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La Resistenza in provincia di Lucca

Nel documento Massarosa in guerra 1940-1945 (pagine 168-178)

Parte seconda

1. La Resistenza in provincia di Lucca

Anche in Lucchesia i primi nuclei della Resistenza si formarono attorno a ex militari sbandati dopo l’8 settembre per evitare la cattura. Inizialmente le autorità della neo- costituita RSI non parvero dare troppo peso a queste piccole unità, ritenendo che il problema rimanesse circoscritto al semplice ordine pubblico504. Il movimento clandestino si stava comunque già organizzando, soprattutto in Versilia e a Viareggio, dove era guidato principalmente da esponenti comunisti, mentre nelle zone montane della Garfagnana si stavano già formando le prime vere unità partigiane505. Le prime manifestazioni di resistenza si dimostravano per il momento soprattutto attraverso il volantinaggio clandestino, la distruzione dei manifesti repubblicani e attentati sulle vie di transito degli automezzi tedeschi e sulle linee ferroviarie. Quest’ultimo tipo di azione

504 Pardini, La Repubblica Sociale Italiana e la guerra in provincia di Lucca (1940-1945), cit., p. 171 505

171 rimase inizialmente piuttosto circoscritto, ma i tedeschi presero la minaccia molto sul serio fin dal principio, sensibili quali erano nei confronti delle linee logistiche, sempre più battute dagli stessi anglo-americani. Già tra l’ottobre e il novembre del 1943 nei comuni di Camaiore, Viareggio e della stessa Massarosa, vennero prese in ostaggio dieci persone dalle locali autorità tedesche come garanzia contro ulteriori attentati506.

All’inizio del nuovo anno l’intensità delle azioni di sabotaggio e l’attività della Resistenza erano ancora molto basse, ma nuclei armati di partigiani si stavano organizzando e stavano aumentando numericamente, soprattutto nelle aree della Garfagnana e della Versilia, come una relazione della polizia, datata 25 gennaio 1944, non mancò di far notare507. Nelle settimane successive le azioni e le retate antipartigiane si intensificarono, sintomo che la minaccia stava diventando sempre più seria. Fu in questo periodo – e nei mesi seguenti – che si formarono alcune delle bande più attive del movimento partigiano versiliese e lucchese, come i «Cacciatori delle Apuane», la «Mulargia», la «X bis Brigata Garibaldi» e la «Marcello Garosi». Come vedremo nel capitolo successivo, a partire dalla tarda primavera del 1944, l’accresciuta aggressività delle bande, la disgregazione del fronte a Cassino e la presa di controllo pressoché totale dei tedeschi sulla Lucchesia e sulla provincia di Apuania, portarono ad una radicalizzazione estrema della lotta alla Resistenza e ad una vera e propria guerra ai civili.

D’altra parte, dal maggio del 1944, l’incremento dell’attività dei ribelli veniva considerato preoccupante, soprattutto se messo in relazione con la disastrosa situazione bellica generale e con il baratro che ormai si era creato tra autorità fasciste e popolazione. Un rapporto della Questura di Lucca del 3 giugno è significativo della situazione a quell’epoca e racchiude quasi tutti i principali problemi che la provincia stava affrontando:

L’andamento non favorevole delle operazioni belliche sul fronte italiano, lo scarso numero di sbandati presentatisi a seguito del noto provvedimento di clemenza del Duce – poco più di 300 unità in tutta la

506 Ibid. 507

172 provincia e supponibilmente non facenti parte di vere e proprie bande

organizzate – l’incremento dell’attività ribellistica, finora quasi incontrastata ed estrinsecatesi in atti di banditismo e in continue e sanguinose aggressioni verso esponenti ed elementi del fascismo e della GNR, l’intensificarsi degli attacchi aerei e dei mitragliamenti, il continuare negli atti di sopruso da parte dei tedeschi, specie nella zona sgomberata di Viareggio, hanno contribuito ad accrescere, se non l’ostilità, la sfiducia e l’indifferenza delle popolazioni della Lucchesia, già costituzionalmente filo americani e filo inglesi508, verso il governo del nuovo Regime ed i suoi rappresentanti provinciali […].

Di fronte a tale situazione i pochi fascisti sono demoralizzati e conseguentemente si astengono da iniziative e si guardano d’attorno con circospezione. Si sono anche verificate – come a Corsanico e Seravezza – defezioni di qualche iscritto e dimissioni di Segretari Politici509.

