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Necessary and Optional Activities

3.2 Progettare la città felice

3.2.3 Il contesto italiano

Lo spazio pubblico italiano viene considerato da numerosi teorici e architetti come il modello ideale di integrazione tra la vita sociale e il progetto urbano. Questa accezione di riferisce più che altro alla naturale attitudine, tipica delle popolazioni mediterranee, a vivere lo spazio urbano come prolungamento di quello domestico, una condizione che ha da sempre affascinato e animato il dibattito culturale internazionale. In tal senso, prendendo ad esempio in considerazione i riferimenti italiani usati da Gehl agli inizi dei suoi studi, è Piazza del Campo a Siena ad essere considerato lo spazio pubblico per eccellenza, capace di integrare la morfologia del terreno, la totale accessibilità, la semplicità dei materiali e una vibrante vita pubblica animata dalle attività commerciali che vi si affacciano. La città a cui si riferisce Gehl esiste ancora oggi nella sua tangibilità fisica e nella naturale propensione a vivere lo spazio urbano. Al contrario, il concetto italiano di spazio pubblico, nella sua natura teorica, progettuale e giuridica, si

è radicalmente allontanato da questo ideale, registrando un ribaltamento solo in epoca contemporanea. Le due tendenze trainanti per la produzione di spazio pubblico sono da un lato quelle strettamente formali, legate agli statuti semantici del progetto e quindi alla sua caratterizzazione estetica e stilistica, talvolta alla riconoscibilità dell’intenzione e del gesto dell’architetto, dall’altro la sua funzione, non solo come luogo di incontro ma soprattutto come standard, come dotazione di quartiere. Con un eccesso di spirito critico, si potrebbe dire che la scuola architettonica italiana abbia acquisito in ritardo, rispetto ad altre realtà europee, una sensibilità olistica e contemporanea al progetto urbano, soprattutto per quanto riguarda i temi sociali, per lungo tempo approfonditi e declinati su altri piani, come quello dell’abitazione economica e popolare. Questa concezione di spazio pubblico, che si trascina a ridosso dei giorni nostri, è chiaramente espressa in uno scritto di Franco Purini pubblicato nel 1998 in cui si legge:

«Progettare uno spazio pubblico significa sottendere al piano della funzionalità esplicita altri due livelli, quello estetico del vuoto come cavità plastica, e quello eterotopico, determinato dalle imprevedibili destinazioni che un ambiente urbano pensato per una serie di funzioni precise sceglie di opporre a quelle previste, in un rovesciamento spesso improvviso di rituali e di finalità.»

Se da un lato appare evidente come la sensibilità dell’architetto riconosca perfettamente l’esistenza di un elemento di imprevedibilità nell’uso dello spazio pubblico, non è chiaro come questo aspetto comportamentale o sociologico influisca nel processo progettuale o che peso abbia rispetto alle controparti estetiche e funzionali. Ancora, questa tripartizione non determina una vera e propria riflessione etica sul ruolo politico—nel senso più ampio del termine— dello spazio pubblico: piuttosto il carattere di eterotopia rilevato da Purini sembra costituire più una riflessione fenomenologica che non una interpretazione del mutare del vivere contemporaneo, riportando le attività della vita pubblica sul piano funzionale. Sul fronte della produzione urbanistica, l’attenzione posta allo spazio pubblico si riferisce principalmente alla ricerca quantitativa di aree destinate ad attrezzature e servizi per controbilanciare l’espansione edilizia residenziale (Giorgieri, 2005). Questo approccio risponde alla vigente normativa

in merito agli standard urbanistici con D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 che riporta all’Art.3:

«Per gli insediamenti residenziali, i rapporti massimi di cui all’art. 17 -penultimo comma- della legge n. 765 sono fissati in misura tale da assicurare per ogni abitante -insediato o da insediare- la dotazione minima, inderogabile, di mq. 18 per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie.»

Dei 18 mq previsti, la metà viene assegnata a «spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e lo sport, effettivamente utilizzabili per tali impianti con esclusione di fasce verdi lungo le strade.» L’aspetto quantitativo è ulteriormente aberrato dalla mancanza di una definizione chiara e univoca di cosa si intenta per spazio pubblico, in un contesto storico e culturale in cui questo concetto comincia a prendere chiaramente forma. Questo porta a rilevare tre conseguenze: la prima è che lo spazio pubblico venga in questo modo inteso come sommatoria di aree funzionali e che per tanto il dato formale sia l’unico a poterlo qualificare dal punto di vista estetico e progettuale; il secondo è che l’esclusione della viabilità dalle previsioni normative sullo spazio pubblico renda molto difficile l’esecuzione di forme e processi progettuali che integrino il concetto di prossimità e accessibilità alle relative dotazioni; la terza, anche in virtù di questa ultima considerazione, è che si dia per scontato che la presenza di uno spazio di pubblica accessibilità sia di per sé una condizione sufficiente alla socialità. Questo a sua volta si manifesta in maniera tangibile nella tendenza a posizione tali servizi urbani in maniera isolata all’interno di aree vuote della città, senza un preciso rapporto con il tessuto urbano dell’edificato e dell’infrastruttura viaria, una soluzione non più accettabile (Giorgieri, 2005).

