• Non ci sono risultati.

La vita nell’esercito

Nel documento Massarosa in guerra 1940-1945 (pagine 76-93)

I MASSAROSESI SOTTO LE ARM

2. La vita nell’esercito

Il servizio nelle forze armate è di per se duro e privo delle comodità di cui usualmente si dispone durante la vita da civile. Le condizioni di un soldato peggiorano poi drasticamente in caso di guerra e dipendono, come è ovvio, dal corpo in cui serve e dalla destinazione cui è assegnato. É chiaro infatti che il servizio in un reggimento di fanteria in prima linea sarà statisticamente sempre più pericoloso di un’assegnazione a compiti logistici, ai comandi o perfino all’artiglieria199. Allo stesso modo le asprezze del teatro operativo nel quale si veniva inviati incidevano sulle difficoltà che il soldato doveva affrontare. Eppure, a testimonianza delle carenze che le Forze Armate italiane ebbero durante il conflitto, nell’esercito era possibile soffrire grandemente durante un semplice servizio di guarnigione in una zona che rimase relativamente tranquilla fino all’estate del 1943: la Sicilia. Qui rimase di stanza il caporalmaggiore Dino Simonetti, nato e residente in località La Ficaia, nei pressi di Massarosa. Richiamato alle armi nel marzo del 1940, venne assegnato al 75° Rgt. Fanteria della 54ᵃ Divisione «Napoli», che rimase di guarnigione nel sud della Sicilia in funzione antisbarco fino all’invasione anglo- americana del luglio 1943.

Simonetti, che in seguito all’invasione della Sicilia fu preso prigioniero dalle truppe britanniche, ricorda di aver sofferto maggiormente nelle fila dell’Esercito Italiano che in prigionia. Fin dai primi tempi di permanenza nell’isola rammenta di aver avuto, oltre agli immancabili pidocchi, anche le pulci, le zecche e le piattole. «Ci lavavamo la biancheria

199 Escludendo battaglie di annientamento come quella di Stalingrado o l’accerchiamento e la distruzione

del Corpo d’Armata Alpino nel gennaio del 1943, solitamente la fanteria era quella che subiva di gran lunga il tasso di logoramento maggiore. A titolo di esempio, su 100.000 perdite americane subite in Normandia nel giugno e nel luglio del 1944, addirittura l’85 per cento era della sola fanteria. Max Hastings,

79 in un fiume e, tra l’altro, ci presi anche la malaria. Sono stato in infermeria per almeno tre mesi»200. Queste erano le condizioni in cui versava un’unità italiana di stanza per anni in una regione relativamente tranquilla e in territorio metropolitano. Possiamo solo immaginare cosa dovettero passare le truppe impiegate invece sui fronti di guerra, dove oltre al fuoco nemico dovevano affrontare condizioni meteorologiche estreme, come sulle montagne dell’Epiro o nelle steppe russe.

Non dobbiamo però pensare che la relativa sicurezza, seppur in condizioni disagiate, dei militari di stanza in aree tranquille potesse compensare la nostalgia di casa. Simonetti era riuscito ad ottenere una prima licenza nel 1941 – cosa che era più facile per i militari di stanza in Italia, molto meno per quelli che servivano in altri teatri – e in seguito cercò di aggiudicarsene un’altra.

[…] Tentai un’altra licenza facendo un corso da graduato […] perché c’era una licenza premio per chi era promosso. Io fui promosso, ma la promozione da sergente rimase nel comando e non mi mandarono in licenza. Arrivarono prima gli inglesi201.

In effetti il C.M. Dino Simonetti, con una promozione a sergente mai ufficializzata, avrebbe rivisto la propria casa e la propria famiglia soltanto nel 1945202.

Spesso i soldati riuscivano a tirare avanti grazie solo alla corrispondenza con le proprie famiglie e aggrappandosi alla speranza di ottenere una licenza per raggiungerle, lasciandosi per un po’ alle spalle la vita nell’esercito e le sofferenze della guerra. L’ottenimento degli stessi permessi poteva però portare a malcontento e attriti, poiché evidentemente alcuni avevano delle corsie preferenziali. In una lettera del settembre 1942 indirizzata al C.M. Gino Incessi, 33° Rgt. Fanteria, 8ᵃ Compagnia, la moglie Beppina, colma di rabbia, si lamenta di come un ufficiale del reparto del marito sia stato mandato in licenza, mentre Gino non era ancora riuscito a rincasare: «Losapevo toccava a loro, ma

200 Dino Simonetti, da un’intervista rilasciata all’autore a Massarosa, 3 dicembre 2013. 201

Ibid.