Per la Lucchesia il tramonto dell’amministrazione repubblicana, realisticamente descritto dal rapporto del 3 giugno, sarebbe coinciso con un bagno di sangue che non avrebbe risparmiato nessuno e che avrebbe visto i civili in prima linea in questa guerra fatta di rappresaglie ed esecuzioni sommarie.

2.

Prime azioni nel massarosese

L’area del comune di Massarosa fu una delle prime in cui si svilupparono gli iniziali tentativi di resistenza nei confronti del governo della RSI e delle truppe d’occupazione tedesche. Abbiamo visto che già alla fine di ottobre del 1943, poco più di un mese dopo l’armistizio, le autorità germaniche ritennero opportuno prendere in ostaggio alcune persone dei comuni di Massarosa, Camaiore e Viareggio a scopo precauzionale. Pochi

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È probabile che tale affermazione sia da ricollegare ai tradizionali legami che molte famiglie della Lucchesia avevano con gli Stati Uniti. L’emigrazione, anche se spesso non permanente, dalla provincia verso questa «terra promessa» era stata un fattore assolutamente rilevante per molti anni.

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173 mesi dopo però, con l’inizio del 1944, questa misura venne ulteriormente intensificata, con 20 civili massarosesi che la notte venivano costretti a montare la guardia e quindi costretti a rispondere personalmente dei sabotaggi e dei danneggiamenti avvenuti nelle aree poste sotto la loro responsabilità510. Di solito comunque, in questi primi mesi di vita del movimento di resistenza, le azioni si limitavano al taglio dei fili del telefono, a furti e al danneggiamento di veicoli.

L’area collinare coperta di fitti boschi che caratterizzava una parte cospicua del territorio massarosese era favorevole al tipo di guerra combattuta dalle bande partigiane. Essa si estendeva a sud-est verso il comune di Lucca e a nord in quello di Camaiore, permettendo quindi estesi collegamenti tra questi tre comuni, oltre che in tutta la zona boschiva della Freddana e della Garfagnana. Ciò permetteva spostamenti relativamente agevoli anche di gruppi di dimensioni ragguardevoli, consentendo quindi un largo raggio d’azione. Furono probabilmente queste caratteristiche geografiche a rendere possibile la creazione precoce di formazioni partigiane nella vasta area boscosa che dal comune di Lucca a sud si spingeva fino all’interno dell’attuale provincia di Massa- Carrara nella zona delle Alpi Apuane.

Dopo un’iniziale attività però, la zona di operazioni principale delle formazioni partigiane versiliesi si spostò più a nord, nel camaiorese e soprattutto nelle impervie aree delle Alpi Apuane, che fornivano un luogo vasto e ben riparato. Fu qui che operarono i «Cacciatori delle Apuane» di Gino Lombardi e, dopo la sua morte avvenuta il 21 aprile 1944 per opera dei repubblicani511, la «Luigi Mulargia», fondata da Marcello Garosi (nome di battaglia «Tito») e Lorenzo Bandelloni, con l’aiuto di elementi del gruppo del viareggino Guido Vannucci512. L’attività di queste e di altre unità partigiane rese le autorità nazifasciste maggiormente preoccupate riguardo la sicurezza del territorio e la lotta antipartigiana vanne intensificata. Già il 5 marzo era stata messa in atto una grande retata in tutta la zona versiliese, la quale portò alla cattura di numerosi membri del movimento patriottico, e dall’aprile successivo iniziarono anche nel

510

Ibid.

511

Ivi, p. 275.

512 Francesco Bergamini – Giuliano Bimbi, Antifascismo e resistenza in Versilia, Pezzini, Viareggio 1983, pp.

174 massarosese le prime fucilazioni513. Spesso i reparti della RSI e quelli tedeschi non andavano per il sottile e a farne le spese non erano sempre i membri della Resistenza. I due fucilati di fronte al muro del cimitero di Massarosa il 19 aprile – luttuoso evento che verrà descritto nei dettagli nel prossimo capitolo – con tutta probabilità non facevano parte di alcuna formazione partigiana, anche se uno di essi venne trovato in possesso di una vecchia pistola a tamburo, senza proiettili.

