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L’in house: modello generale alternativo alla gara o modello eccezionale?

Con riferimento al tema degli appalti la questione della esatta ricostruzione della natura giuridica dell’in house come modello generale o come istituto di carattere eccezionale si pone con particolare problematicità ed interesse, perché il codice dei contratti non lo disciplina espressamente come modalità di affidamento di prestazione, ordinariamente appunto affidata mediante la stipula di un contratto previa selezione concorsuale dell’affidatario/aggiudicatario.

Diversamente accade, invece, per l’affidamento dei servizi pubblici locali (art. 113 del TUEL). Ci si è chiesti, allora, in dottrina e giurisprudenza, se in assenza di una previsione normativa ad hoc che facoltizzi l’Amministrazione a ricorrere all’in

house, all’affidamento senza gara in forma diretta in favore di una società da

quell’ente controllata, nei termini di cui si è chiarito sopra (il controllo analogo), essa possa ricorrere a tale istituto, nonostante (l’assenza di) una esplicita previsione normativa.

Una parte della dottrina 245 e della giurisprudenza 246 hanno escluso che

l’amministrazione possa utilizzare l’in house in alternativa appunto all’appalto. E da

245 A. ROMANO TASSONE, La società <in house> dall’ <eccezionale eccezionalità> alla <anomala

normalità>, in Dir. proc. amm., 2014, 2, 397 e ss. L’Autore, in particolare, evidenzia che “la

soluzione <in house>, dunque, non può ritenersi in via generale ed a priori pienamente ammissibile in quanto intrisecamente <non lesiva> di concorrenza e libertà di impresa, ma bisogna vedere se e a quali condizioni il diritto positivo consenta all’amministrazione una scelta che colloca sì il servizio <al di fuori del mercato>, ma in forza di una decisione e sulla base di una valutazione di natura eminentemente politica”. Interessante risulta, inoltre, la ricostruzione che l’Autore fa tra <autoconsumo> e <autoproduzione>. Egli ritiene che per aversi autoproduzione, tale per cui non si incida sulla libertà di impresa, occorre che si risolva anche in autoconsumo.

246 C.d.S., sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514, richiamata da R. GAROFOLI – R. CHIEPPA, Manuale di diritto

amministrativo, Roma, 2012, 200; e R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano,

ultimo l’Adunanza Plenaria247, nell’affermare che l’in house rappresenta “un modello

di organizzazione dell’amministrazione, un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara”, ha avallato la tesi secondo cui l’in

house costituisce un modello derogatorio all’esternalizzazione.

Diversi gli argomenti a sostegno.

Si pone in evidenza, in primis, che l’in house è un istituto di carattere eccezionale, derogatorio che consente, e non obbliga, i legislatori nazionali a prevederlo248.

Si richiama il principio di legalità dell’azione amministrativa che osterebbe all’affidamento diretto, in assenza di una espressa copertura legislativa, di poteri e competenze da parte di un’amministrazione pubblica in favore di un soggetto formalmente diverso dalla stessa, ancorché da essa controllato.

Si cita, inoltre, l’art. 125 del codice dei contratti pubblici, laddove prevede una soglia valoriale di 50.000 euro, al di sotto della quale le amministrazioni sono facoltizzate ad effettuare gli affidamenti cc.dd. in economia di beni, servizi e lavori mediante amministrazione diretta, limite che si estende anche all’affidamento in house.

Si valorizza anche l’art. 53 del richiamato codice che prevede, limitatamente al settore dei lavori pubblici, che questi possano essere realizzati soltanto mediante contratti di appalto o contratti di concessione, terminologia questa – contratti di concessione e di appalto – che precluderebbe il ricorso all’in house; posto che è

247 A.P., 3 marzo 2008, n. 1, cit.

248 Con questo argomento il C.d.S., sez. VI, n. 514 del 2007, ha escluso nel settore dei lavori pubblici,

e, in particolare, in quello dei beni culturali, l’operatività dell’in house, attesa la mancata previsione interna che facoltizzi tale ricorso.

ontologicamente e concettualmente istituto antitetico rispetto a quello del contratto249.

Questi argomenti non hanno convinto, tuttavia, un’altra parte della giurisprudenza250

che, viceversa, ammette l’affidamento in house come modulo alternativo all’affidamento di appalti.

249 L’in house presuppone che non ci sia distinguibilià sostanziale tra affidante ed affidatario, che non

ci siano due soggetti differenziabili come invece è necessario che ci sia nel contratto nel quale i due paciscenti devono essere soggettività, non solo formalmente, ma anche sostanzialmente distinte e differenziate.

