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Guerra ai civil

Nel documento Massarosa in guerra 1940-1945 (pagine 186-200)

LA TERRIBILE ESTATE DEL

1. Guerra ai civil

La storia dell’occupazione militare tedesca dei paesi occupati durante la Seconda guerra mondiale è punteggiata di episodi di violenza ai danni delle popolazioni civili553. Questi raggiunsero la massima intensità in Unione Sovietica – dove la componente ideologica della lotta era particolarmente forte – e in Jugoslavia, ma episodi di violenza di vario genere si verificarono anche negli altri territori sotto amministrazione tedesca, come in Francia e nei Paesi Bassi. In Italia, i venti mesi in cui le forze tedesche di fatto occuparono parte della penisola furono anch’essi costellati di tutta una serie di fatti di sangue, saccheggi e distruzioni di beni, che quanto a gravità non furono probabilmente superati in tutta l’Europa occidentale, Francia compresa.

In questo contesto la Toscana (e l’Emilia Romagna) assunse un ruolo tristemente centrale in quella che può essere senza mezzi termini definita come una «guerra ai

553

Per informazioni di carattere generale sull’occupazione tedesca, cfr. Mark Mazower, L’impero di Hitler.

Come i nazisti governavano l’Europa occupata, Mondadori, Milano 2010. In particolare si vedano i capitoli

X, XII e XV, che trattano dell’impatto dell’occupazione sui civili. Per il caso italiano si veda invece il già citato volume di Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia.

189 civili». Abbiamo già visto come la presunta vulnerabilità a possibili sbarchi alleati sulle coste avesse portato allo sfollamento generale delle città del litorale versiliese, con tutte le ricadute negative che questo ebbe sulla vasta popolazione dell’area, ma la sua posizione strategica della Toscana settentrionale divenne ancora più evidente a partire dalla primavera del 1944. La rottura del fronte tedesco a Cassino a seguito dell’operazione Diadem, in maggio, portò al frenetico tentativo di terminare la prevista linea difensiva che avrebbe consentito alle forze tedesche di interrompere la ritirata e di congelare il fronte per un nuovo, lungo inverno. Tale linea fortificata tagliava la penisola approssimativamente da Massa, sul mar Tirreno, a Rimini, sull’Adriatico, e poiché in effetti riuscì a reggere fino alla primavera del 1945, nonostante fosse stata penetrata in più punti, trasformò per diversi mesi una larga fascia di territori toscani in un campo di battaglia.

L’importanza della Linea Verde va però al di là del puro e semplice significato militare, in quanto fu causa indiretta di numerose stragi di civili compiute dai tedeschi nella primavera-estate del 1944. L’Alto Comando germanico era seriamente preoccupato dalla ritirata delle proprie forze dal sud della penisola e l’approntamento delle fortificazioni, già fortemente in ritardo, era minacciato dalla presenza e dell’attività sempre più massiccia delle formazioni di partigiani che si nascondevano sulle boscose propaggini degli Appennini. I comandanti tedeschi sul campo giudicavano molto pericolosa la presenza di queste bande nelle proprie retrovie, in un momento in cui anche il fronte era collassato e le proprie truppe erano in ritirata. Essi giustificarono il comportamento delle truppe nei confronti della popolazione civile proprio in funzione della minaccia portata dal movimento di resistenza, tanto da considerare le vittime civili come veri e propri «danni collaterali», deprecabili, ma inevitabili554.

Per far fronte alla minaccia – vera o presunta – portata dai ribelli, applicarono tecniche elaborate di lotta alla guerriglia, spesso perfezionate sul fronte orientale, che consistevano nel creare una vera e propria «terra bruciata» nelle zone dove si supponeva si annidassero le formazioni della resistenza. Questa tattica avrebbe dovuto togliere ai partigiani ogni tipo di appoggio logistico dato dalla popolazione civile, la quale

554 Paolo Pezzino, Guerra ai civili, in Luca Baldissara – Paolo Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di

190 veniva tout court identificata con i partigiani stessi, oppure si giudicava impossibile da distinguere da essi e finiva per rimanere vittima delle azioni di repressione555.

Paolo Pezzino parla di una vera e propria «politica delle stragi», in quanto molti episodi di violenza non si inseriscono nel contesto di rastrellamenti o di lotta diretta a gruppi della Resistenza, quanto in quello di azioni volte a colpire in modo specifico e diretto i civili, a volte semplicemente per punizione, essendo essi considerati complici dei partigiani556. I severi ordini dallo stesso Feldmaresciallo Albert Kesselring, soprattutto quello del 17 giugno 1944 contenente la cosiddetta «clausola dell’impunità», e l’esperienza fatta da numerosi comandanti e da varie unità sul fronte orientale nell’ambito della lotta alle bande, non fecero che enfatizzare la violenza perpetrata nei confronti dei civili557.