La neo formata banda «Luigi Mulargia», fu da subito molto attiva nella zona del monte Prana e nel comune di Seravezza, ma a riprova della relativa facilità di spostamento tra l’area delle Apuane e la zona collinare di Camaiore-Massarosa, la sera del 17 maggio 1944 una ventina di uomini di questa formazione, al comando del capo plotone Gustavo Rontani («Tono»), si recarono nel comune di Massarosa. Tre di loro, si diressero verso la locale stazione dei carabinieri e dopo aver immobilizzato i presenti rubarono alcune armi e una motocicletta514. Non ci fu alcuno spargimento di sangue. Rontani nelle sue memorie rammenta questa azione:

Suonai il campanello e si affacciò il Maresciallo in persona, che mi conosceva bene. «Signor Tenente (era il grado di Rontani quando serviva nel Regio Esercito, N.d.A.), cosa fa a quest’ora? Si accomodi … si accomodi».

Quando ebbi spiegato il motivo … della visita rimase di sale. «Ma signor Tenente perché lei … proprio lei si espone a questi rischi?» La sconcia risata dei miei uomini mi sommerse nel ridicolo e intanto cantilenavano: «Ma signor Tenente proprio lei» … E poi si smascellavano dalle risa. Ce la feci a stento a riportare un po’ d’ordine e facemmo l’inventario: qualche vecchio fucile 38 e una mezza dozzina di mitra Beretta nuovi di zecca che fecero brillare gli occhi a più d’uno. Non male!

I carabinieri […] se la squagliarono felici di tornarsene a casa e il Maresciallo […] fu costretto a seguirmi fino a Gualdo.

513 Ivi, pp. 81-82.

514

175 «Vede Maresciallo, mi dispiace, ma è meglio far finta che sia

stato fatto prigioniero, con i tedeschi non si sa mai!» Un po’ impaurito ne convenne, e a Gualdo lo facemmo tornare a casa!515

In un’azione simile compiuta nello stesso periodo, una squadra di Rontani – 12 uomini in tutto – aveva disarmato anche un distaccamento della Milizia fascista a Montramito. Lo scopo dell’azione era la stessa – reperire armi e munizioni – e venne eseguita anch’essa in modo impeccabile senza spargimento di sangue. Dopo essere riusciti con la minaccia delle armi ad entrare nella casa che fungeva da caserma, i militari vennero chiusi a chiave in una stanza e i partigiani fecero man bassa di tutti i fucili che riuscirono a trovare, anche se rimasero un po’ delusi perché si trattava di armi piuttosto vecchie516.

Gustavo Rontani era nato a Bozzano nel 1921, dove la sua famiglia possedeva l’importante calzaturificio «Apice». Dopo aver studiato a Viareggio si iscrisse alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Firenze che frequentò fino al 1941, quando venne richiamato alle armi. Dopo l’8 settembre partecipò attivamente alla resistenza prendendo parte al recupero di diversi lanci di materiale bellico condotti dagli Alleati e collaborando con la «Mulargia»517. Poco dopo l’armistizio Rontani era infatti riuscito a nascondere una parte delle armi e delle munizioni che si trovavano in un magazzino per il grano vicino alla stazione ferroviaria di Bozzano e che per tre mesi aveva ospitato un battaglione di fanteria. La maggior parte delle armi era stata privata degli otturatori dai soldati, ma Rontani riuscì a recuperarne un buon numero insieme alle relative munizioni, poi con l’aiuto di alcuni suoi ex commilitoni aveva nascosto tutto in un ossario del cimitero di Bozzano518. Quando nell’aprile del ’44 iniziò a formarsi il primo nucleo della «Mulargia», Garosi chiese al massarosese se fosse possibile recuperare quelle armi, che avrebbero fatto molto comodo visto lo stato di iniziale disorganizzazione dovuto alla perdita di Lombardi e alla distruzione dei «Cacciatori delle Apuane». I due si

515 Gustavo Rontani, L’Aquilone. Storia autobiografica di un imprenditore del XX Secolo, Istituto Storico

Lucchese, Lucca 2009, p. 62. 516 Ibid. 517 Ivi, p. 11. 518 Ivi, pp. 57-58.

176 incontrarono a Gualdo, dove Garosi era giunto con trenta uomini dopo un’estenuante marcia sotto la pioggia. Nel corso della stessa notte riuscirono ad arrivare a Bozzano dove senza essere visti recuperarono il materiale bellico dall’ossario. Il comandante partigiano rimase sorpreso da scoprire che insieme ai fucili c’erano anche due mitragliatrici Breda 37. Riuscirono quindi a ritornare a Gualdo, dove i due si separarono amichevolmente; fu l’ultima volta che Rontani vide Marcello Garosi519.