250 Si ripotano alcuni passaggi che richiamano la tesi dell’ammissibilità dell’in house quale istituto di

principio generale, tratti da R. GIOVAGNOLI, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti

interventi legislativi, in www. giustizia-amministartiva.it: Nella risoluzione 14 gennaio 2004 del

Parlamento europeo concernente il “Libro verde sui servizi di interesse generale [COM (2003) 270- 2003/2152(INI)]”, al punto 35, si formula l’auspicio che, "in ossequio al principio di sussidiarietà,

venga riconosciuto il diritto degli enti locali e regionali di “autoprodurre” in modo autonomo servizi di interesse generale a condizione che l’operatore addetto alla gestione diretta non eserciti una concorrenza al di fuori del territorio interessato". Il richiamo alla forme in house providing, ed al

limite funzionale che può dirsi proprio di esse, appare evidente e confermato dalle stesse precisazioni che fanno seguito al brano ora riportato: [il Parlamento europeo] "chiede ... che le autorità locali

vengano autorizzate ad affidare i servizi a entità esterne senza procedure d’appalto qualora la loro supervisione sia analoga a quella esercitata da esse sui propri servizi".

Nella più recente risoluzione 26 ottobre 2006 del Parlamento europeo sui “Partenariati pubblico-

privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni [2006/2043 (INI)]”, dopo

aver sottolineato che deve essere attentamente considerato e dunque distinto il caso in cui le "società

di economia mista eseguono prestazioni, per conto e nel contesto di compiti della autorità pubblica organizzatrice, che sono principalmente finanziate o garantite da quest’ultima" (p.to 41.), si

enunciano due importanti asserti. Si "respinge l’applicazione della legislazione in materia di appalti

nei casi in cui gli enti locali intendono svolgere compiti nel loro territorio assieme ad altri enti locali nell’ambito di una riorganizzazione amministrativa, senza offrire a terzi operanti sul mercato la fornitura dei servizi in questione" (p.to 46.) e si "ritiene tuttavia necessaria l’applicazione della normativa sugli appalti quando gli enti locali offrono prestazioni sul mercato alla stregua di un’impresa privata nel contesto della cooperazione tra enti locali o fanno eseguire compiti pubblici da imprese private o da altri enti locali" (p.to 48.).

Con specifico riferimento alle autonomie locali, il principio di autonomia istituzionale viene espressamente sancito dalla Carta europea dell’autonomia locale del 15 ottobre 1985, ratificata dalla maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa (STCE, n. 122), che all’art. 6, n. 1, stabilisce che le collettività locali debbono «poter definire esse stesse le strutture amministrative interne di cui intendono dotarsi, per adeguarle alle loro esigenze specifiche in modo tale da consentire un’amministrazione efficace». Inoltre, l’importanza dell’autonomia locale viene sottolineata attraverso la sua espressa menzione nell’art. I-5, n. 1, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004.

Quanto segnalato a livello comunitario trova riscontro in una non recente, ma assai significativa decisione del Consiglio di Stato. Si tratta di Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 477, ove – delineando esattamente i caratteri dei vari istituti giuridici nella materia che, oggi, è considerata dalle norme che qui si commentano – si afferma: "L'organizzazione autonoma delle pubbliche

amministrazioni rappresenta un modello distinto ed alternativo rispetto all'accesso al mercato [...] La tutela comunitaria del mercato non interferisce sino a disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di autonomia organizzativa nell’approntare la produzione e l’offerta dei servizi e delle

Si richiamano le sentenze esaminate della Corte di giustizia dalle quali si ricava che l’in house è espressione di un principio generale – di autorganizzazione dell’amministrazione – al pari di quello dell’esternalizzazione con gara, secondo cui l’Amministrazione ha il potere di reperire al suo interno le prestazioni di cui ha bisogno, con la precisazione che queste ultime può produrle con il suo ufficio oppure con un soggetto formalmente distinto dalla stessa, ma tuttavia

prestazioni di rispettiva competenza. Pertanto non si spinge sino a giustificare un sindacato sulle scelte legislative o amministrative che consentano ai pubblici poteri, nel produrre ed offrire servizi o beni, di optare per schemi di coordinamento e formule organizzatorie, teoricamente alternative rispetto all’acquisizione delle prestazioni destinate alla collettività per il tramite del mercato.[…]. Se la costituzione di un soggetto dedicato è idonea a garantire economie di scala, riduzione dei costi o razionalizzazione del bacino di utenza, l’opzione dell’ente locale non potrebbe esporsi ad alcuna censura solo perché escludente il ricorso al confronto competitivo. […]. Il ricorso alla produzione privata, disciplinato da regole di salvaguardia della concorrenza e l’esercizio del potere di organizzazione, sottratto ai vincoli concorsuali o concorrenziali validi per il ricorso al mercato, costituiscono due schemi distinti che vanno preservati da ogni equivoca commistione".