Nonostante il picco massimo di intensità concentrato nell’estate del 1944, gli episodi di violenza iniziarono già nel settembre del 1943 e alcuni abbiamo già avuto modo di vederli. In tutto, nell’arco temporale che va dall’armistizio italiano all’aprile del 1945, in Toscana sono stati individuati 237 massacri, per un totale di 3.778 vittime. Di questi, 27 sono stati compiuti da forze fasciste, mentre i restanti 210 sono stati messi in atto dai tedeschi, a cui sono ascrivibili quasi tutti i morti (3.650)558. La provincia di Lucca non fu sfuggì a questo triste elenco e nel suo territorio vennero commessi almeno 18 massacri, di cui cinque nel comune di Massarosa rispettivamente nella località di La Sassaia, sul monte Quiesa vicino al confine con il comune di Lucca, nella frazione di Valpromaro ancora in prossimità del comune di Lucca e nelle frazioni di Massaciuccoli e Compignano. Nel comune si verificarono anche altre uccisioni più circoscritte e isolate e a questi episodi di violenza estrema si aggiungono i vasti rastrellamenti di civili, in particolar modo quelli dell’agosto del 1944 che costrinsero centinaia di massarosesi e di sfollati ad abbandonare con la forza le proprie abitazioni.

555 Ivi, pp. 11-15. 556 Ivi, p. 16. 557 Ivi, p. 17. 558

191

2.

19 aprile 1944

A Massarosa le prime vittime delle rappresaglie nazifasciste iniziarono già nella primavera del 1944. Il 17 aprile, nel corso di un rastrellamento effettuato nella zona di Corsanico dalla Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) di Camaiore, vennero catturati Domenico Randazzo e Vittorio Monti, sospettati di aderire al movimento della Resistenza. Randazzo, originario di Agrigento, era un ex soldato di un distaccamento d’artiglieria di stanza sul Monte Meto che si era sbandato dopo l’8 settembre. L’altro, originario della frazione di La Culla, nel comune di Camaiore, era renitente alla leva ed era stato trovato in possesso di una vecchia pistola a tamburo senza proiettili559. Due giorni dopo, il 19, per ordine di Piazzesi i due giovani vennero portati a Massarosa, allineati di fronte al muro del cimitero e fucilati da quaranta militi della GNR.

Il giovanissimo Solimano Berrettoni quel giorno era insieme ad alcuni suoi coetanei e, come sempre negli ultimi mesi, rimaneva sorpreso dallo strano silenzio che aleggiava nel paese, in netto contrasto con la comunità piena di vita che era stata Massarosa prima della guerra. Berrettoni ricorda che improvvisamente:

Quel silenzio fu interrotto dal rombo di un motore e un (da) un canto insolito per noi ragazzi, e così si corse subito verso la strada maestra, ossia la “Via Sarzanese”, e appena fummo in strada, si vide spuntare dalla curva, detta del frantoio della Signora Marchesa Provenzali, in direzione Viareggio-Lucca, una gran camionetta militare, con il cassone coperto dal telo mimetico, dal cui interno uscivano dei canti […].

Quel mezzo militare, appena giunto nei pressi del Municipio, imboccò quella via inghiandata, fatta a semicerchio, che attraversava tutta la piazza, e giunti al centro, misero la camionetta, col davanti rivolto verso la Via Sarzanese […], dalla cabina della camionetta scesero

559

192 velocemente due uomini vestiti di nero e uno dei due […] noi ragazzi

capimmo dalla divisa che si trattava di un ufficiale dell’Esercito Repubblichino […].

L’ufficiale e il militare […] si diressero velocemente verso il portone del Municipio, da prima suonando il campanello, poi bussando ripetutamente con dei pugni e dei calci, finché il portone si aprì e dall’interno apparve stizzito il Dini Torello, “la Guardia Municipale”, che lasciò partire una serie di Sacrati, mentre l’ufficiale l’affrontò subito con prepotenza, chiedendogli del Commissario, e lui gli rispose che il Commissario (si trattava del Commissario Prefettizio, N.d.A.) sarebbe stato lì alle nove560.