La «Luigi Mulargia» andò incontro al suo destino nel giugno successivo. La formazione fu spronata all’azione dal proclama del generale Alexander diffuso alla radio nella notte tra l’8 e il 9 giugno. In esso il comandante alleato invitava tutte le formazioni partigiane che operavano a cavallo della prevista linea Pisa-Rimini ad ostacolare quanto più possibile gli sforzi germanici, perché se gli eserciti anglo-americani fossero riusciti ad impedire l’attestamento delle forze tedesche sugli Appennini settentrionali, sarebbe stato possibile dilagare nella Pianura Padana prima della fine dell’estate. Il messaggio fu probabilmente prematuro, anche se il generale Alexander era sinceramente convinto di poter sfondare la Gotica prima dell’arrivo della cattiva stagione. In realtà le unità tedesche poste a cavallo di tale linea erano più forti di quanto sia gli alleati che le unità della Resistenza si aspettassero e la marcia degli eserciti anglo-americani si rivelò più lenta del previsto, impantanandosi alla fine sui massicci dell’Appennino Tosco Emiliano, dove il fronte rimase sostanzialmente statico fino alla primavera del 1945. Molte formazioni partigiane pagarono a caro prezzo la convinzione di essere rapidamente raggiunte dagli Alleati.

A seguito di alcune brillanti azioni la «Mulargia» riuscì ad occupare il paese di Forno, frazione del comune di Massa che sorge sulle Alpi Apuane. La reazione italo- tedesca non si fece attendere e nella notte del 13 giugno un migliaio di militari delle SS, della X MAS e della GNR, con l’appoggio di due semoventi, iniziarono l’attacco a Forno. Fu un’azione ben studiata e concertata, che come di consueto prevedeva un accerchiamento dell’area da bonificare. Per le ore 6 il paese era stato completamente circondato e alle 9,30 Garosi, dopo aver coperto la ritirata di due suoi compagni, preferì togliersi la vita piuttosto che cadere in mano al nemico. Poco dopo il paese era

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177 completamente in mano agli italo-tedeschi, i quali iniziarono immediatamente una feroce rappresaglia, che alla fine contò circa 60 vittime e una cinquantina di deportati520. Garosi venne in seguito insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare.

3.

La «questione» delle rappresaglie

Visto anche la violenza delle rappresaglie tedesche nei confronti della popolazione civile, che in Versilia raggiunsero il loro picco massimo nell’agosto del 1944, non bisogna credere che la popolazione civile appoggiasse incondizionatamente i partigiani. Benché stanca della guerra, in sempre crescente difficoltà a trovare qualcosa da mettere sotto i denti e vessata dall’occupazione tedesca, il sentimento che spesso animava i civili era la paura. Paura delle reazioni germaniche alla presenza di gruppi della Resistenza nelle vicinanze e anche paura delle bande stesse. Didala Ghilarducci, originaria di Viareggio e moglie di Ciro Bertini (nome di battaglia «Chittò»), faceva la staffetta per conto della formazione partigiana del marito. Molti anni dopo rammentava che recandosi a Gualdo «mi resi conto che il paese non ci voleva nemmeno vedere, aveva paura delle reazioni tedesche, voleva che stessimo alla larga; ma noi difficilmente ci fermavamo nei paesi perché lo sapevamo, stavamo sempre in montagna»521.

Il piccolo borgo di Gualdo fu comunque al centro delle attività partigiane dell’agosto-settembre del 1944. Mio nonno materno, Lino Natali, vi era sfollato con la famiglia all’inizio di agosto quando iniziarono i grandi rastrellamenti del massarosese e ricorda che nella cantina della casa in cui avevano trovato rifugio c’era un deposito di armi, per lo più mitragliatori Sten di fabbricazione inglese. Solimano Berrettoni, che si trovava in paese da più tempo, si ricorda che poco dopo la strage ai «Pioppetti», di cui fu testimone, un’improvvisa esplosione fece temere il peggio agli uomini del paese, i quali erano convinti che si trattasse dei tedeschi che erano venuti a prenderli. Ci fu la solita frenetica corsa ai rifugi, ma ben presto si scoprì la vera origine dell’esplosione. Una pattuglia partigiana stava transitando per le vie del paese, quando uno degli uomini era

520

Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 202. Altre fonti citano cifre più consistenti, con più di 70 fucilati e diverse centinaia di deportati. Bergamini – Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 104-109.

