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2.2 Declino e rinascita dello spazio pubblico

2.2.3 Nuovi approcc

Individuate le dimensioni costitutive dello spazio pubblico e le ragioni del suo declino e della sua rinascita concettuale, si delineano più chiaramente i presupposti di un possibile quadro operativo sul piano progettuale e gestionale. Il ritrovato interesse nei temi dello spazio pubblico e della qualità della vita urbana a cui assistiamo negli ultimi decenni (Mehta, 2014) ha portato a un complessivo ripensamento fisico, sociale e strutturale, in termini di strumenti e strategie interpretative per rispondere a una rinnovata domanda di città (Sevtsuk, 2012). Il processo di redenzione che ha portato a definire nuovi paradigmi progettuali (Ditommaso, 2015) si manifesta su scala globale in maniera inizialmente scomposta e non sempre codificata, come reazione ai diversi e peculiari fenomeni di disumanizzazione dell’ambiente costruito. E per quanto il progetto di spazio pubblico sia oggi al centro del dibattito culturale internazionale, la riconosciuta urgenza del tema non ha necessariamente portato alla formulazione di interventi o metodologie strutturate (Sadik-Kahn, 2016). Di contro, lo spazio pubblico assume un ruolo centrale nelle politiche di trasformazione urbana, divenendo oggetto di interesse da parte del settore pubblico quanto di quello privato (Madanipour, 2005).

Nella lettura per parti e sistemi della città suggerita da Maurice Cerasi, ritroviamo una serie di considerazioni ampiamente applicabili al complesso contesto dello spazio pubblico. In primo luogo nel concetto di pezzi o episodi di

città che sono “architettonicamente definiti, possono essere attraversati, toccati

e modificati (… nelle gerarchie ed elementi connettivi della città) da complesse relazioni urbane” (1976). In secondo luogo perché questo “impone una tecnica progettuale particolare che parta dalla definizione autonoma dei sistemi e delle parti individuali della città per unificarli a posteriori in un sistema superiore” (Ibid.). La modificabilità delle gerarchie urbane—con particolare riferimento ai percorsi e ai tracciati di attraversamento—e alla riconfigurazione postuma nella forma del retrofitting, rende le osservazioni di Cerasi quanto mai attuali. Ancor di più sotto il profilo metodologico, si fa riferimento a un iter progettuale preciso, diverso dalla progettazione integrata e dalla progettazione aperta, ma capace di cogliere la logica sottesa all’organizzazione spaziale della città per poterne sfruttare il potenziale di trasformazione e di riforma (Ibid.). Alcuni autori portano la discussione sul piano della sfera pubblica, suggerendo da un lato che a fronte

dello sforzo formale di produzione di nuove tipologie di spazio pubblico e di riconfigurazione di quelle tradizionali, la varietà delle funzioni della vita pubblica sia diminuita (cf. Zukin); dall’altro, che la limitata visione sul progetto di spazio pubblico vada ampliata sul fronte della creazione di opportunità (cf. Benerjee). Infine, come individuato nei precedenti paragrafi, l’aspetto del governo urbano incide profondamente sulla performance dello spazio pubblico (cf. Carmona).

Le sfide che lo spazio pubblico è chiamato a fronteggiare sono non più solo riferibili esclusivamente a categorie formali: l’aspetto progettuale viene ora declinato sul piano politico nella sua capacità di mettere in discussione la gerarchia delle parti urbane, delle relazioni umane, collettive e individuali, e dell’efficacia amministrativa nel governo della cosa pubblica urbana. Questa attitudine viene in parte accolta anche dalle autorità locali e dalla società civile, che sempre più di frequente si interessa alle possibili riconfigurazioni di quegli spazi interstiziali rimasti fuori dalla pianificazione ordinata della città, riuscendo a coglierne appunto il potenziale trasformativo. Le prime riconoscono il valore strategico di raggiungere obiettivi di qualità e sostenibilità urbana attraverso la rigenerazione di tali aree, sia in termini di marketing urbano che di potenziali investimenti da parte del settore privato. La seconda—intendendo per società civile privati, singoli soggetti, associazioni e/o cooperative sociali—ha talvolta colmato il vuoto istituzionale nella gestione di certi spazi pubblici attraverso la loro occupazione informale, quando anche abusiva, ma spesso in grado di offrire alla comunità un uso civile e alternativo di un’area sottoutilizzata o degradata. Le forme più efficaci di trasformazioni soft hanno il merito di aver inciso positivamente sulla percezione di questi spazi urbani, riaprendo il dibattito su nuove e possibili forme di partecipazione. Nei casi più riusciti, da queste esperienze informali sono scaturiti protocolli di intesa e precisi modelli di partnership pubblico-privato, in un proficuo dibattito tra i reali attori coinvolti nel processo di trasformazione.

