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Il linguaggio nella morfologia dello spirito

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ivi, p. 350. Per Wittgenstein, anche il linguaggio che noi definiamo privato, perché riferito alle

nostre sensazioni interne, in realtà è collegato in ogni punto a fenomeni sociali pubblici, cioè noi usiamo i termini servendoci di criteri pubblici. Egli sintetizza questo punto dicendo: che un processo interno ha bisogno di criteri esterni.

113 L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino 1978, p. 94. 114 ibidem

Nell'ambito di una morfologia dello spirito, per Cassirer il linguaggio è una delle forme fondamentali dell'intelligenza del mondo. Infatti, per il filosofo, la civiltà si è sempre manifestata nella creazione di “determinati mondi di immagini, di determinate forme simboliche”, le quali si pongono accanto concetti logici- scientifici e raggiungono l'oggettività attraverso altre funzioni dello spirito. In questo modo “la vita emerge dalla sfera della mera esistenza data da natura: essa non rimane né un elemento di questa esistenza, né un processo meramente biologico, ma si trasforma e si perfeziona divenendo forma dello spirito.”115. In tale teorizzazione è ravvisabile una ascendenza kantiana, per la quale attraverso la trascendentalità della attività simbolica vengono posti in essere l'io, il mondo ed il loro rapporto.

A suo avviso, dunque, qualsiasi rapporto dell’uomo con la realtà non può che essere mediato: la funzione mediatrice, attraverso cui trascorre ogni forma “quale si realizza compiutamente nelle singole fondamentali direzioni della vita spirituale”116,

è individuata nel simbolo. L'approccio alla teoria del simbolo è di tipo linguistico, dove il simbolo, cioè, in senso lato, il linguaggio non è il riflesso, la riproduzione delle cose: esso non rimanda alla cosa pura, bensì è la costruzione delle cose.

Cassirer, come Kant, non intende la conoscenza come copia, in quanto non crede che l'uomo possa arrivare all'in-sé delle cose. Il linguaggio, ma anche il mito e l’arte, in quanto altri modi di conoscenza, divengono simboli, non nel senso che essi mostrano sotto forma di immagini, che alludono e spiegano, un qualcosa precedentemente dato, bensì nel senso che ciascuna di queste forme crea e fa emergere da se stessa un suo proprio mondo di significato. Riprendendo Hegel, Cassirer ritiene che l’uomo possa soltanto ritradurre la realtà nel linguaggio dello spirito e il simbolo non sarebbe altro che il mezzo di cui lo spirito si serve per mantenere il suo rapporto mediato con la realtà. Il processo di oggettivazione pone l'oggetto attraverso l'operazione trascendentale fatta scattare dalla funzione simbolica, senza la quale l'intelletto non è in grado di compiere nessuna sintesi, così che, le forme sono, per lo spirito. la realtà oltre la quale non ha senso andare: “nella totalità delle sue prestazioni e nella conoscenza della regola specifica in base alla quale ogni forma del suo proprio agire è determinata [...] lo spirito possiede l'intuizione di se stesso e della realtà. Ma alla domanda che cosa possa essere l'assoluto reale al di fuori di questa totalità delle funzioni spirituali, [...] a questa domanda esso non riceverà più alcuna risposta, e questo perché a poco a poco impara a riconoscerla come un problema mal posto, come un'immagine ingannevole del pensiero”117.

Ritenendo che i nostri modi di pensare permangano in tracce nel linguaggio, compito del filosofo è perciò quello di esaminare il linguaggio allo scopo di rinvenire in esso tracce dei meccanismi del pensiero che hanno reso possibile e generato i simboli così come si presentano. Il linguaggio, allorché si fa veicolo di espressione,

115E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. I, p. 59. Lo scopo

della filosofia, allora, “non consiste nel ritornare al di qua di tutte queste creazioni, ma invece nel comprenderle e renderle coscienti nel loro fondamentale principio creativo”, ossia lo studio delle strutture fondamentali della conoscenza. “Anziché indagare i presupposti scientifici della conoscenza del mondo, occorreva pensare a stabilire e delimitare, l'una rispetto all'altra, almeno nell'ambito generale, le varie forme fondamentali dell’'intelligenza' del mondo, e cogliere ciascuna di esse più nettamente possibile nel suo peculiare intento e nella sua peculiare forma spirituale”. ivi, vol. III-1, p. XI.