Nell’interpretazione di Pietro Giorgieri, la città italiana offre in molti casi un’infrastruttura urbana storica a cui potersi appoggiare nella creazione di nuovi spazi pubblici contemporanei, non necessariamente previsti dagli strumenti urbanistici, come le piazze, gli assi viari pedonali, le gallerie, etc., consentendo inoltre di riequilibrare le proporzioni tra pieni e vuoti dilatati nelle espansioni urbane dal secondo dopo guerra (2005). I vuoti urbani hanno assunto dimensioni considerevoli e all’interno di questi, le attrezzature legate allo spazio pubblico

risultano localizzate in modo dispersivo e discontinuo, apparendo inoltre disarticolate dal punto di vista della loro funzione e fruizione (Ibid.). In tal senso, il riferimento allo spazio pubblico nella città storica italiana non vuole intendersi come un nostalgico tentativo di recuperare forme urbane e stili di vita che non appartengono più a questo tempo, quanto invece alla riscoperta della grande importanza che lo spazio urbano come la rappresentazione materiale del riconoscimento del cittadino all’interno della sua struttura di appartenenza urbana e collettiva (Mazzette, 2013). Potremmo quindi sostenere che lo spazio urbano, per essere considerato spazio pubblico, necessita di essere caratterizzato da un punto di vista estetico, funzionale ed eterotopico, come già suggeriva Purini (1998), istanze alle quali oggi si aggiungono requisiti di ordine ambientale e sociale.

In questa direzione si colloca nel 2013 l’elaborazione della Carta dello Spazio Pubblico, redatta e adottata a Roma nell’ambito della seconda Biennale dello Spazio Pubblico con l’obiettivo di fornire delle linee guida per la sperimentazione progettuale sullo spazio pubblico, votata ai principi di sostenibilità olistica e democrazia urbana. Come riportato nel Preambolo dello stesso documento, i punti fermi della Carta sono:

a) che è utile dare una definizione chiara e comprensibile di spazio pubblico; b) che lo spazio pubblico va considerato un bene comune;

c) che la Carta deve contenere principi ragionevoli e condivisi in merito all’ideazione, la progettazione, la realizzazione, il mantenimento, la fruizione e la trasformabilità dello spazio pubblico;

d) che essa deve essere un documento breve e, proprio come lo spazio pubblico, accessibile a tutti.

Nella sua definizione, lo spazio pubblico viene considerato ogni luogo di proprietà, di uso o di accessibilità pubblica, gratuita o senza scopi di lucro, ciascuno con le sue peculiari caratteristiche spaziali, storiche, ambientali ed economiche. Gli si riconosce un ruolo chiave nel benessere individuale e sociale, in continuità con quanto espresso dalla Convenzione Europea del Paesaggio, e il suo dominio viene esteso a strade, marciapiedi e spazi coperti, con particolare riferimento all’accessibilità fisica, senza il quale requisito si parlerà di “spazio Fig. 55 · Piazza Matteotti a Catanzaro, 2018. (Progetto di Franco Zagari, 1989-91)

pubblico potenziale” inteso come risorsa da consolidare per il raggiungimento della qualità urbana. Nelle parti successive vengono delineate le tipologie di spazio pubblico, che sono si distinte per tipologia di fruizione, ma sempre sottolineandone il carattere infrastrutturale di luogo dei flussi di beni, servizi e persone, e il suo ruolo primario per la vitalità urbana in ogni sua forma. La creazione dello spazio pubblico deve invece “rispettare ogni forma di diversità” e favorire la partecipazione dei cittadini al pari degli altri attori coinvolti, di modo che il principio di continuità e integrazione possa essere ugualmente letto nel progetto e nel processo. Un aspetto particolarmente rilevante della Carta è il preciso riferimento all’esecuzione, declinato sia dal punto di vista sociale e percettivo, per evitare la presenza di elementi di disturbo nello spazio, quanto anche sul piano della sostenibilità ambientale ed economica: i materiali e le tecnologie usate dovranno essere semplici, locali, di facile manutenzione, attenti laddove possibile, alla regolazione ambientale (drenaggio, microclima…). Infine, vengono individuati i principali ostacoli alla creazione, gestione e fruizione di buoni spazi pubblici, elencando in maniera sintetica i temi del dibattito contemporaneo; si evidenzia come l’aspetto della gestione e della programmazione siano passaggi obbligati per il godimento di tali spazi. Tali premesse sono utili a delineare i presupposti del dibattito culturale contemporaneo italiano sullo spazio pubblico, che viene relativamente di recente declinato sul piano della qualità della vita e della felicità urbana. Il tema, ha interessato in particolar modo la ricerca, accademica e non, registrando inoltre numerose iniziative di dibattito e divulgazione, promossi in particolare dall’Istituto Nazionale di Urbanistica60, raccogliendo molte delle esperienze di ricerca scientifica in questo ambito.