In luce di questi presupposti, la ricerca andrà ad approfondire alcune delle principali formule mobilitate per esplorare soluzioni intermedie in termini di accordi di collaborazione e/o cogestione tra amministratori, società civile e privati, per la gestione di spazi urbani, come possono essere quelle degli urban

commons. Questi differenti approcci si collocano come una traduzione formale

del passaggio da una concezione formale dello spazio a una prospettiva comune, collettiva, human-friendly del progetto, che tenga conto dell’abitante già in fase

di processo decisionale, come attore al pari di professionisti e investitori. Alla luce anche della diffusione dei modelli di place-making su scala internazionale e di quanta credibilità stiano acquisendo, seppur nella loro informalità, il processo di communing sembra configurarsi come un dispositivo in grado di interpretare le dinamiche di produzione di spazio pubblico per trasformarle in politiche. Dal punto di vista istituzionale, questo significa auspicabilmente ricalibrare gli obiettivi di trasformazione urbana degli enti pubblici, chiedendo loro di occuparsi dello spazio pubblico al fine di evitare quegli ostacoli che potrebbero ostacolare tali dinamiche, piuttosto che preoccuparsi semplicemente di progettare nuovi spazi (Sebastiani, 2010).

Nell’epoca della collaborazione e della sharing economy, l’idea di diritto alla città vira verso un principio di co-city, come forma urbana complessa, adattiva, evolutiva, che recupera la visione lefebvriana dell’urbano (Iaione, 2017). In quest’ottica e in riferimento alla triade spaziale, vediamo come la costruzione sociale venga potenziata dalle appropriazioni informali dello spazio pubblico da parte della collettività, che non mancano di configurarsi come interventi strutturati al fine di essere efficaci e garantire una forma di beneficio per la comunità, rafforzare un modello di sviluppo collaborativo e contribuire alla consapevolezza che la città è una rete di spazi, persone e risorse che si influenzano a vicenda (Mazzuco, 2016). Attraverso questa chiave di lettura diventa facile guardare allo spazio pubblico come un’infrastruttura socio-spaziale e allo stesso tempo notare una generale mancanza di strumenti per definirne i ruoli e distribuire le responsabilità ai diversi attori inclusi nel processo, andando così a definire i margini di un più preciso strumento di pianificazione (Ibid.).

Il tema dei beni comuni, anche nella loro declinazione urbana, è stato interpretato dal Governo italiano attraverso l’istituzione nel 2007 di una Commissione Speciale, fortemente voluta dall’allora premier Romano Prodi, e presieduta da Stefano Rodotà. La Commissione—conosciuta anche come Commissione Rodotà—aveva il compito di formulare un’ipotesi credibile di riforma del Codice Civile relativamente al diritto della proprietà e dei beni. In particolare nella riforma di legge viene individuato un terzo ordine di proprietà, i beni comuni, a cavallo tra la sfera pubblica a quella privata e strettamente connessi al diritto fondamentale delle persone di poter fruire di un luogo indipendentemente dalla sua proprietà. A questa riforma ha fatto seguito il Regolamento per i Beni Comuni

della città di Bologna, che trasforma in pratica spaziale le suddette prescrizioni normative avvalendosi degli strumenti tradizionali dell’urbanistica, come i patti di collaborazione. Sebbene il processo di communing appaia ancora poco chiaro nelle sue modalità di applicazione, sembra plausibile considerarlo come un approccio potenzialmente realizzabile e auspicabilmente in grado di correggere le aberrazioni insostenibili dei modelli urbani contemporanei, come realistica alternativa votata al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità olistica—sociale, ambientale ed economica.

Altri diffusi e credibili approcci alla trasformazione urbana sono costituiti dal cosiddetto Urbanismo Tattico—Tactical Urbanism—che riprendendo il concetto di De Certeau, lavorando a partire dall’interpretazione delle “mille pratiche di appropriazioni dello spazio” ed elaborando precisi piani d’azione che mobilitano metodo contro-intuitivo. Il principio è quello di “riconoscere la disfunzionalità delle norme, delle procedure e degli strumenti convenzionali della pianificazione urbana” per combattere “l’inefficienza e l’insostenibilità degli onerosi … mega- progetti e degli scenari di trasformazione a lungo termine dei Piani come unici strumenti e fattori di sviluppo (sviluppo, non crescita) delle città”. Così Valentina Talu (2016) parafrasa il motto “Short-term Actions for Long-Term Change” che esprime l’obiettivo generale di Tactical Urbanism di agire attraverso “micro- progetti a basso costo e a breve termine come strumenti per garantire e promuovere la qualità, l’accessibilità e l’usabilità della città quotidiana e di prossimità” (Ibid.). Un altro esempio è invece rappresentato da quella che viene definita agopuntura

