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Il fine di trarre profitto dalla cosa sottratta.

Sezione II: Ipotesi di dolo specifico nei delitti contro il patrimonio e nei reati c.d economici.

2. Dolo specifico e furto.

2.1. Il fine di trarre profitto dalla cosa sottratta.

Sebbene l’art. 624 c.p. esplicitamente ravvisi un nesso relazionale tra la condotta di impossessamento ed il fine di profitto, la completezza offensiva della fattispecie di furto già nella condotta materiale tipizzata ha ingenerato in dottrina dei dubbi sulla effettiva qualificazione del delitto come reato a dolo specifico.

Secondo una suggestiva tesi, autorevolmente sostenuta in dottrina 60 , nonostante il furto sia tradizionalmente ricondotto nell’alveo dei delitti a dolo specifico, l’espansione irrefrenabile della

59 Tale impostazione, peraltro, sembra aver trovato l’avallo della più recente giurisprudenza

di legittimità: cfr. Cass., sez. Un., 29 ottobre 2011, n. 37954, in Ced, rv. 250974, sul requisito dell’altruità in materia di appropriazione indebita.

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nozione di profitto propugnata dagli interpreti61 tradirebbe una mera “apparenza” del requisito finalistico tipizzato dalla disposizione.

In altri termini, partendo dal presupposto di una comune nozione di profitto come qualsiasi soddisfazione o vantaggio, financo di natura non patrimoniale 62 , chiaramente molto ampia, si rileva come l’elemento finalistico previsto dalla disposizione sarebbe in re ipsa ricompreso nella sottrazione della res63. Non sarebbe ipotizzabile, in questo senso, uno spossessamento privo della finalità di profitto (quantunque morale64).

L’impostazione del furto come reato a dolo generico non persuade, evidenziando piuttosto le criticità, anche in punto di sufficiente determinatezza, del concetto di profitto penalmente rilevante. Insuperabile, in questo senso, è la lettera dell’art. 624 c.p.,

61 Anche in giurisprudenza, d’altra parte, proprio per la difficoltà nell’individuazione di una

funzione integrativa di offensività del dolo specifico nella fattispecie in esame, del profitto-fine è accolta una nozione ampia. Cfr. ex multis Cass. Pen., sez. unite, 26 novembre 1983, in Giust. pen., 1984, II, 129 e ss.

62 In questi termini, di recente, Cass. Pen., sez. II, n. 11467 del 19/03/2015, in Ced, rv.

263163, in cui la Suprema Corte precisa come il "profitto", in materia di rapina, può consistere «in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre dalla propria azione»; nonché, con specifico riguardo alla fattispecie di furto, Cass. Pen., sez. II, n. 40631 del 17/10/2012, rv. 253593, per cui nel delitto in esame «il concetto di profitto va inteso in senso ampio, così da comprendervi non solo il vantaggio di natura puramente economica, ma anche quello di natura non patrimoniale, realizzabile con l'impossessamento della cosa mobile altrui commesso con coscienza e volontà in danno della persona offesa». Nello stesso senso, cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 30 del 02/01/2013, rv. 254372.

63 Così A.CARMONA, op. loc. ult. cit., 155-156 e 170.

64 Contra, nel senso di una nozione esclusivamente economica di profitto, F.SGUBBI, Uno

studio sulla tutela penale del risparmio. Libertà economica, difesa dei rapporti di proprietà e "reati contro il patrimonio", cit., 152 ss.

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che addirittura sembra richiedere che il profitto-scopo dell’azione discenda direttamente (“fine di trarne profitto”) dalla res sottratta.

Anche a voler ritenere il profitto sempre in re ipsa nella condotta di sottrazione ed impossessamento, infatti, non può negarsi la sua trascendenza rispetto agli elementi costitutivi del fatto tipico. D’altra parte, le opinioni espressesi in tema sembrano relegare l’elemento finalistico a mero riflesso della colpevolezza, operando un’indebita commistione tra tipicità oggettiva e colpevolezza65.

