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LE INDICAZIONI IN ETICHETTA E I SEGNI DEGLI ALI MENTI (DOPO IL REG 1169/2011)

4. I segni degli alimenti e il caso dell’olio

Nel mercato della produzione alimentare ricorrono le ipotesi dei segni DOP, IGP, STG e del biologico, che sono segni comunitari oggetto di specifici regola- menti che ne hanno determinato i rispettivi «disciplinari». Sono, questi, i «segni» degli alimenti volontariamente comunicabili. Delle DOP e delle IGP vi dirò poco. Vi dirò di più degli altri «segni» volontari che attengono al territorio e che, per

la reputazione da questo acquisita, hanno una notevole capacità di conquistare i consumatori.

Infatti, di frequente tra i «segni» volontari ricorrono quelli che sono capa- ci di “narrare” la storia del prodotto, il suo “valore” dovuto a fattori naturali e a fattori umani, il suo “rapporto” con un territorio e con una comunità, l’immagine di una terra e della sua gente. Essi racchiudono in sé anche la capacità di espri- mere una “cultura”, la cui memoria, se non fosse raccontata attraverso il segno, si perderebbe con lo scorrere del tempo, mentre la sua estrinsecazione e “nar- razione” attraverso il segno consentono di acquisire e mantenere una clientela “attratta” dalla reputazione del luogo e dalla fama della comunità produttrice che sono espressi nel nome. I segni di questa specie consistono nel nome del luogo geografico di produzione e sono chiamati «indicazioni geografiche» o «denomi- nazioni di origine».

Secondo la Corte di giustizia sono possibili tre situazioni: 1) il nome geo- grafico che ogni imprenditore della zona può indicare nell’etichetta come generi- co predicato del rispettivo prodotto (ad esempio, «vino toscano»; «arance sicilia- ne») con l’obbligo della veridicità dell’indicazione; 2) la designazione geografica tutelata dal diritto comunitario con il termine di «indicazione geografica protetta» o IGP; e 3) la designazione geografica tutelata dal diritto comunitario con il termi- ne «denominazione di origine protetta» o DOP.

Come ho detto, non vi parlerò delle DOP o delle IGP. Invece, ritengo neces- sario dirvi delle indicazioni geografiche semplici perché la questione di queste indicazioni implica la soluzione del problema dell’origine del prodotto agricolo.

E’ possibile che il produttore qualifichi i propri prodotti servendosi del nome geografico della località in cui opera, senza che il richiamo dell’area geografica sia in stretta relazione alla qualità del prodotto, come avviene nei casi di DOP e IGP. In tale fattispecie, l’indicazione geografica non può assurgere a marchio individuale per il divieto imposto dal diritto comunitario. Tale indicazione geogra- fica può semplicemente significare che il prodotto è stato ottenuto nel territorio conosciuto con quel nome, dato che non vi è nesso fra il luogo e le caratteristiche organolettiche del prodotto, cioè le caratteristiche del prodotto non dipendono in modo stretto dal suolo, dal clima, dall’aria di quel luogo. Qui la facoltà di utilizzare il toponimo (nome proprio di un luogo geografico) viene attribuita agli operatori economici della zona per la reputazione che quel luogo geografico ha acquisito nel mercato alimentare. Una tale indicazione ha l’unica condizione della veridicità quella che impone di non usare nella presentazione di un prodotto un nome di luogo diverso da quello in cui è stato effettivamente realizzato.

Il problema dell’origine è un problema complesso perché sul suo significato si scontrano i contrapposti interessi degli industriali alimentari e quelli degli im- prenditori agricoli. I primi assegnano alla locuzione «origine» il significato della localizzazione della “fabbrica”. I secondi intendono l’ubicazione delle piante arbo- ree o arbustive da cui è “tratto” il prodotto finale trasformato.

Non esiste una norma comunitaria chiara sul significato del termine «origi- ne». L’art. 3, lett. a) della direttiva 2006/114/CE sulla pubblicità ingannevole richie- de che si consideri, tra le varie caratteristiche del prodotto, la «origine geografica o commerciale dei beni», riferendo il termine ora al territorio, ora all’impresa, cioè all’azienda o fabbrica.

Anche in Italia, il comma 1-quater dell’art. 43 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. legge «cresci Italia») ha inserito all’art. 4, comma 49-bis, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, la disposizione secondo cui «per i prodotti alimentari per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale». Ma ci resta il dubbio se la “e” sia disgiuntiva, cioè una “o”, ovvero congiuntiva e quindi che il luogo della coltivazione (nel caso nostro, l’oliveto) debba essere assieme al luogo della trasformazione sostanziale (nel caso nostro, il frantoio).

Orbene, sotto questo profilo devo dirvi di due sentenze della Corte di giusti- zia, l’una nel caso Warsteiner - una birra prodotta non più nella città di Warsteiner, ma in quella di Paderborn - e l’altra nel caso Exportur - un torrone prodotto in Alicante, ma anche nelle zone francesi al di là dei Pirenei - che riguardano sì il luogo dell’impresa (l’azienda trasformatrice), ma da cui - e soprattutto da quella Exportur - si ricava un dato che può essere utilizzato a favore della tesi per la quale l’origine dei prodotti agricoli è il luogo di coltivazione delle piante che danno luogo ai prodotti alimentari2.

Nella sentenza Exportur si dà particolare rilievo al nesso che esiste tra il segno e la comunità originaria dei produttori, nel senso di un rapporto riflesso di rinomanza e reputazione tra la zona di produzione e il nome del prodotto. Così si rafforza l’idea del riconoscimento di un territorio come canone di identità e di garanzia di un prodotto alimentare. Il toponimo non è (più) un semplice segno ge- ografico di un prodotto, ma identifica una comunità di produttori localmente sta-

2 Corte di giustizia dell’Unione europea: sentenza del 7 novembre 2000, causa C-312/98, Schutzver- band gegen Unwesen in der Wirtschaft eV contro Warsteiner Brauerei Haus Cramer GmbH & Co. KG, in Raccolta della giurisprudenza, p. I-9187, e sentenza del 10 novembre 1992, causa C-3/91, Exportur, in Raccolta della giurisprudenza, 1992, p. I-5553.

bilita. Il toponimo valorizza questa appartenenza riservando i benefici che da essa derivano alla collettività unitariamente e localmente considerata, elevando tale comunità a titolare del segno.

Per l’olio vi è stata una lunga diatriba tra l’Italia e la Comunità europea, iniziata nel 1998 nel conflitto tra la nostra legge 313/1998 – secondo cui il luogo di origine è l’oliveto ed esso andava obbligatoriamente segnalato in etichetta – e il reg. (CEE) n. 2815/1998, secondo cui, invece, il luogo dell’olio è l’oliveto o il franto- io, da indicare solo facoltativamente. La diatriba sostanzialmente finisce nel 2012 con il reg. (UE) n. 29/2012 della Commissione che prevede l’obbligo di indicazione dell’origine individuata a) nella regione, se l’olio è DOP o IGP; o b) se gli olii ver- gini non sono né DOP o IGP, nello Stato nel quale vi sono le zone geografiche in cui le olive sono state raccolte e in cui è situato il frantoio. Contemporaneamente si aggiunge la legge italiana 9/2013 che, all’art. 1, stabilisce che deve risultare in etichetta l’indicazione dell’origine degli oli di oliva vergini (come prevista dal D.M. 10 novembre 2009) e che, all’art. 4, statuisce che è pratica ingannevole evocare, nell’etichetta, un’area geografica non corrispondente all’effettiva origine territo- riale delle olive.