116 ivi, vol. I, pp. 18-19. 117 ivi, vol. I, p. 48.

attua un'operazione rappresentativa, intesa come “la presentazione di un contenuto in un altro e per mezzo di un altro [...] essenziale per la costruzione della conoscenza stessa e condizione della sua peculiare universalità formale”118.

Per Cassirer, il linguaggio è la ‘forma simbolica’ per eccellenza, esso non può essere ‘ridotto’, a considerazioni puramente logiche; egli contesta, difatti, in modo esplicito qualsiasi prospettiva positivistica che si limita a considerare il linguaggio nella sua ‘datità’ senza coglierlo nella sua radice generativa. Quindi, la dimensione

linguistica non rappresenta solo una modalità di approccio comunicativo, ma organizza l’esperienza tipicamente umana della conoscenza, è anzi la stessa organizzazione del pensiero a dover fare continuamente i conti con l’attivo uso del linguaggio e delle sue dinamiche. È la dimensione linguistica che fa da tramite tra le nostre impressioni dettate dal momento e il livello dell'oggettività razionale.

Il ‘fondamento simbolico’ del linguaggio ha una natura intimamente dinamica ed è possibile individuare fasi e momenti attraverso cui la sua funzione simbolica diventa sempre più libera facendo sì che tale ‘libertà’ sia l'elemento necessario e quasi fondativo della possibilità di un affinamento e una ‘purificazione’ interni. Nelle manifestazioni più prime del linguaggio la funzione simbolica, evidentemente, è di tipo mimetico, dove, una sorta di lingua quasi ancora non nata, aderisce alle pieghe della realtà sensibile tentando di riprodurla attraverso l'imitazione. Questa prima fase prende, secondo la terminologia del Cassirer, il nome di ‘espressione sensibile’. In un secondo momento, distaccandosi dal molteplice sensibile e cominciando ad organizzare un mondo all'interno del quale prendono forma gli oggetti, le proprietà degli oggetti e le singole azioni, il linguaggio si dota della funzione detta della ‘espressione intuitiva’ e, parallelamente al costituirsi degli oggetti, comincia a costituire l’Io. La fase più alta, però, si realizza quando la funzione simbolica del linguaggio prende la forma della “espressione del pensiero”, svincolandosi il più possibile dal sensibile e sviluppandosi secondo la libertà dell'astrazione. Nonostante tali procedure astrattive, però, il linguaggio ordinario mai totalmente si libera dal riferimento al sensibile e prende la veste pertanto di un semplice ‘presentimento’ del concetto logico.

Per Cassirer il linguaggio, come anche il mito, trae radice e si sviluppa attraverso il pensiero metaforico119. Qui il linguaggio si nutre dell’immaginazione, di cui un esempio è l’immagine poetica, in cui l’immagine è suscitata dagli effetti metaforici creati dal linguaggio stesso, che permettono di cogliere l’identità nella

118 ivi, vol. I, p. 47. Per Cassirer l’attività simbolica investe qualsiasi attività umana, e si esercita in

varie forme e a diversi livelli ma le molteplici strutturazioni simboliche del mondo, pur distinte e distinguibili, formano un sistema ordinato. Ogni attività simbolica, cioè, ha delle precise relazioni con altre attività simboliche, potendo essere portatrice di un ‘senso’ anche più ricco dei sensi ulteriori che rende possibili. Cassirer identifica il simbolo come l'unione inscindibile tra un qualsiasi segno sensibile ed un significato costituito da un contenuto e/o un valore ideali. Per Cassirer, non diversamente da Croce, il quale, però, confinava tali riflessioni nel campo dell’estetica, non è possibile che un ‘intuizione’ dello spirito umano non si traduca in una opportuna espressione e tra i due termini esiste un nesso inscindibile, per cui, parlando del linguaggio poetico, egli sosteneva che esso è dato da una “sintesi a priori di sentimento ed immagine”.

119 Per metafora Cassirer intende il consapevole sostituito alla designazione di un certo contenuto

rappresentativo mediante il nome di un altro contenuto, il quale in parte è simile al primo, oppure presenta certe mediate ‘analogie’ con esso.

differenza. Infatti, come scrive Ricoeur: “Perché vi sia metafora in effetti occorre che io continui a percepire l’incompatibilità letterale attraverso la nuova compatibilità semantica. L’immaginazione è la risonanza in noi di un essere nuovo del linguaggio, la reviviscenza dei campi sensoriali attraverso gli aspetti tensivi dell’innovazione semantica” 120. Egli parte da alcune osservazioni di Aristotele il quale afferma che “la lexis, alla quale si collega la teoria della metafora, ‘fa apparire il discorso’, infatti dice il filosofo ‘le parole dipingono quando significano qualche cosa ‘in atto’”121.