202

La maggioranza degli ufficiali di stanza nei Balcani riuscirono ad ottenere una licenza annuale, mentre alcuni soldati ne ricevettero una in due anni. La maggior parte però non ne ottenne nessuna nell’arco di tutto il periodo di servizio. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, cit., p. 327.

80 noialtri contadini no. […] Ma lesoneri sono a posto per chi ha quatrini e per li officiali, ma no per chi deve lavorare la tera come io […] (sic)»203.

Dalle parole della moglie di Incessi traspare un’esasperazione che a partire dal gennaio del 1942 era sempre più evidente sia da parte dei militari che dei civili rimasti a casa, i quali spesso, come nel caso di Beppina, dovevano sobbarcarsi del lavoro un tempo eseguito anche e soprattutto dagli uomini. Le lamentele erano tra le più disparate: la lentezza con la quale giungeva la posta, la mancanza o i criteri di assegnazione delle licenze e la rabbia nei confronti di veri o presunti «imboscati»204. Probabilmente però il tutto nasceva dalla semplice stanchezza nei confronti di una guerra che nelle intenzioni di chi la iniziò doveva essere breve e vittoriosa, mentre ormai si stava trascinando da più di due anni e con esiti chiaramente fallimentari.

Esemplare di questi sentimenti è una lettera inviata nel gennaio del 1942 da un certo soldato Gino alla sig. Olanda Andreazzi di Bozzano:

Un giorno bisogna che finisca e prima che celocrediamo la popolazione è stufa i soldati untelopoi in maginare e poi lo vedrai questa primavera deve finire questa camora questa nonè una guera è un commercio di vite umane. […] la guerra si fa a lestero no pelle strade vestiti da gagà e a fare i valorosi in Italia valorosi sui fronti la Patria si serve sul campo di battaglia quei farabutti sono in boscati. […] La colpa è tutta di quei di Careggine che meriterebbero tutte le bombe inglesi disponibili. Gente venduta mille volte (sic)205.

Sono presenti molti elementi in comune con tantissime altre lettere dello stesso periodo: stanchezza del conflitto da parte di civili e militari; consapevolezza della terribile realtà della guerra («questa nonè una guera è un commercio di vite umane») e rabbia contro gli «imboscati». É impossibile invece sapere il perché dell’astio del soldato

203

Lettera della moglie al caporalmaggiore Gino Incessi in Pardini, Sotto l’inchiostro nero, p. 127.

204 Ivi, p. 92. 205

81 nei confronti degli abitanti di Careggine, un piccolo comune situato sul versante orientale delle Alpi Apuane a circa 80 km da Massarosa.

L’insofferenza per il prolungato servizio militare divenne sempre più marcata, anche perché non se ne vedeva la fine. «Qui la Pasqua ci hanno fatto lavorare come gli altri giorni, ci tengono e ci considerano come bestie. Ora viene il caldo non so come faremo a resistere […]. Si sono messi nella testa di farci fare tutta la guerra a noi. Io però sono pieno fino agli occhi»206. Con queste parole il geniere Sauro Lazzerini del 170° Btg. Genio, divisione di fanteria Pavia di stanza di nord Africa, si esprime a Maria Ceragioli, di Bozzano.

In un’altra missiva del militare, questa volta indirizzata al padre Italo, il tono non cambia:

Dovevamo essere rimpatriati dopo 24 mesi ed erano già arrivate le circolari, invece ora hanno detto che è dopo 36 mesi, sono capaci di questo ed altro di farci, ma la questione è che noi non siamo più capaci di resistere… questo è il bello207.

Entrambe le lettere sono del maggio del 1942 e ciò le rende ancora più interessanti in quanto in quel momento le forze dell’Asse in Africa settentrionale erano reduci da una vittoriosa avanzata (gennaio-febbraio 1942) che aveva loro permesso di riconquistare la Cirenaica208. Da lì a poco, tra la fine di maggio e il luglio successivi, queste stesse forze avrebbero ottenuto la serie di successi più brillante di tutto il loro impegno in quel teatro, respingendo l’8 Armata britannica fino alla linea di El-Alamein, in Egitto. Eppure il tono polemico delle missive non è quello che ci si aspetterebbe da parte di un soldato di un esercito vittorioso. Semplicemente molti soldati non ce la facevano più. Come si evince dalla seconda lettera di Lazzerini, il militare era in servizio continuo da almeno due anni e doveva aver ben presente quanto effimeri fossero stati i precedenti successi

206

Lettera del geniere Sauro Lazzerini a Maria Ceragioli in ivi., p. 111.