Interpretazione diametralmente opposta è invece sostenuta da altra parte della dottrina66, la quale sottolinea la rilevanza del concetto di profitto non tanto sul piano dell’elemento psicologico, quanto piuttosto su quello della tecnica normativa: il legislatore, riferendosi al profitto, intende sottolineare come il fine dell’agente sia sine iure e

contra ius, contrapponendosi alla sfera patrimoniale del soggetto

passivo del reato. E ciò non in virtù di un’asserita qualificazione “implicita” del profitto di cui all’art. 624 c.p. come ingiusto67, quanto, piuttosto, poiché esso discenderebbe, teleologicamente e direttamente, dalla stessa res oggetto della condotta tipicamente offensiva.

65 Così ad esempio G.AZZALI, Profitto e punibilità nella teoria del reato, in Riv. it. dir.

proc. pen., 1989, 1408 ss., il quale identifica il fine di trarre profitto nella consapevolezza del valore del bene sottratto.

66 Cfr. L.PICOTTI, Il dolo specifico, cit., 227.

67 Si è già avuto modo di riferire della diatriba dottrinale sul punto della qualificazione

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2.1.1. I limiti della funzione “selettiva” del dolo specifico nel delitto di furto.

Se le questioni problematiche che investono la nozione di profitto caratterizzano il dibattito in punto di qualificazione della fattispecie di furto come reato a dolo specifico, a fortiori rendono incerta la funzione che il riferimento finalistico svolge nell’ambito di tale fattispecie.

Se si adottasse un’interpretazione qualificata del profitto-fine della condotta, si potrebbe senza grandi obiezioni parlare di funzione selettiva del dolo specifico.

Viceversa, considerata l’ampia interpretazione offerta in giurisprudenza, il fine di trarre profitto nel delitto di furto appare piuttosto elemento pleonastico, quasi ornamentale, che non aggiunge molto di più alla fattispecie rispetto a quanto già previsto68.

68 Non è un caso che le interpretazioni volte ad allargare le maglie della nozione di profitto

abbiano, di converso, ridotto sensibilmente il ruolo della finalità del reo nella fattispecie in esame: cfr., in questo senso, A. CARMONA, I reati contro il patrimonio, in AA. VV., Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, a cura di A.FIORELLA, Torino, 2016, 153 ss. e, in particolare, 187-188.

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La questione, per altro verso, implica risvolti ulteriori se si tiene in considerazione l’interpretazione evolutiva, in chiave oggettivistica, che ha investito l’intera categoria dei reati a dolo specifico.

In questo senso, una qualche funzione selettiva poteva essere riconosciuta, aderendo alla tesi soggettivistica, attraverso la valutazione giurisdizionale (pericolosamente discrezionale) in ordine allo scopo perseguito dall’agente. Diversamente, gli spazi per una tale azione “restrittiva” sembrano essere più angusti interpretandosi l’istituto del dolo specifico in chiave costituzionalmente orientata.

La fattispecie di furto si caratterizza, in effetti, già di per sé per l’accentuata qualificazione offensiva della condotta. Lasciare al fine di trarre profitto dalla cosa sottratta la funzione di escludere fatti inoffensivi, consiste, per assurdo, nel ribaltare sostanzialmente il ruolo che l’elemento finalistico dovrebbe assumere, ovvero quello di qualificare oggettivamente una fattispecie per accentuare a livello tipico la connessione teleologica tra azione ed evento, attraverso un’ulteriore connotazione del disvalore oggettivo d’azione.

Nel furto, per l’appunto, una tale componente di disvalore è già specificata e sviluppata, e ciò rende sostanzialmente rarefatta la

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funzione restrittiva del fine del reo69. In altri termini, la decantata selezione operata dal dolo specifico (c.d. di offesa ulteriore) tipico del furto, aderendo ad una interpretazione strettamente oggettiva del requisito finalistico, sembrerebbe semplicemente formale o astratta, senza rilevare concretamente nella prassi.