2.2 Declino e rinascita dello spazio pubblico
2.2.1 Le ragioni del declino
Per introdurre la riflessione sulle ragioni del declino del concetto e del progetto di spazio pubblico, appare utile iniziare attraverso la critica proposta da Camillo Sitte, non solo per la capacità di analisi di estrema attualità, quanto perché testimone diretto e contemporaneo dei fenomeni di trasformazione dell’ambiente costruito, nonché dell’irrevocabile passaggio da una città a misura d’uomo a una a misura di automobile. Avendo già analizzato la questione dal punto di vista della critica marxista alla società del capitale e agli effetti che questa ha generato sul sistema città, il contributo di Sitte mette per primo in luce le conseguenze legate allo snaturamento dello spazio pubblico.
Concentrandosi sulle città italiane, tedesche, francesi e austriache, il testo L’arte
di costruire le città si concentra sullo spostamento del ruolo della piazza dalla
sua funzione principale di contenitore delle manifestazioni della vita pubblica, a dispositivo spaziale utile a rompere la ripetitività della moderna maglia urbana o tuttalpiù a incorniciare un edificio di pregio (1889). Le principali forme di piazza degli antichi insediamenti, l’agorà, il foro e il mercato, non costituiscono più il fulcro della città moderna, con ricadute non solo in termini di attività della vita pubblica, quanto di vera e propria struttura urbana. Mette in luce come nella città antica anche nell’abitazione privata gli ambienti fossero disposti intorno al cortile centrale: così la piazza urbana è cinta da edifici pubblici e porticati, basiliche e templi, le cui funzioni si relazionano con lo spazio aperto. Questa configurazione simile a un teatro a cielo aperto, mette lo spazio in ‘collegamento artistico con i fabbricati’, una condizione questa messa in crisi dall’odierno utilizzo della piazza come ‘posteggio di veicoli’. Con questo passaggio Sitte vuole sottolineare come la piazza fosse stata strappata dalle mani dell’arte e dei cittadini e consegnata in quelle dei tecnici25. L’unità compositiva della città viene meno nel momento in cui non è più lo spazio aperto il suo principio generatore, ma i lotti fabbricativi ritagliati come figure regolari: quel che ne rimane sono strade e piazze (Sitte, 1889).
25. “Se l’architetto vuole ornare la sua opera di torri, di balconi, di cariatidi, di frontoni, di pinnacoli, di cui è pieno il suo taccuino di schizzi, troverà bene i milioni necessari per eseguire i suoi progetti; ma non gli si concederà mai un soldo per elevare colonnati, portici, archi di trionfo, né per dare alle strade e alle piazze un’impronta artistica, giacché lo spazio, che dovrebbe essere di tutti i cittadini, appartiene di fatto all’ingegnere e all’igienista. Tutte le forme d’arte di costruire e sistemare le città sono sparite una dopo l’altra, e non ne resta più nulla, neppure il ricordo.”
Fig. 17 · La mano di Le Corbusier sul plastico de La Ville Radieus (1930) complesso modello di città funzionale per 3 milioni di abitanti. Immagine di proprietà di FLC/Adagp, Paris, 2007
Agli inizi del ‘900 la città industriale si presentava come un ambiente malsano, sovrappopolato, rendendo necessario il ricorso a estese opere di modernizzazione, soprattutto nelle aree dei nuovi insediamenti suburbani (Gehl & Svarre, 2013) che si trasformano in una grande occasione di sperimentazione di forme urbane. Nella trasformazione della città a cavallo tra le due guerre convergono gli interessi dell’urbanistica razionalista e la sua precisa idea del mondo e della società, che Samonà dice “con i suoi criteri ristretti, agiva per ignoranza, per scettica presunzione, trascurando le istanze più generali e importanti che il rinnovamento della città andava imponendo” (1959). Il Movimento Moderno opera di fatto una revisione dei valori fondamentali, trascurando tutto ciò che diverso dalla sua concezione, negando la dimensione umana nella sua complessità e precludendosi la possibilità di farsi contaminare dalla realtà rimasta fuori (Samonà, 1959) rispettando lo schema “fino a tormentare a morte il genio e affogare ogni giocondo sentimento” (Sitte, 1889). L’obiettivo di una vita pubblica vibrante viene meno (Gehl & Svarre, 2013) per effetto di una periferizzazione che tiene fuori dalla crescita urbana lo sviluppo sociale (Lefebvre, 1968). Questi limiti hanno portato al rapido declino per inaridimento (Samonà, 1959) del Movimento, per quanto i suoi concetti fondamentali siano arrivati ai giorni nostri in tutte le forme del suo
modus operandi, in termini di legislazione così come di opere urbane, attualmente
oggetto di un profondo riesame.