207

Lettera del geniere Sauro Lazzerini a Italo Lazzerini, Ibid.

208 Corelli Barnett, I generali del deserto, 1940-1943. I signori della guerra d’Africa, RCS, Milano 2006, pp.

82 dell’Asse: quello che voleva era soltanto poter tornare a casa e, dato l’uso del plurale, non doveva essere il solo della propria unità a pensarla in questo modo.

Erano in molti all’interno delle Forze Armate ad essere stanchi del conflitto e a non sentire come propria una guerra che ormai si stava trascinando da due anni. Adesso, nella primavera del 1942, nemmeno i successi riuscivano più a spronare i soldati a credere nella vittoria e a continuare a combattere. Dopotutto difficilmente si poteva dare torto alle truppe. Quelle di stanza all’estero non ebbero mai un numero ragionevole di licenze e avvicendamenti e a chi si trovava in Africa settentrionale, come il geniere Lazzerini, in pratica non ne fu concessa alcuna, se non in casi eccezionali209. L’unica speranza per tornare a casa era quella di terminare il servizio oppure ricevere una ferita sufficientemente seria da obbligare al rimpatrio, quella che i soldati americani avrebbero definito una «ferita da un milione di dollari».

Altri fattori influirono sul morale dei soldati e alcuni sono ravvisabili nelle missive riportate poco sopra. Uno fu il servizio postale stesso, che, differentemente da quanto afferma il marinaio Sacchetti, fu cronicamente inefficiente per tutta la durata del conflitto e non solamente nelle fasi finali. I problemi delle comunicazioni con i parenti a casa, in un’epoca in cui non esistevano telefoni portatili o internet, è quasi una costante all’interno delle lettere scritte dai soldati al fronte, anche se potevano essere non soltanto dovuti alle lentezze del servizio postale:

Mia carissima mamma,

Da alcuni giorni o (sic) ricevuto la vostra cara e tanto desiderata lettera […]

Ora vi voglio dire che se non vi giungono tanto spesso le mie lettere non state in pensiero, perché non posso scrivere, perché prima di tutto non ciò più carta e quella poca che avevo, me la portata via lacqua di questi giorni che qui è venuto un grande acquazzone e come ho detto mi ha portato via tutto (sic). E poi non posso scrivere perché mi trovo in spostamento. Quindi non state in pensiero se non vi

209

83 giungono. Vi saluto con la speranza che mi giungerà una ben presto

una vostra risposta dove mi porterà tante buone notizie210.

A questi inconvenienti si aggiungevano quelli, pressoché generalizzati, dovuti all’insufficienza del rancio – aggravati anche dalla separazione, perfino al fronte, tra mense ufficiali e mense per la truppa –, alla bassa qualità dell’equipaggiamento e alla carenza dei generi di conforto211. Il servizio del C.M. Dino Simonetti, per anni di guarnigione in un’area relativamente tranquilla e lontana dai fronti di guerra come la Sicilia, che venne afflitto da condizioni igieniche inaccettabili e persino dalla malaria, non fu assolutamente un caso nel panorama militare italiano durante la Seconda guerra mondiale; al contrario, fu la regola.

3.

Fascisti

Se questi erano sentimenti diffusi in maniera generalizzata all’interno delle Forze Armate – e soprattutto nell’esercito –, non mancava però chi credeva ancora fermamente nel fascismo e nella guerra. Questo valeva in modo particolare per coloro che servivano nelle unità di Camice Nere, spesso aggregate alle normali divisioni dell’esercito.

La moglie della camicia nera Orlando Rugani, di Quiesa, in forza all’86° Btg. CC.NN., rispondendo ad una precedente lettera del marito afferma con orgoglio di comprendere «l’altezza del tuo spirito Italiano e Fascista e il sentimento di amore per la Patria. […] Il vostro amore e la vostra fede è tutto per il Duce»212. Allo stesso tempo però avanza severe critiche a quei fascisti che secondo lei non stavano servendo a dovere il Paese: «Ci vorrebbe che tutti i fascisti fossero così, ma purtroppo si vede delle cose che ti farebbero ribellare: se c’è un contrabbandiere (un imboscato N.d.A.) chi è? Magari uno

210

ASCM, m. 1243, b. Richiamati 1941-1943.