Anche Jeynes individua nella metafora uno degli aspetti fondamentali del linguaggio, in quanto lo rende un organismo vitale e in continua crescita, in tal senso essa è il suo stesso fondamento costitutivo: “nel linguaggio noi utilizziamo un termine proprio di una cosa per descriverne un’altra in conseguenza di una qualche somiglianza esistente fra loro o fra le loro relazioni con altre cose. […]Il lessico del linguaggio è quindi una serie finita di termini che, grazie alla metafora, può estendersi a coprire una serie infinita di circostanze, creando addirittura circostanze nuove”122. Utilizzando metafore estese per descrivere oggetti nuovi andiamo a costituire un vocabolario più ricco a mano a mano che la cultura umana si fa più complessa123.

In Heidegger, il linguaggio è un modo di rapportarsi al mondo tipico dell’Esserci, che si configura come Erfahrung, come ‘fare esperienza’ perché l’uomo, è sempre immerso nel linguaggio: “Parliamo, perché il linguaggio ci è connaturato. […] Il linguaggio fa parte in ogni caso di ciò che l’uomo ritrova nella sua più immediata vicinanza. Dappertutto ci si fa incontro il linguaggio”124.

Per cui l’uomo deve imparare ad abitare nel parlare del linguaggio, ma, per fare ciò, dobbiamo abbandonare ogni tentazione di riproporre una definizione generale, ogni approccio teoreticistico al linguaggio, ossia non pensare più a un rapporto metafisicamente determinato tra parola e cosa da cui scaturisce la valenza puramente rappresentativa del linguaggio, l’idea del linguaggio come espressione. Tradizionalmente il linguaggio è considerato soltanto in termini di comunicazione verbale, come un ente che ha la proprietà di essere segno o uno strumento per informare sugli enti e, in tal modo metterli a disposizione dell’uomo, renderli qualcosa di costantemente presente, in modo da poter tornare costantemente su esso.

L' uomo non crea il linguaggio, ma nascendo trova già sempre il linguaggio, che è la casa dell' essere, il luogo in cui le cose si mostrano all' uomo. Questa affermazione ci ricorda come il linguaggio prima di essere un ‘mezzo’, è un ‘luogo’, ovvero una sorta di ‘realtà’ all'interno della quale l'uomo ‘abita’, producendo i suoi abiti e le sue abitudini. Il nostro rapporto con il mondo, e la sua stessa esistenza, è reso possibile, dunque dal fatto che disponiamo di un linguaggio. L’ordine in cui

120P. Ricoeur, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, a cura di R. Messori, Centro

Internazionale Studi di Estetica, dic. 2002, p. 45.

121 ivi, p. 58

122 J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale, Adelphi, Milano 1984, pp. 71, 74.

123 Vi è, dunque, un rapporto di continuità tra i vari linguaggi, ossia tra le varie forme di

comunicazione e di interpretazione del mondo. Se il linguaggio, infatti, è una delle forme simboliche possibili cade ogni rigida barriera tra un linguaggio e l'altro e i linguaggi simbolici della matematica e della logica, pur nella loro autonomia, devono poter essere indagati nel loro rapporto con i linguaggi ordinari perchè questi costituiscono il presupposto di quelli.

l’esistenza si muove è dato nel linguaggio, tuttavia l’essere non si svela attraverso il linguaggio che l’uomo fonda, ma attraverso le parole che esso stesso destina. Questa triplice appartenenza di pensiero, linguaggio ed essere si fonda su un rapporto di cooriginarietà e coappartenenza dei tre termini: nel pensiero l’essere viene al linguaggio.