Non si può trascurare, poi, che l’ampiezza della capacità di diritto privato delle pubbliche amministrazioni sia ora affermata, in termini generali, dall’articolo 1, comma 1-bis, della legge n. 241/1990, nel testo introdotto dalla legge n. 15/2005.

Particolarmente significative, in quest’ottica di valorizzazione dell’autonomia organizzativa delle p.a., non scalfita dal diritto comunitario degli appalti, sono, le conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott nella causa Parking Brixen: “Se si applicasse la disciplina in materia di aggiudicazione di pubblici

appalti anche a negozi giuridici tra amministrazioni aggiudicatrici e loro società controllate al 100%, le forme giuridiche di diritto privato della società per azioni o della società a responsabilità limitata non potrebbero essere più utilizzate ai fini di una mera riorganizzazione interna. Al relativo ente resterebbe soltanto l’alternativa tra la privatizzazione dei suoi servizi e l’esecuzione diretta di essi per mezzo dei propri servizi amministrativi oppure di aziende autonome, integrate nella gerarchia amministrativa e prive di significativa autonomia. In taluni casi le società controllate esistenti potrebbero addirittura essere ritrasformate in aziende autonome.

71. Tuttavia, un intervento così incisivo sulla supremazia organizzativa degli Stati membri e segnatamente sull’autogoverno di tanti Comuni non sarebbe affatto necessario neppure alla luce della funzione di apertura dei mercati svolta dalla disciplina sugli appalti. Difatti, lo scopo della normativa sugli appalti è di garantire una scelta trasparente ed imparziale dei contraenti ogniqualvolta la pubblica amministrazione decida di svolgere i propri compiti con la collaborazione di terzi. Non rientra invece nella ratio della disciplina sugli appalti la realizzazione di una privatizzazione «di straforo» anche di quei servizi pubblici che la pubblica amministrazione voglia continuare a fornire con mezzi propri ; a questo scopo sarebbe necessario che il legislatore compisse passi più concreti verso la liberalizzazione.”

In definitiva, proprio valorizzando la capacità di autoorganizzazione di ciascun ente pubblico, potrebbe allora sostenersi che l’in house, in quanto espressione del generale principio di auto- organizzazione o di autonomia istituzionale, possa operare anche nel settore degli appalti, pur in assenza di una copertura legislativa.

Del resto, come si è sopra precisato, l’in house non è un contratto cui eccezionalmente non si applicano le regole dell’evidenza pubblica, ma è un “non contratto”, proprio perché manca una relazione intersoggettiva necessaria per dar vita ad un rapporto contrattuale.

sostanzialmente integrante una proiezione organizzativa, un tutt’uno, un suo prolungamento.

Si rileva, inoltre, che l’argomento secondo cui il principio di legalità di cui all’art. 97 Cost. osta al trasferimento, in assenza di una copertura legislativa, di potestà o competenze, non viene contraddetto con l’affidamento in house, in quanto, come nell'ipotesi di appalto, l’amministrazione non affida potestà pubblicistiche o competenze amministrative, ma soltanto l’esecuzione di prestazioni per lo più di tipo materiale.

Ancora, quanto al richiamato art. 125 del codice che individua un limite valoriale all’affidamento in economia, limite estensibile anche all’in house, si afferma che il legislatore lo prevede per l’ipotesi in cui l’amministrazione intenda realizzare in proprio con i suoi uffici interni la prestazione di cui ha bisogno. In pratica il legislatore prende atto delle limitate capacità produttive ed imprenditoriali della P.A. quando opera con propri mezzi o con proprio personale. Tale logica non è riferibile all’istituto in esame, posto che l’amministrazione la prestazione la chiede e la ottiene da un soggetto che, ancorché non distinguibile sostanzialmente dalla stessa, tuttavia è dotato di un apparato organizzativo adeguato all’effettuazione di servizi, alla produzione di beni, al di là del limite valoriale che il legislatore ha indicato in quella disposizione.

Più problematico risulta il superamento dell’argomento che poggia sull’art. 53, laddove prevede che i lavori pubblici possono essere realizzati esclusivamente mediante contratti di appalto o di concessione; quindi il riferimento al «contratto» osterebbe all’affidamento in house, posto che, laddove c’è in house non c’è «contratto».

Tuttavia, si è parimenti obiettato che l’art. 53 limita questo obbligo delle amministrazioni pubbliche di ricorrere al contratto soltanto al settore dei lavori pubblici, non anche ai settori dei beni, dei servizi, delle forniture, per i quali o per il perseguimento dei quali, potrebbe rivivere la possibilità dell’amministrazione di ricorrere, in alternativa all’appalto, all’affidamento in house, purché vi siano i presupposti illustrati.

Il problema oggi può dirsi superato con la tipizzazione dell’istituto in esame da parte del legislatore europeo.