211 Ivi, p. 327. 212

84 squadrista […]. Hanno marciato su Roma, ma come mai nessuno è partito volontario per il fronte della Russia? […]»213.

Il conflitto politico-ideologico, oltre che militare, contro l’Unione Sovietica, nonostante la grande distanza da casa e l’asprezza dei combattimenti e del territorio, fece presa nell’animo di alcuni soldati: anni di martellamento anticomunista o convinzioni proprie avevano senza dubbio contribuito a convincere i militari della giustezza della loro causa.

Il C.M. Dino Morganti di Bozzano, in forza al 32° Btg. Controcarro (cannoni da 47/32 alle dirette dipendenze del II Corpo d’Armata, N.d.A.), così si esprimeva in una lettera a Biagio Morganti:

Con tutta la volontà calchiamo le polverose strade di Russia, facciamo e faremo sempre il nostro dovere per finirla il prima possibile contro i bolscevichi, e ritornare vittoriosi in mezzo a voi […]. Campagne deserte, terre incolte, case di fango […]. Tuguri assai peggiori delle nostre stalle filate da ragazzi nudi o quasi, sporchi come il maiale. Gente molto indietro come civiltà, e questo era il popolo che voleva ridurre il mondo intero al pari suo? Povero Stalin, ha fatto i conti senza l’oste214.

Era l’agosto del 1942, quando le truppe tedesche e alleate erano in completa avanzata nel sud della Russia. Dino Morganti non figura tra le perdite dell’8ᵃ Armata, ma con tutta probabilità ebbe modo di ricredersi sull’arretratezza del popolo russo e sul fatto che Stalin avesse fatto «i conti senza l’oste», quando le truppe sovietiche distrussero le divisioni dell’ARMIR e annientarono la 6ᵃ Armata tedesca a Stalingrado.

Alla fine però, quando ormai doveva essere chiaro a tutti che una risoluzione vittoriosa, o almeno positiva, del conflitto era impossibile, anche i più irriducibili si arresero all’evidenza dei fatti. In una lettera datata la metà di luglio del 1943, Domenico Venturini scriveva al figlio Adolfo, appartenente al 422° Btg Costiero di stanza in

213 Ibid. 214

85 Sardegna che «[…] se (gli Alleati N.d.A.) conquistano quell’isola (la Sicilia N.d.A.) io non so più cosa sperare. Ciò lo dico con estremo dolore perché mi sento italiano e vedo la nostra Patria precipitare purtroppo nella tragedia. Speriamo che Iddio aiuti l’Italia»215. Nonostante tutto, da quel «se» condizionale ad inizio lettera si nota una punta di speranza nelle parole di Venturini, speranza che gli Alleati venissero respinti dalla Sicilia, ma che, visto il divario tra la potenza anglo-americana e quella italo-tedesca sull’isola, aveva ben poco fondamento, anche se questo non doveva essere del tutto chiaro ad un semplice fante o ad un normale cittadino italiano. Pochi giorni dopo la stesura della missiva, il Duce e il fascismo sarebbero caduti. L’armistizio che di lì a poco sarebbe seguito avrebbe gettato Massarosa e buona parte del Paese nella fase peggiore di tutto il periodo bellico. A quel punto la disperazione del dottor Domenico Venturini sarebbe stata più che giustificata.

4.

Prigionieri

Furono centinaia di migliaia i soldati italiani presi prigionieri dal nemico prima dell’Armistizio dell’8 settembre e tra di essi non mancano quelli provenienti da Massarosa. Non esistendo una lista ufficiale o ufficiosa dei soldati massarosesi catturati dal nemico tra il giugno 1940 e il settembre 1943, si è qui tentato di effettuare una ricerca simile a quella messa in atto per i caduti e i dispersi che verrà citata nel prossimo capitolo. Il risultato finale ha portato alla luce i nomi di sedici militari, per lo più presi prigionieri in Sicilia e Nord-Africa.