Ma l’impossibilità di risalire oltre il linguaggio, non vuole pervenire a un’essenza immutabile del linguaggio, attraverso cui indagare per pervenire ad un’essenza immutabile della verità; nella costitutiva linguisticità dell’essere è racchiusa l’esperienza di una verità finita, legata ad un linguaggio storico, determinato. Questi motivi della riflessione heideggeriana possono essere interpretati come un nostro essere collocati in una tradizione, in un orizzonte di senso dato nel linguaggio, in cui l’esistenza si trova gettata, e in rapporto al quale può avere parola125. Per Heidegger si vive già sempre in un mondo interpretato, in quanto il

mondo è già determinato dalla tradizione. L'uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L'uomo è gettato all'interno di questi orizzonti linguistici storici-ermeneutici, di conseguenza viene meno ogni pretesa di discorsi o teorie eterne. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali. In tale posizione c'è un richiamo a Humboldt, il quale a fronte della tradizionale visione convenzionalista del linguaggio, riporta il linguaggio all’interno di ciò che è la persona umana nella totalità delle sue facoltà. Il linguaggio è un prodotto storico, un prodotto dell’immaginazione, una produzione spontanea dello spirito, che plasma lo stesso modo di pensare di coloro che lo parlano: in termini aristotelici, il linguaggio non é un'opera compiuta, cioè uno strumento inerte di cui ci si serve per comunicare, ma un'attività organica, energia, che produce continuamente nuova realtà storica. Esso ha origine nella dimensione spirituale dell’uomo dunque presenta delle strutture costanti in ogni popolo, strutture strettamente connesse al pensiero.

Nel linguaggio l’uomo fa continuamente esperienza della sua finitezza, perché il linguaggio non possiede mai completamente il suo oggetto, esso è segnato da un’assenza radicale che chiama l’uomo a interpretarla indefinitamente. Ma la finitezza non si definisce come qualche cosa che ci imprigiona, ma come ciò che ci rende aperti al mistero dell’alterità, che ci rende finiti e che ci tiene “in colloquio”, perché ogni nostra acquisizione non è mai definitiva. Il linguaggio come segno rimanda, infatti, ad una dimensione più originaria, che nulla ha a che fare con la referenza extralinguistica e il cui carattere non metafisico è dato dal suo accadere, dal suo essere ‘evento’, e di essere custodita nelle parole attraverso cui viene interpretata. Il fare esperienza del linguaggio si profilerà come un percorso verso l’originario, in cui viene abbandonata ogni tendenza trascendentalistica e la verità, pensata nel suo legame costitutivo col linguaggio, mostra sempre più a fondo il tratto della contingenza e della caducità. Il che significa che non si può mai raggiungere una risposta e una visione definitiva e totale, in quanto di volta in volta si occupa

125 Ogni tradizione, ogni linguaggio determinato, contrae un debito con quel “Dire originario”, su cui

si fonda ogni nostro parlare: ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario in quanto mostrare. Nell’evento linguistico dell’accadere della verità, vengono evidenziati i caratteri che sottolineano la ‘differenza ontica’ che il dire dei mortali ha con quel dire originario a partire dal quale si apre il movimento disvelativo che richiama a sé la parola dell’uomo destinata ad apparire come viandante in scenari storici-ermeneutici in una meta, che se pur delineata, resta sempre di là da venire.

soltanto un luogo limitato e circoscritto nella storia della verità, in cui l’essere si mostra, ma senza che mai si possa disporre completamente di esso. Il cammino verso

il linguaggio si configura, quindi, non tanto come il percorso a ritroso che il pensiero

deve compiere da ciò che più immediatamente intendiamo per linguaggio ad una riflessione più originaria, ma al contrario, e primariamente, come via che apre il movimento del Dire originario verso la parola umana.

Nella teorizzazione heideggeriane, il linguaggio è strutturato in modo tale da poter andare tanto verso la sua autenticità e, quindi, verso una riappropriamento di se stesso, che coincide con un non occultamento della sua infondatezza, quanto verso la sua inautenticità. Ne deriva evidentemente la possibilità di un linguaggio inautentico e di un linguaggio autentico, dove il primo è colto nella sua funzione strumentale di comunicazione informativa, mentre il secondo è volto a lasciare intravedere il senso dell’essere. Questa ultima forma di linguaggio è, come è noto, il linguaggio poetico o, meglio, poetico, nella misura in cui esso è un produrre caratterizzato da una costitutiva creatività. Tra l'uomo e il linguaggio si viene a creare un rapporto ‘circolare’, per il quale, se da una parte è l’uomo a produrre linguaggio, dall'altra l’uomo è posto nel linguaggio che lo parla: “il linguaggio parla” ovvero esso sembra essere il vero soggetto capace di suggerire all’uomo il rapporto da instaurare col mondo.