La sfida dell’interpretazione socio-spaziale dello spazio pubblico è stata accolta quindi anche nel panorama italiano producendo esiti di varia natura. Per quanto si riconosca l’esistenza di simili strumenti interpretativi già in uso in altri contesti europei e internazionali, un approccio particolarmente interessante è quello formulato da Marichela Sepe, che attraverso il metodo PlaceMaker, configura come un approccio analitico mirato alla produzione di mappe interpretative delle abitudini urbane nello spazio pubblico (Sepe, 2009). Di fatto il metodo estende l’attenzione dal risultato finale, materializzato nel progetto, all’intero processo 60. INU è promotore della Biennale dello Spazio Pubblico a partire dal 2011 ed è dal 2014 principale partner di UN-Habitat nell’elaborazione e monitoraggio del Global Public Space Toolkit.

decisionale in cui deve essere contemplata la corretta e ordinata lettura delle dinamiche socio-spaziali. Attraverso il PlaceMaker queste vengono interpretate nella sovrapposizione sulla mappa dei diversi attributi tangibili e intangibili che configurano lo spazio in analisi.

Un’altra indagine già menzionata dalla ricerca nei paragrafi precedenti, è quella relativa alla survey nazionale i cui risultati offrono un quadro abbastanza chiaro della risposta degli italiani alle affermazioni proposte dall’intervista. Gli esiti hanno dimostrato che la popolazione intervistata ha “una crescente necessità di spazi pubblici, considerati necessari per la coesistenza urbana” e che la considerazione positiva dello spazio urbano si riferisce in particolare al tessuto storico; viceversa si rileva una percezione negativa. Nell’interpretazione di Mazzette, probabilmente questo è dovuto all’insufficienza o scarsa qualità progettuale degli spazi pubblici delle fasce più esterne della città (2013). Inoltre si evidenzia come nell’assenza di un intervento pubblico che indirizzi la progettazione di questi spazi, nell’incontro spontaneo delle parti più attive e mobili della popolazione si riflettano le forme di (auto) segregazione sociale, dimostrando una totale carenza di mescolanza sociale (Ibid.). Ancora, si rileva che siano i più giovani compresi tra i 18-25 anni a vivere positivamente e liberamente lo spazio pubblico, anche quello del quartiere; viceversa le fasce di popolazione più adulta trovano maggiore difficoltà, inibiti nell’uso di spazi non conformi ai propri criteri di sicurezza, accessibilità o comodità, sebbene venga registrato un discreto grado di tolleranza nei confronti dei senza tetto (Ibid.). Infine, per quanto riguarda la risposta sulla qualità dello spazio pubblico, i risultati si dividono quasi nettamente tra Nord e Sud, rilevando un giudizio prevalentemente negativo nelle grandi città meridionali e mettendo in crisi tutte le convinzioni circa la ‘socialità estroversa’ dello spazio urbano mediterraneo (Ibid.). Le risposte vengono motivate in funzione della mancanza strutturale di spazi per la socialità, con particolare riferimento agli anziani e ai bambini, registrando inoltre condizioni di forte insicurezza collettiva e individuale (Ibid.) tutte condizioni che inibiscono l’uso della città intera e di rimando la qualità dell’abitare urbano. I risultati di questa indagine sono particolarmente utili a comprendere in che direzione si stiano muovendo le politiche di rigenerazione urbana, oltre che le numerose iniziative di placemaking e di co-progettazione recentemente sperimentate anche in Italia. Anche la sensibilità progettuale dei singoli professionisti sembra stia gradualmente aprendosi alla traduzione formale di tali complesse istanze sociali e ambientali.