É un numero ridotto, troppo ridotto in realtà per apparire verosimile, soprattutto se messo in relazione con il numero dei caduti. In verità, se si considerano quelli catturati sul fronte russo nell’inverno 1942-1943, la cifra è decisamente maggiore, ma si è preferito trattarli nel capitolo successivo in quanto tutti, con l’eccezione di due – che fanno appunto parte di questi sedici nominativi –, non tornarono vivi dalla prigionia. Del resto, come vedremo, è altresì difficile stabilire quanti, tra coloro morti o dispersi sul fronte del Don, siano periti in combattimento o di stenti in prigionia.

215

86 Ci sono comunque le basi per definire questa piccola lista incompleta. La ricerca infatti ha riguardato tutti i massarosesi – militari e civili – che passarono un periodo più o meno lungo in cattività, trattasi di prigionieri di guerra nei campi alleati, come di militari catturati dai tedeschi in seguito all’8 settembre, oppure di civili deportati dalle forze di occupazione germaniche nell’estate del 1944. La fonte principale, e base di partenza, è stato il grosso faldone relativo ai prigionieri a saldo216, ma una volta ampliata la ricerca è diventato evidente che esso non contiene tutti i nominativi, in quanto notizie di ulteriori prigionieri sono state trovate allegate ai fascicoli dei richiamati in servizio. Queste fonti impreviste si sono rivelate utili per stilare una lista dei prigionieri ancora più precisa, ma al contempo hanno contribuito a rendere ancora più incerta una stima finale, la quale quindi non può, né ha la pretesa di essere, definitiva.

Il delicato momento della cattura, con tutte le incertezze che esso riservava, e il successivo periodo di prigionia, erano senza dubbio esperienze traumatiche. In primo luogo, come è ovvio, per il militare stesso, il quale non può sapere di preciso quale sarà la sua sorte. Finire prigioniero degli anglo-americani garantiva in linea di massima ottime possibilità di sopravvivenza e un trattamento ragionevolmente buono nei campi di concentramento. La questione era invece molto diversa per coloro che vennero catturati dalle truppe dell’Armata Rossa o, come vedremo inseguito, internati nei campi di prigionia tedeschi dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra.

La prigionia però era senza dubbio molto traumatica anche per i familiari del militare, i quali spesso vivevano nell’incertezza – spesso durata anni – sulla sorte dei propri cari, complice anche la difficile corrispondenza con molti campi di prigionia. Quest’ultima, nel caso di quelli situati in Unione Sovietica, rimase pressoché nulla per tutto l’arco della Seconda guerra mondiale e il tasso di mortalità dei prigionieri fu estremamente elevato, soprattutto nei primi mesi della cattura. La stragrande maggioranza di costoro faceva parte dell’8ᵃ Armata e quando si arresero si era nel pieno della stagione invernale e la maggior parte dei campi vennero situati in zone dal clima molto aspro come la Siberia: mancavano strutture, ripari, cibo e probabilmente la

216

87 volontà dei carcerieri di mantenere in vita decine di migliaia di internati217. Le ricerche hanno individuato soltanto due soldati di Massarosa che, presi prigionieri in Unione Sovietica, riuscirono a tornare vivi alle proprie case dopo la fine delle ostilità. Si tratta dell’alpino Adelmo Cecchi, in forza al Btg. «Dronero» del 2° Rgt. Alpini, Divisione «Cuneense», catturato il 28 gennaio 1943218 e il fante Marino Cortopassi, in forza all’81° Rgt. della Divisione «Torino», caduto in mano ai russi il 24 dicembre 1942219. Furono molto fortunati. É stato calcolato che degli 85.000 dispersi dell’ARMIR. circa 70.000 furono quelli che vennero fatti prigionieri, dei quali solamente 10.500 ritornarono, in vari scaglioni, dopo la fine del conflitto. Ciò significa che l’85% degli internati morirono nei campi di concentramento o nelle marce forzate per raggiungerli220.

I due soldati rientrarono in Italia, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nel novembre del 1945221. Non è dato però sapere se l’alpino Cecchi si fosse reso conto, al momento della cattura, che il suo calvario nella lunga ritirata sarebbe potuto finire di lì a poco. Il 31 gennaio 1943 infatti, solamente tre giorni dopo essere stato preso prigioniero, la testa della colonna del Corpo d’Armata Alpino giunse a Scebekino, definitivamente fuori dall’accerchiamento operato dalle truppe sovietiche due settimane

Nel documento Massarosa in guerra 1940-1945 (pagine 76-93)