Alla notizia che il commissario sarebbe giunto solamente alle nove, l’ufficiale della GNR andò su tutte le furie e pretese che egli fosse rintracciato immediatamente. Venne chiamato un tassista del luogo, tale sig. Casella, che si recò subito a Bozzano, dove abitava il neo commissario Carlo Rontani561. Nell’arco di pochi minuti Rontani era nel suo ufficio insieme all’ufficiale. Intanto:

Dalla camionetta che stava sulla piazza, […], noi ragazzi vedemmo scendere quattro o cinque giovani militari, che avevano facce stralunate, […], avevano il moschetto a tracolla, con la baionetta in canna. […] All’improvviso sentimmo delle urla che venivano dallo sporto aperto del terrazzo, dove prima, e durante la guerra, c’era l’ufficio del podestà, e in quel tempo era passato al Commissario, da dove uscivano delle urla, simili ad un litigio.

560

Solimano Berrettoni, Cronache della II Guerra Mondiale (episodi e poesie dal tempo di guerra), Tragici

momenti, pp. 13-19.

561 C’è una discrepanza tra il racconto di Berrettoni e la nomina di Rontani quale Commissario Prefettizio al

posto del podestà Antonio Lollusa. La lista dei sindaci di Massarosa disponibile sul sito del comune riporta il 27 aprile quale giorno della nomina, ma le vicende narrate da Berrettoni risalgono al 19. I ricordi del testimone appaiono però molto precisi ed egli conosceva bene sia Lollusa che Rontani, essendo il primo stato in carica fin dal 1935. Non c’è motivo di dubitare che Rontani fosse già al suo posto il 19 aprile.

193 Dopo poco sentimmo un forte scalpitio, che veniva dalle scale del

Municipio e vedemmo uscire velocemente dal portone, sorridendo e brandendo alcuni fogli di carta, l’ufficiale e l’altro militare562.

Si trattava, evidentemente, dell’autorizzazione, probabilmente strappata quasi con la forza viste le «urla simili ad un litigio» udite da Berrettoni, a procedere con la fucilazione. Immediatamente infatti, i militari risalirono sulla cabina del camion e procedettero in direzione di Viareggio. Non passò molto che:

fummo ad un tratto, tutti quanti gelati da una scarica di fucilate, che venivano in direzione Viareggio, proprio dove si era diretta quella camionetta, e appena ci fummo ripresi dallo spavento, c’incamminammo tutti verso Viareggio, e alla curva del frantoio Provenzali, si vide in fondo al Corso, la solita camionetta che venendo in su dalla via del Pantaneto, stava immettendosi sulla via Sarzanese, proseguendo poi in direzione di Viareggio, mentre quei soldati stavano ancora cantando ad alta voce.

Dopo poco, alcune donne, qualche uomo anziano e noi ragazzi, si andava verso il Pantaneto, e appena giungemmo nei pressi del cimitero, scorgemmo qualche persona, che stava già sul posto piangendo, con le mani nei capelli e il volto stravolto […], scorgemmo due persone stese per terra, in un bozzo di sangue, vicino al muro di cinta del cimitero, a calcio dei lunghi cipressi, mentre alcune donne stavano coprendo con un bianco lenzuolo, quei corpi, salvaguardando la loro dignità di uomini, in quel caso sfortunati563.

I corpi non poterono essere subito spostati perché si dovette attendere che arrivassero alcune autorità da Lucca, quindi l’impietosa scena rimase sotto gli occhi di tutti per lungo tempo. Alla fine vennero portati nella piccola cappella del cimitero, dove

562 Solimano Berrettoni, Cronache della II Guerra Mondiale – Tragici momenti, cit., pp. 15-16. 563

194 il parroco di Massarosa gli impartì l’estrema unzione, e dove rimasero in attesa che alcuni familiari giungessero per il riconoscimento. Berrettoni afferma che in seguito, durante alcune ricerche personali, venne a conoscenza dei motivi degli urli provenienti dall’ufficio del podestà, da lui uditi mentre si trovava nella piazza del comune. Era necessario infatti che l’ufficiale della GNR ottenesse il nulla osta da parte del commissario prefettizio per fucilare i due sventurati nel territorio del comune, ma in precedenza si era visto già rifiutare tale autorizzazione da parte di altri commissari. All’arrivo della camionetta di fronte al municipio di Massarosa, l’ufficiale era in evidente stato di agitazione e aveva fretta di incontrare Rontani. Berrettoni afferma che l’ufficiale, pur di ottenere il nulla osta, aveva fatto ricorso alle maniere forti e addirittura «si disse a quel tempo anche con minacce di morte e con la pistola puntata alla tempia»564. Non è possibile stabilire la veridicità di quest’ultima affermazione di Berrettoni, ma è evidente che il commissario Rontani non dovette essere molto contento di dover firmare niente di meno che una condanna a morte.