Nel lungo periodo dominato dal Movimento Moderno, la vita pubblica, nelle forme del progetto di spazio urbano, viene esclusa dal dibattito, rimanendo un tema di second’ordine nelle concezioni post-moderniste o neo-razionaliste (Gehl, 2013). Vengono invece operate delle revisioni interne nella struttura urbana atte a confermare quando realizzato fino a quel momento: una volta affermata l’economia industriale a svantaggio della società urbana, questa si generalizza al punto da trasformarsi in realtà socio-economica, che trova il suo riferimento nei centri direzionali (Lefebvre, 1968). Sul piano dell’architettura residenziale, questo ha posto il dilemma della scelta tra un “elemento normalizzato […] che coincidesse in tutto e per tutto con un’architettura uniforme e ripetitiva della città, oppure [uno che] per la sua modestia e anonimità dovesse costituire un semplice sfondo per le emergenze architettoniche” facendo emergere una complessiva mancanza di metodo nella costruzione delle parti e delle relazioni tra le parti (Cerasi, 1976).
Fig. 18 · Piazza d’Italia a New Orleans (Progetto di Charles W. Moore, 1978)
Anche il lavoro di Jane Jacobs ci fornisce un quadro strutturale del declino dello spazio pubblico, che nell’incipit del suo libro The Death and Life of Great
American Cities chiosa: “Questo libro è un attacco all’attuale modo di pianificare
e ricostruire la città26” colpevole di uno strozzamento della vita pubblica in favore di una divisione funzionale dell’ambiente urbano (1961). Questa urbanizzazione
disurbanizzante e disurbanizzata ha certamente portato nella città nuovi e diversi
ordini di problemi: la questione dell’alloggio e dell’ambiente sul piano delle contemporanee esigenze esistenziali del cittadino, mentre sul fronte del governo l’organizzazione industriale e la pianificazione globale erano la priorità assoluta (Lefebvre, 1968). Sul piano del disegno della città Jane Jacobs, giornalista e attivista, ha aperto il dibattito sul declino dello spazio pubblico per la sua famosa battaglia condotta negli anni ’60 in contrasto alla concezione urbana di Robert Moses, master builder dell’area metropolitana di New York. Jacobs, capofila di un movimento collettivo nato nel West Village, si pone in aperto contrasto alla paventata decisione di abbattere e ricostruire il quartiere, ricollocando diecimila residenti per dar spazio a un’autostrada che collegasse il cuore di Manhattan al fiume Hudson. Già nel suo libro The Death and Life of Great American
Cities la Jacobs faceva emergere la necessità di salvaguardare le piccole realtà
dell’economia urbana e la rete sociale che vi si innestava, grazie alle condizioni di interdipendenza e prossimità che la scala di quartiere poteva offrire (1961) battendosi contro la convinzione di Moses per cui “le città sono create da e per il traffico27”. Riprendendo la domanda di Maurice Cerasi, è legittimo chiedersi “come si può pensare di attribuire alla disciplina architettonica, autonoma e limitata, un compito di costruzione e sperimentazione sociale come la nascita e la definizione di nuove funzioni” quando queste “possono perfino costituire un’inibizione per il lavoro comune delle forze sociali, dei tecnici e della committenza organizzata”? Questa domanda assume una rilevanza fondamentale se messa in relazione ai fenomeni di marginalizzazione e degrado fisico e sociale di interi brani urbani, o al diffuso senso di disaffezione della cittadinanza nei confronti della città, come istituzione e come ambiente di vita. Una profonda crisi della coscienza e della
26. Traduzione personale del testo originale: “This book is an attack on current planning and rebuilding.” p.3, Introduction
27. Traduzione personale dell’originale citazione di Robert Moses: “Cities are created by and for traffic, a city without traffic is a ghost town”.
struttura urbana acuita, anche sul piano sociale, dalle sempre crescenti pressioni di governi ed economie, dalle loro cicliche instabilità, da un avanzamento tecnologico incalzante e dalle repentine trasformazioni culturali. Il XXI secolo ci pone di fronte a un generale senso di emergenza urbana (Ciorra, 2011) avvertito in modo diversi in funzione dei contesti morfologici, economici e socio-culturali delle città, che sia la densa città dell’Europa post-bellica, la suburbanizzazione delle grandi città nordamericane nello schema downtown+suburbia+landscape, o le gigantesche forme urbane sperimentate nei paesi in via di sviluppo di America Latina, Medio Oriente e Oriente (Ibid.). Queste descrivono in maniera sintetica—e pertanto non completamente esaustiva—tre possibilità di forma urbis che assumono le sembianze di una pandemia spaziale, di emergenza ambientale (Ibid.). Le problematiche connesse al più ampio tema del declino dello spazio pubblico si riferiscono a questioni di tipo economico, politco-sociale, ambientale— inquinamento acustico, emissioni di CO2, consumo e impermeabilizzazione del suolo—sconfinando nel campo della salute dell’individuo.