In primo luogo va riconosciuto il grande sforzo dei governi locali di avere diffusamente adottato, quantomeno formalmente, il regolamento per i beni comuni già sperimentato nella città di sua ideazione, Bologna. In tal senso il capoluogo emiliano si configura come un grande laboratorio di attività di co- progettazione e co-gestione, dimostrando che a fronte di una obsolescenza della normativa urbanistica, la Pubblica possiede gli strumenti per intervenire sul miglioramento dell’ambiente costruito. Questo può avvenire attraverso la pianificazione integrata e la realizzazione di singoli interventi, potendo coordinare e perfezionare tali sforzi nell’uso—per quanto spesso controverso—delle ordinanze e della negoziazione con il privato e il collettivo (Curti, 2012). Il regolamento per i beni comuni ad esempio lavora in sinergia con l’attuazione dei Patti di Collaborazione, come strumento operativo per la realizzazione degli interventi previsti a norma del regolamento stesso. Con i Patti si definiscono proprio i dettagli e le responsabilità condivise degli interventi di cura, rigenerazione e gestione dei beni comuni. Anche al di fuori di questo framework normativo è possibile evidenziare programmi e modelli inclusivi di trasformazione urbana. Uno di questi è costituito dall’esperienza +s+t (+spazio + tempo), un programma realizzato per il quartiere San Paolo della città di Torino nel 2011 con l’obiettivo di integrare i molti approcci partecipativi già sperimentati in altre esperienze con le politiche sullo spazio e sul tempo urbani. Il programma +s+t è stato strutturato secondo un principio di “ridotto determinismo strutturale nelle scelte di progetto”, di reversibilità delle azioni, flessibilità degli usi e varietà delle attività proposte, tutti accorgimenti atti a stimolare la presenza dei cittadini nello spazio pubblico (Cortese, 2012). Lo svolgimento del programma ha dato particolare rilevanza all’aspetto del monitoraggio delle fasi progettuali, prevedendo inoltre una importante fase dedicata all’elaborazione dell’immagine coordinata del progetto ed alla sua comunicazione e divulgazione orizzontale sul territorio (Ibid.).

Fig. 56 · Murales in un sottopassaggio della Ciutat Vella raffigurante i volti dei residenti. Barcellona, 2017.

Il concetto di qualità dell’abitare urbano è stato analizzato, nei paragrafi precedenti, nell’ambito dei suoi diversi grandi di complessità e integrazione con riferimento al tema dello spazio urbano e della vita pubblica. Nel contesto e nella semantica, la definizione di pubblico ha permesso di introdurre e approfondire alcune delle questioni legate alla costruzione sociale dello spazio e in particolare alle dinamiche di produzione e riproduzione sociale e alle forme di territorializzazione spontanee. Da questa prima fase di riflessione emerge il ruolo cruciale dello spazio progettato come dispositivo socio-spaziale, generatore di molteplici relazioni tra oggetti e soggetti. In questa prospettiva il progetto di spazio pubblico non è la formalizzazione tangibile di un contenitore il cui contenuto per antonomasia, la socialità, esiste di per sé, riconoscendo che la dimensione pubblica dello spazio o la sua formalizzazione progettuale non siano sufficienti a qualificarlo come luogo di relazione fisica, sociale e culturale.

In questo senso, mentre il progetto di architettura nelle sue molteplici declinazioni ha metabolizzato in maniera archetipica le funzioni della vita domestica e di quella lavorativa, il progetto di spazio urbano ha solo recentemente inglobato nel suo processo ideativo le pratiche della vita pubblica. Tale considerazione spinge i limiti della ricerca in questo campo verso l’analisi dell’uso dello spazio e del tempo, della percezione dei suoi fruitori nonché della componente informale e imprevedibile, talvolta sfuggente, del vivere urbano. Una simile riflessione non può quindi prescindere dalla comprensione delle forze che agiscono sulla città, a cui lo spazio e gli individui risultano suscettibili e vulnerabili, che ne modificano o ne accentuano i confini, con particolare riferimento alle scelte politiche che collidono con la dimensione democratica. In questo contesto lo spazio pubblico assume il ruolo di “spazio intermedio, espressione di una territorialità aperta e di una molteplicità di rapporti di potere che si ancorano nello spazio” (Rossi, 2016). In tal senso ci si è interrogati sugli strumenti metodologici in grado di supportare la produzione di un livello di conoscenza urbana che possa essere spendibile sui molteplici e complessi temi dello spazio pubblico. Per farlo, bisogna quindi tener conto delle condizioni di “fluidità e viscosità, di mobilità e ormeggi, di scorrevolezza e attrito” (Ibid.) che qualificano e caratterizzano le dinamiche socio- spaziali. Da queste forze consegue inoltre una nuova tassonomia dello spazio pubblico di derivazione, a fronte dei suoi tipi elementari—la piazza, il parco, il