L’evento scosse molto la comunità massarosese, che nell’aprile del 1944 non era ancora stata testimone di grandi spargimenti di sangue. Il vice-commissario del fascio repubblicano del paese, Callisto Bei Mansueto, osservò in seguito a Piazzesi che la popolazione di Massarosa era rimasta molto costernata dall’accaduto; la raggelante risposta del capo della provincia fu: «Bene, così si convinceranno che la Repubblica fa sul serio»565. La cronistoria della Parrocchia di Massarosa conferma «l’indicibile impressione prodotta in paese» dalla fucilazione e aggiunge alcuni dettagli. Il parroco, con l’appoggio del Commissario Rontani, aveva infatti preso la decisione di seppellire con cerimonia solenne i due sfortunati giovani, ma Piazzesi diramò l’ordine che essi fossero sepolti senza alcun tipo di celebrazione religiosa e rigorosamente fuori dal cimitero. Don Chicca decise dunque di recarsi a Lucca a consultarsi con i propri superiori, i quali diedero il consenso, di fatto scavalcando l’ordine del capo della provincia, alla sepoltura all’interno del recinto del cimitero566.

564

Ibid.

565

Pardini, La Repubblica Sociale Italiana e la guerra in provincia di Lucca, nota 240, cit., p. 276.

566 APM, Cronache 1938-1966 (B-F 65 372), Breve cronistoria della Parrocchia di Massarosa dall’anno

195 Oggi una lapide, posta nell’esatto luogo in cui si svolse la fucilazione, ricorda Domenico Randazzo e Vittorio Monti. Ad essi sono stati aggiunti i nomi di altri quattro uomini, vittime anch’essi dei nazifascisti. Si tratta di Guido Posi, Umberto Agostini, Dino Martelli, Amedeo Pezzini e Ornelio Pasquinucci567.

3.

La strage di Valpromaro

Gli eventi occorsi di fronte al cimitero di Massarosa erano soltanto il preludio di una stagione di violenza quale il comune e tutta la Versilia non avevano mai sperimentato. Alla fine di giugno fu la volta di Valpromaro.

Questo piccolo abitato sorge sulle boscose colline a nord-est del capoluogo e si trova esattamente sul confine tra Massarosa e Camaiore, tanto che il paese è letteralmente spartito tra i due comuni. Il 28 giugno un distaccamento della formazione partigiana «Mulargia», da poco rifondata, si stava spostando nel Lucese in attesa di un aviolancio alleato568. Attorno all’una e un quarto del mattino del 29 l’avanguardia si scontra però con due portaordini della 65ᵃ Divisione di fanteria della Wehrmacht, i quali vengono uccisi nei pressi di Piazzano, a circa due chilometri a sud-est di Valpromaro. Il locale comando tedesco venne presto a conoscenza dell’accaduto e si adoperò per effettuare un rastrellamento della zona, che ebbe inizio già all’alba. Vennero catturati 25 uomini residenti a Valpromaro e due cittadini di Torre del Lago che si trovarono loro malgrado a passare per la zona dopo essersi recati a Lucca al mercato. Dieci prigionieri vennero lasciati a Valpromaro quale garanzia contro ulteriori attacchi partigiani, mentre gli altri furono incolonnati e scortati fino a San Macario; tre riuscirono a fuggire durante il percorso. Nel frattempo il parroco del paese, don Chelini, si offrì prigioniero insieme al professor Pizzi, docente di Lettere, riuscendo come contropartita a far liberare 10 prigionieri569.

567 Atti delle indagini relative a questa uccisione vennero rinvenuti nella documentazione

provvisoriamente archiviata a Palazzo Cesi il 14 gennaio 1960 da parte del Procuratore Generale Militare Enrico Santacroce. Vengono riportate in appendice.