Le ragioni del declino— e quindi i limiti della città contemporanea— vengono fatte ricondurre agli stessi temi delineati nei paragrafi precedenti, laddove il governo e quindi la configurazione si adeguano esclusivamente alle esigenze della dimensione privata, dalla produzione, all’abitazione, all’automobile, tra lasciando la dimensione pubblica dello spazio urbano e influendo negativamente sulle attività quotidiane in termini di fruizione e di qualità delle relazioni sociali. Con i dovuti margini differenza, dalla letteratura in materia di spazio pubblico emerge un’attenzione particolare ad alcuni aspetti che più di altre appaiono significative in ragione di tale declino: da un lato il diffuso senso di disaffezione al tema da parte della società civile e delle istituzioni, o più in generale una perdita di senso civico (Sitte, 1889; Jacobs, 1961); dall’altro la gestione dello spazio urbano, anche in termini di accorgimenti progettuali, la cui qualità incide sulla qualità dell’abitare urbano. Rispetto alla seconda questione, un’eccessiva enfasi sul governo dello spazio pubblico si esprime nella sua mercificazione, privatizzazione e/o omogeneizzazione formale (Carmona, 2010) sottoponendo in primo luogo gli usi, e di conseguenza gli spazi, a una progressiva funzionalizzazione e razionalizzazione (Cremaschi, 2008) fino alla cosiddetta deriva securitaria. D’altra parte una scarsa o inefficace gestione, che si manifesta in forma di sporcizia e/o inadeguatezza progettuale dello spazio (Carmona, 2010), risulta ostacolarne la fruizione e l’accessibilità, incidendo sulla sua percezione e alimentando fenomeni
Fig. 19 · Una delle immagini di spazio pubblico scattate da William Whyte e contenuta in The Social Life of Small Urban Spaces, 1980
di diffidenza, insicurezza e nei casi più estremi vandalismo.
Queste osservazioni incontrano il favore della tesi per cui la dissoluzione della sfera pubblica— nel più ampio discorso degli effetti dell’economia liberale sull’ambiente urbano—ha preceduto quella dello spazio (Cremaschi, 2008) producendo uno scollamento tra la civitas e l’urbs, non più messe in parallelo dall’identità e dal progetto (Desideri, 1997). Certamente le espressioni più strettamente sociologiche del diffuso individualismo con cui l’uomo contemporaneo gestisce tempi e luoghi della sua vita quotidiana suggeriscono, a fronte di un corollario di effetti negativi per la sua salute fisica e mentale— solitudine, insicurezza, disagio—alcune inversioni di tendenza. In primo luogo rispetto alla crescente consapevolezza che il diritto alla città vada rivendicato non solo nella possibilità di accedere alle risorse urbane, quanto nella possibilità di cambiare noi stessi cambiando la città (Harvey, 2008); d’altra parte, l’uso dello spazio pubblico per attività legate al tempo libero denota una crescente richiesta in tal senso (Maas et al., 2006). Viene altresì riconosciuto come causa-effetto di questo prolungato stato di declino, la tendenza di diverse esperienze di ricerca, quantomeno nel contesto italiano, ad affrontare le problematiche urbane in maniera autonoma, producendo metafore metropolitane più che analisi concrete della condizione spaziale del vivere presente (Ilardi, 1997).
Appare invece necessario rilevare come le trasformazioni dello spazio urbano siano state meglio intuite ed interpretate da ambiti disciplinari altri dall’architettura e dall’urbanistica (Desideri, 1990). In quest’ottica perde legittimità ogni obiettivo di complessità formale in architettura voluta per “compensare il presunto o reale squallore dei moduli moderni nella costruzione della città e i limiti che tali moduli pongono alla libertà creativa degli abitanti [che] gioca su elementi poco significativi, del tutto trascurabili dal punto di vista della richiesta di riforma, di socializzazione, di avanzamento culturale che proviene dal campo sociale” (Cerasi, 1976). In termini di progetto, come rilevato da Paolo Desideri, l’ostinato ricorso a categorie disciplinari e configurazioni formali nella convinzione che le stesse abbiano sempre funzionato—o almeno fino a ieri—ha messo il mondo dell’architettura e dello urban design di fronte alla loro inefficacia e alla necessità di formularne di nuove in grado di analizzare la città (1990; 1997) e di restituire la complessità effettiva dei fatti architettonici e urbani (Cerasi, 1976).