521

178 scivolato sulla ripida scalinata di fronte alla chiesa ed aveva urtato contro la spina di sicurezza di una bomba a mano che teneva alla cintura. La granata era detonata e aveva ferito gravemente il giovane che, pur soccorso dagli abitanti del borgo era morto per dissanguamento poco dopo, mentre si cercava di trasportarlo con un carretto all’ospedale di Camaiore522.

D’altra parte non sono poche le lettere che dimostrano la paura provata nei confronti delle formazioni partigiane. In una datata febbraio 1944 ed inviata da Natalina Mengo, Cuneo, a Settimo Coluccini a Stiava, la scrivente sosteneva che:

ora il nostro paese è continuamente circondato da ribelli, però al momento è tutto calmo. Io non avrei mai creduto che anche nei nostri posti si dovessero vedere le armi.

E a volte i partigiani stessi non facevano molto per ingraziarsi le simpatie della popolazione civile. Nell’ottobre del 1944, a liberazione avvenuta, venne stilato un rapporto che fu inviato al CLN di Massarosa. In esso si descriveva un episodio avvenuto poco meno di un mese prima, in data 10 settembre. Quella sera, attorno alle 10,30, il distaccamento ai comandi del sottotenente Rontani («Tono») era giunto a Quiesa per presidiare il paese. Durante la permanenza era stata abbattuta con violenza la porta della casa al numero civico 3 di Piazza del Paese. I proprietari non erano in casa, ma i vicini cercarono di invitare gli uomini ad aspettare che venissero trovate le chiavi di casa, ma essi non vollero sentire ragioni. Una volta entrati danneggiarono altri parti della casa, soprattutto stoviglie e quadri523. Le strane modalità di questo episodio – i partigiani potevano entrare in una qualsiasi delle altre case, aperte e i cui inquilini li avrebbero accolti – fanno sorgere il sospetto che dietro il gesto ci fosse qualcosa di più profondo, forse la ricerca di qualche noto fascista del luogo.

La questione delle rappresaglie tedesche e della minaccia – vera o presunta – delle bande nei confronti della popolazione civile è del resto un argomento discusso. Giorgio Amendola ha scritto che:

522 Berrettoni, Cronache della II Guerra Mondiale, Tempo di guerra 1943-1944, cit., pp. 26-27. 523

179 Il problema delle rappresaglie era stato posto e risolto una volta

per sempre all’inizio della guerra partigiana, in Italia come prima in Francia e negli altri paesi occupati dai nazisti. Accettare il ricatto delle rappresaglie voleva dire rinunciare in partenza alla lotta. Bisognava reagire alle rappresaglie naziste rispondendo colpo su colpo, senza fermarsi di fronte al nemico524.

Se questa logica poteva però andare bene per chi combatteva da volontario l’occupante tedesco, era certamente meno valido per la popolazione civile, la quale spesso si trovava presa tra i due fuochi. Paolo Pezzino non è del tutto d’accordo, anche se ammette che in tempo di guerra un’etica del sacrificio sia l’unica possibile, legittimando i partigiani, nelle loro azioni, proprio in virtù del loro sacrificio personale e del tutto volontario525. Il problema sta tutto nel fatto che mentre una parte decisamente minoritaria della popolazione italiana nelle zone occupate decise di aderire al movimento partigiano, una ben più ampia maggioranza preferì non impegnarsi in azioni di resistenza. Di conseguenza spesso non riconosceva, implicitamente o meno, il diritto dei membri delle bande di «parlare anche a nome loro»; in poche parole non era disposta a quel sacrificio – nel caso dei civili esso era rappresentato soprattutto da rappresaglie e deportazioni – che invece i partigiani accettavano.

C’è comunque da fare una distinzione tra gappisti e bande che operavano alla macchia. Queste ultime necessitavano, per la loro stessa sopravvivenza, dell’appoggio delle popolazioni rurali, le quali erano fondamentali per ottenere rifornimenti alimentari e di vario tipo. Le formazioni della resistenza che operavano nei boschi erano quindi più caute rispetto ai GAP operanti nelle città, proprio per evitare di alienarsi troppo l’appoggio dei civili526. I gruppi della Versilia non facevano eccezione, come dimostra la testimonianza di Didala Ghilarducci, secondo la quale la sua banda – la «Garosi» – cercava quanto più possibile di evitare i centri abitati per scongiurare quanto più

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Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Le stragi tra storia e memoria, in Luca Baldissara – Paolo Pezzino, Crimini

e memorie di guerra, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004, p. 42.

Nel documento Massarosa in guerra 1940-1945 (pagine 168-178)