urbana, considerata come vero e proprio intervento curativo sulla città, in grado

di stimolare e rinvigorire un luogo. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un processo di trasformazione che predilige interventi puntuali, economici e veloci, con un più ampio spettro di risultati sul territorio. Non mancano infine i casi in cui si è fatto ricorso all’esperienza di spazio pubblico italiano, il cui processo di decodifica si può collocare come riferimento principale del monumentale lavoro di analisi operato da Gehl confluito nei Public Space / Public Life studies and

strategies – di contro alle più superficiali interpretazioni dei soli canoni stilistici in

cui si perdono nella traduzione i valori socio-culturali e i caratteri morfologici da cui dipende il successo di uno spazio pubblico (Ditommaso, 2015).

La ricerca prende quindi in considerazione questi approcci, che verranno meglio approfonditi in luce delle buone pratiche prese in analisi, poiché sul

piano complessivo del processo di produzione di spazio pubblico si collocano in posizione trasversale rispetto alle relative dimensioni già individuate. In questi approcci contemporanei alla trasformazione urbana la componente interpretativa del fenomeno urbano (Madanipour, 2005) assume un ruolo rilevante, in un processo di integrazione delle principali dimensioni precedentemente indicate.

Fig. 21 · Ragazze attraversano in bicicletta la piazza-copertura dell’Oslo Opera House. Oslo, 2018

Fig. 22 · Vista degli edifici dal percorso sopraelevato del Luchtsingel. Rotterdam, 2018. (Progetto di ZUS, 2015)

Il campo semantico mobilitato nella descrizione, e quindi nell’analisi, dello spazio pubblico contemporaneo si arricchisce continuamente, sia in termini di lessico di progetto che di processo. Di fatto, quantomeno nell’ambito della trasformazione urbana, i due termini si affiancano, legandosi progressivamente nella consapevolezza che il progetto, come pura forma, non è in grado di governare la scala urbana, talvolta neppure quella minuta; d’altra parte il processo, nella sua astrazione, non può prescindere dall’essere applicato e sperimentato attraverso lo strumento progettuale. Il fil rouge che tiene insieme processi, anche analitici, ed esiti progettuali, è da sempre quello della qualità, che a differenza del passato viene declinato sul piano di un rinnovato senso di responsabilità che investe orizzontalmente e verticalmente tutti gli attori coinvolti nella formulazione di obiettivi e strategie volte appunto al miglioramento qualitativo dello spazio urbano e delle comunità che vi abitano.

Allo stesso tempo, appare quanto mai difficile orientarsi nella moltitudine di strumenti e approcci che promettono di fotografare uno spaccato attendibile e realistico della realtà urbana, fisica e sociale, in grado di guidare il progetto verso un ridottissimo margine di errore. In questo capitolo si vuole ripercorrere il tema della qualità all’interno di differenti ambiti disciplinari che a vario titolo vengono mobilitati per legittimare le scelte della trasformazione urbana.

“Date a un uomo tutto ciò che desidera e ciò nondimeno, proprio in questo istante, egli sentirà che tutto non è tutto. “ [Immanuel Kant a Nikolaj Karamzin, 1995]

Il concetto di qualità è entrato a buon diritto non solo nel lessico di tecnici, accademici e pianificatori, quanto anche nel linguaggio e nel dibattito quotidiano delle comunità urbane, sempre più attente e sensibili alle proprie condizioni di vita. Le classifiche sul benessere e la qualità della vita hanno assunto pertanto un peso significativo nel giudizio in merito alla capacità amministrativa della cosa pubblica nonché sulla generale percezione dei cittadini, condizionati in un senso e nell’altro dai risultati delle indagini nazionali e internazionali sulla qualità della vita nelle città. Non di meno, viene esacerbato un generale senso di competizione territoriale allorquando le classifiche di benessere e qualità della vita incidono sull’attrattività e sul potenziale turistico di un’area.

Nei paragrafi seguenti il concetto di qualità dell’abitare urbano verrà declinato in primo luogo sul piano metodologico, in riferimento alla valutazione, agli indicatori utilizzati e quindi alla bontà del dato in relazione alla trasformazione urbana. In secondo luogo la ricerca si interroga sull’effettiva aderenza alla dimensione territoriale delle indagini sulla Qualità della Vita nelle città, per arrivare a una più completa e complessa definizione di Qualità dell’Abitare Urbano grazie alla quale individuare, nell’ultimo paragrafo, quali siano gli approcci più utili a determinarla.