568 Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 203. 569

196 La situazione però era ancora molto tesa e precipitò quando un singolo soldato tedesco, risalito da solo fino all’abitato di Gombitelli, iniziò a perpetrare una serie di atti di violenza e di saccheggio. I suoi spari richiamarono un vicino distaccamento di cinque o sei uomini della banda «Ceragioli» che sceso in paese riuscì a catturare il soldato. Il mattino successivo, 30 giugno, una pattuglia germanica si recò a Gombitelli, ma non fu in grado di trovare traccia né del commilitone né dei partigiani, che ormai si erano sganciati. La rappresaglia scattò immediata. I militari tedeschi iniziarono bruciando alcune abitazioni del luogo e poi, tornati a Valpromaro, decisero di giustiziare i prigionieri, in tutto 17 persone. Qui, dopo alcune confuse trattative cinque di essi vennero rilasciati: due parroci, il fratello e il cognato di un tenente della Milizia fascista e il professor Pizzi. I dodici rimasti, tutti di età compresa tra i 17 e i 52 anni, vengono giustiziati in via Piano del Rio570.

L’azione punitiva di Valpromaro si inserisce appieno nella lotta sempre più aspra tra le formazioni partigiane e le forze nazifasciste; essa è un classico esempio di rappresaglia messa in atto a seguito di un’azione della Resistenza, in questo caso l’uccisione di due staffette della 65ᵃ Divisione e la cattura di un altro militare germanico. Che però le forze tedesche, nell’effettuare queste azioni, spesso non provassero neppure a cercare eventuali veri fiancheggiatori delle bande partigiane, lo dimostra la vicenda di una delle dodici vittime di quel 30 giugno 1944. Si tratta di Guido Posi, l’unico massarosese ucciso quel giorno. Egli venne infatti catturato mentre si stava recando dal barbiere a farsi la barba. Il parroco di Massarosa, venuto a sapere dell’accaduto, pur temendo la reazione dei tedeschi si recò a Valpromaro con l’autoambulanza e riuscì ad ottenere la consegna del cadavere, che si trovava ancora sul luogo della fucilazione legato agli altri giustiziati. Poté quindi essere riportato nel capoluogo, dove la salva venne lavata e composta nella bara571.

570

Ivi, pp. 203-204.

571 APM, Cronache 1938-1966 (B-F 65 372), Breve cronistoria della Parrocchia di Massarosa dall’anno

197

4.

L’allagamento del «Padule» di Massarosa

Lo stesso giorno della strage di Valpromaro i tedeschi misero in atto una serie di azioni che erano chiaramente volte a complicare l’avanzata degli angloamericani, che pur rimanendo ancora ferma di fronte al fiume Arno, era evidentemente considerata inevitabile. Venne presa la decisione di far saltare alcuni argini che impedivano alle acque salmastre di riversarsi nei più bassi terreni coltivati strappati alla zona palustre grazie alle estese bonifiche idrauliche. Al furono sabotate, spesso in misura molto grave, le varie pompe di drenaggio disseminate per tutta la bonifica, da Vecchiano a Viareggio, impedendo quindi la normale regolazione delle acque572. Simili tattiche sono state applicate più volte dalle truppe tedesche durante la Seconda guerra mondiale. Un esempio fu l’apertura e il sabotaggio delle valvole della più grande delle sette dighe sul fiume Roer, al confine tra Belgio e Germania – quella di Schwammenauel – e la rottura degli argini del fiume Reno. Entrambe le azioni vennero compiute durante le operazioni alleate Granade e Veritable573. Ma ancora più simile a ciò che accadde alla bonifica versiliese, fu l’allagamento delle Paludi Pontine, messo in atto dai tedeschi mentre si stavano ritirando in seguito allo sfondamento della linea Gustav574. La zona si era già spopolata in seguito al peggioramento delle condizioni di vita, delle azioni di guerra e dei rastrellamenti, ma adesso, con l’allagamento delle aree bonificate, ci fu un massiccio ritorno della zanzara anofele e quindi della malaria, che imperversò su coloro che erano tenacemente rimasti, ma spesso già indeboliti per le privazioni della guerra.

Le conseguenze dell’allagamento della bonifica versiliese, almeno per quanto riguarda la zona di Massarosa, non sono mai state studiate a fondo. Esistono soltanto alcuni accenni in Terra ed acqua. Una bonifica per lo sviluppo, di Tommaso Fanfani. Senza dubbio l’allagamento influì sulla capacità di ripresa del territorio nell’immediato dopoguerra, dove la disoccupazione rimase molto alta, anche perché l’aumento della salinità delle acque del lago diede il colpo di grazia alla coltivazione del riso, già in calo a

572

Ibid.

573 Ken Ford, Il crollo dell’esercito tedesco. Ultima battaglia a Ovest, RBA, Milano 2009, pp. 44-45. 574

Nel documento Massarosa in guerra 1940-1945 (pagine 186-200)