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sull’ammissibilità di un segno che si richiami all’Italia

LE INDICAZIONI IN ETICHETTA E I SEGNI DEGLI ALI MENTI (DOPO IL REG 1169/2011)

5. sull’ammissibilità di un segno che si richiami all’Italia

Tali considerazioni sono la premessa per affrontare il problema più gene- rale dell’ammissibilità di un segno che si richiami all’Italia.

Vi ricordo che l’art. 9, lett. i) del reg. (UE) n. 1169/2011 prevede, tra le indicazioni obbligatorie, anche il paese di origine o il luogo di provenienza. E l’art. 26 precisa che l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza è obbligatoria quando l’omissione possa indurre in errore il consumatore. Quindi l’indicazione del luogo di origine è ammessa solo in presenza di un pericolo di confusione fra il prodotto originale e quello proveniente aliunde.

Ora devo dirvi che l’art. 39, par. 2, del reg. (UE) n. 1169/2011 autorizza gli Stati membri ad adottare indicazioni obbligatorie anche con riferimento al paese d’origine o al luogo di provenienza degli alimenti «ove esista un nesso comprova- to tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», e quando vi sia la prova che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura dell’informazione dell’origine o della provenienza geografica.

Come già ho fatto presente, il problema della comunicazione simbolica nel mercato e della sua disciplina giuridica si prospetta tutte le volte che il nome geo-

grafico venga utilizzato come segno distintivo del prodotto per captare la benevo- lenza del consumatore.

Vi devo ricordare che stiamo ora riferendo di ipotesi “fuori” dei casi del- le DOP e delle IGP; sicché potremmo concludere che siamo nel campo della ipotesi delle indicazioni geografiche semplici che, secondo la Corte di giusti- zia, possono essere relative alla salvaguardia delle lealtà commerciali e della proprietà industriale e che garantiscono una maggiore informazione ai consu- matori.

Ma ribadisco che tanto le prime (le DOP e le IGP) quanto le seconde (le indicazioni geografiche semplici) sono manifestazioni volontarie di indicazio- ni nell’etichetta; però, mentre le prime sono accreditate dalla UE, le seconde stanno cercando un accreditamento da parte degli Stati o degli Enti pubblici territoriali.

Infatti, queste ultime corrispondono ai casi: a) dei sistemi di etichettatu- ra volontaria introdotti dallo Stato come per il pesce (art. 59, commi 14-19, del D.L. 83/2012); b) dei marchi c.d. di qualità, basata sull’origine nazionale o re- gionale o anche comunale - è il caso delle «denominazioni comunali di origine» (De.c.o.) - del prodotto, marchi collettivi di qualità con indicazione geografica che, in via di principio, dovrebbero essere ammessi, proprio perché, a differen- za del marchio geografico individuale che è vietato, sono marchi collettivi.

L’Unione europea, tuttavia, contesta i tentativi di marchi collettivi geo- grafici quando sono pubblici. Invero, benché essi non siano assimilabili alle campagne promozionali «buy Irish» o «buy English» già condannate dalla Cor- te di giustizia, la direttiva 70/50/CEE del 22 dicembre 1969 proibisce a qualsiasi “autorità pubblica” di porre in essere disposizioni legislative, regolamentari, amministrative, atti e incitamenti diretti ad accordare ai prodotti nazionali una preferenza che finisca con il costituire una misura avente effetto equivalente alle restrizioni quantitative vietate dall’art. 34 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Fra tali misure, appunto, rientrano, quelle che «ri- servano ai soli prodotti nazionali denominazioni che non costituiscono né deno- minazioni di origine né indicazioni di provenienza» (art. 2.3, lettera s).

Così la Commissione europea ha contestato i marchi di varie regioni francesi, i segni di qualità delle regioni italiane del Veneto e della Sicilia, il marchio belga «label de qualité wallon»; il marchio tedesco «Markenqualität aus Deutscher Landen» mentre ha “accettato” i marchi concessi dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Puglia perché il marchio è formulato come «Pro- dotto di agricoltura integrata» ed è aperto a tutti i produttori ovunque si trovino.

Dunque, il problema più spinoso è quello di potere qualificare “italiano” il prodotto agricolo realizzato nel nostro paese.

Vi ricordo, a questo punto, che l’art. 39 del reg. (UE) n. 1169/2011 dà agli Sta- ti membri la facoltà di disporre l’inclusione, nell’etichetta, di indicazioni obbliga- torie che sono dette «complementari» perché si aggiungono a quelle obbligatorie secondo il diritto comunitario.

L’art. 39 del reg. (UE) n. 1169/2011 è rubricato «Disposizioni nazionali sulle indicazioni obbligatorie complementari». Esso stabilisce che, per decisione degli Stati membri, possono divenire obbligatorie altre indicazioni, ovverosia indicazioni diverse da quelle che l’Unione europea ha già incluso nella categoria delle indica- zioni obbligatorie da riportare sull’etichetta.

Nel rispetto della specifica procedura dello stand still3 trattandosi di rego-

le tecniche di cui all’art. 45 del reg. (UE) n. 1169/2011, ogni Stato membro può stabilire che nell’etichetta siano obbligatoriamente inserite indicazioni dirette alla protezione della salute pubblica, alla protezione dei consumatori, alla prevenzione delle frodi e alla protezione di diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza.

E’ evidente che il nesso che deve intercorrere tra le qualità dell’alimento e la sua origine non può essere lo stesso nesso che deve esistere perché l’alimento assurga alla categoria delle DOP o delle IGP. L’art. 39 del regolamento citato dice «talune qualità» e non è semplice darne una specificazione o una esemplificazio- ne. E’ più facile ragionare sull’altra condizione che è richiesta, cioè che sia provato il «fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni». Si tratta di quella reputazione che lega – come nel caso del torrone di Alicante – la comunità dei produttori locali con il nome lo- cale del prodotto, reputazione che si riverbera sulle aspettative dei consumatori a che quell’alimento possieda le qualità che la comunità dei produttori locali gli ha conferito inventando e proteggendo uno specifico kow how.

E vi è ben noto che la nostra Autorità garante della concorrenza e del mer- cato (AGCM) ha riconosciuto che «l’olio di oliva costituisce una categoria merce- ologica sui generis, per la quale l’origine territoriale delle materie prime riveste,

3 La direttiva 1998/34/CE vieta agli Stati membri di emanare regole tecniche nei settori oggetto di studio da parte della Commissione e obbliga gli stessi a comunicare preventivamente alla Commis- sione i progetti di regole tecniche cogenti, come nel caso delle norme sulla produzione e sull’even- tuale etichettatura degli alimenti, quali possibili impedimenti alla libera circolazione delle merci; la direttiva impone un periodo di attesa (stand-still) di 6/12 mesi dalla notifica, pena l’inopponibilità ai terzi della regola tecnica nazionale.

agli occhi del consumatore, una particolare significatività data la rinomanza che alcune zone del territorio italiano possono vantare nella produzione di olio di oliva» (provvedimento AGCM n. 4970 «Bertolli-Lucca» del 30 aprile 1997).