che è anche una negazione rafforzata! – è particolarmente carica di contenuto semantico: il poeta torna al paese natale dopo due decenni, ma la sua venuta passa inosservata. Ora, infatti, porta su di sé un marchio, la febbre dell’eternità, custodisce quel segreto che gli altri non possono vedere e che lo isola dalla comunità di appartenenza. E nessuno, infatti, tranne il vento e un pioppo dorato, lo riconosce:

După douăzeci de ani trec iarași, pe-aceleași uliți

unde-am fost prietenul mic al țărânii din sat. Port acum în mine febra eternității,

negru prundiș, eser vinovat.

Nimeni nu mă cunoaște. Vântul, el singur, sau plopul

de aur. Plop înălțat de-un fir nevăzut asemenea fusului.

Nedumirit turnul se va uita două ore în urma mea

Până m-oi pierde din nou subt dunga apusului.

[…]372.

371 Opere, vol. I, p. 296. “Allegrati, fiore del melo/ e non spaventarti del frutto!” (Del Conte, p. 201). 372 Opere, vol. I, p. 238. “Dopo vent’anni m’aggiro ancor per le stesse viuzze/ dove bimbo giocai con la

terra amica del borgo./ Porto ora in me la febbre dell’eterno,/ nero pietrisco, credo colpevole e impuro./ Nessuno mi riconosce. Il vento, lui solo, o il pioppo/ che è d’oro. Il pioppo, alto a un invisibile filo, simile al fuso./ Incredula due volte si volterà a guardarmi la torre,/ fino a quando non mi sarò perduto di nuovo/ dove si chiude il tramonto […]” (Del Conte, p. 151).

Ecco ancora, dunque, il tema del poeta quale sorta di “profeta” della comunità, essere umano che, in cambio del grande dono del logos, è costretto a rinunciare ad altri doni (uno per tutti: la piena appartenenza alla sua comunità) e a esporre su di sé quel marchio di “eres vinovat” che lo allontana e lo isola. Questo tema comparirà d’ora in poi spesso nelle poesie postume, come una presa di coscienza acquisita con il tempo, ed è lo stesso tema che avevamo trovato in Montale, e che qui ci si manifesta anche grazie all’osservazione della negazione e al suo utilizzo all’interno del corpus. Se in Biografie era il poeta a negare di sapere, ora nega di essere riconosciuto, ovvero nega di essere “saputo” dall’Altro. Si tratta sempre di una negazione gnoseologica, ma diventa qui il converso del non sapere agito dall’io poetico, è piuttosto la negazione del sapere altrui rispetto a sé.

CAPITOLO 3