al vissuto incorporeo
13. LA VIRTUO-COMPLESSITA’
13.2. Il virtuale ha assorbito il reale
Le tecnologie della comunicazione, dice Baudrillard, ci stanno immergendo attraverso la finzione, cioè attraverso l’artificio tecnico, in un mondo in cui la realtà e i suoi simulacri non sono più facilmente distinguibili. Capaci di fascinazione, dovuta ad una seduzione interamente artificiale, ad un’erotizzazione ludica, i mezzi di comunicazione impediscono ogni mediazione, rendendo impossibile ogni processo di scambio: “proprio in questo consiste la loro vera astrazione su cui si basa il sistema di controllo sociale e di potere”453.
Se con il progresso tecnologico potremmo anche arrivare a riprodurre o duplicare organismi umani, fino alla loro clonazione, la realtà virtuale è invece già una realtà a tutti gli effetti, anzi un mercato perché, oltre che per fini scientifici, è usata anche per scopi di intrattenimento ludico. Qui siamo ancora sul piano della simulazione che sostituisce la duplicazione del mondo: “non si può duplicare il mondo in quanto tale, ma lo si può duplicare duplicandone la percezione”454.
In generale si può dire che del ‘mondo’ si può dare solo un doppio virtuale. Il problema è che il carattere della virtualità generata dal computer è molto diverso dalle altre forme di copia, imitazione, duplicazione realizzate precedentemente dall’uomo. La novità sta nella possibilità, scrive Monadi, di “affiancare, sovrapporre,
453 Baudrillard individua nella scalata tecnologica e nell’aumento della sua sofisticazione in
dimensione mondiale come nell’intimità domestica, l’avanzare di un sistema di controllo che si esalta nel nostro “immaginario comunicativo”: la compulsione generale a essere presenti su tutti gli schermi e al centro di tutti i programmi. In definitiva, i media e le nuove tecnologie sono, per Baudrillard, gli artefici del “delitto perfetto”, della morte della realtà e dello sterminio delle illusioni. Il delitto consiste proprio nella perfezione di questo ipotetico modello ideale che si vuole sostituire alla realtà e al contempo all'illusione.
confondere, lo stare al mondo con la possibilità operativa di entrare e stare in un altro mondo né trascendente né fantastico ma qualche modo anche esso reale La realtà virtuale potrebbe anche essere definita virtualità reale ma non è caso che il suo nome sia il primo e non il secondo: il peso maggiore sta dalla parte della realtà che funge così da sostantivo”455 .
Educati come siamo dalla scienza, oggi ciascuno di noi non fa alcuna fatica a rinunciare alla propria esperienza e a svalutare il proprio punto di vista sul mondo, per adottare il punto di vista esatto della scienza-tecnologia sul mondo. Rinunciamo così a vedere le cose da una prospettiva di vissuto concreto, che viene sostituito da un ‘virtuo-vissuto’ di una ‘virtuo-complessità’, risolvendoci, così, a vederle scientificamente “da nessuna prospettiva, o, come dice Leibniz, ‘dal geometrale di tutte le prospettive’. Rinunciamo a vederle in un tempo, perché preferiamo vederle scientificamente da nessun tempo”456. Le cose non esistono e si collocano rispetto
all’interazione tra noi e il corpo, ma le deduciamo da un rapporto tra oggetti. Lo stesso nostro corpo non è più il nostro punto di vista sul mondo, ma un oggetto di questo mondo.
La virtualizzazione della realtà come duplicazione percettiva presuppone che uno stimolo che si basa sul “principio di verosimiglianza” è sufficiente per rendere realistica la ‘risposta’ del mondo percepito all’azione del soggetto, ossia un sistema di interazione multimediale è sufficiente per una ricostruzione percettivo-motoria a livello cerebrale. Ciò è stato messo in discussione da recenti studi di neuroimmagine. Questi studi hanno mostrato come il nostro cervello reagisce in due situazioni differenti: quando osserviamo una mano che afferra oggetti reali, e quando, invece, le stesse azioni sono viste attraverso una realtà virtuale457. Questo significa che
nonostante si sia creduto che la realtà virtuale possa essere usata come alternativa a quella reale, non esiste finora evidenza che il nostro cervello percepisca ed elabori allo stesso modo le due realtà. Questi risultati incrinano così il credo di una possibile equivalenza tra realtà reale e virtuale, e suggeriscono una più attenta valutazione della realtà virtuale, in particolare nel suo utilizzo applicativo. Dunque, contrariamente a quanto si era creduto, di una certa continuità epistemica tra le due esperienze, l’esperienza virtuale che non sia già stata precedentemente vissuta come esperienza concreta nel corpo non è fonte di conoscenza e va a costituire tutt’al più, un ammasso di comunicazione inquinante. Inoltre se la realtà virtuale tende alla sinestesia e al coinvolgimento del corpo organico, la comunicazione multimediale è strettamente visiva e auditiva e tende all'ipertrofia e all'esclusione del corpo, il quale di conseguenza non può più fungere da “cartina al tornasole” nell'orientamento e nell’intuizione. Questo produce una sorta di ‘inquinamento percettivo’ dove tutto è creato per essere distrutto, dove ogni stimolo ricade su se stesso rompendo i confini tra, vero e falso, bisogno e necessità.
455 ivi, p. 11.
456 U. Galimberti, 1999, op. cit., p. 114.
457 L’esperimento con la PET (Positron Emission Tomography) ha dimostrato al contrario che
esistono importanti differenze: le regioni del cervello che sottendono le rappresentazioni delle azioni, nell’emisfero destro e nel lobo parietale, si accendono solo quando si osservano movimenti della mano vera su oggetti reali. La ricerca, risultato della collaborazione tra l’Istituto di neuroscienze e bioimmagini del CNR, l’Università Vita-Salute San Raffaele e l’Università Milano-Bicocca, si è valsa della metodica PET, che consente di valutare l’attività cerebrale di una persona. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “NeuroImage”, Elsevier, London, 2001, 14, pp. 749-758.
Tuttavia, non possiamo non tener presente che l’uomo stesso genera, grazie all’apprendimento, processi interni virtualizzanti l’esperienza o l’azione diretta. Gli studi di neurofisiologia mostrano come, comunque, il problema sia più complesso; infatti, afferma Damasio, affinché “una particolare immagine accenda il dispositivo di vissuto emotivo, è stato necessario che prima quel processo si svolgesse nel teatro del corpo, che, per così dire, si vedesse il circuito nel corpo”458. Così, ad esempio, le emozioni e sentimenti possono essere evocati indirettamente, in quanto il cervello impara a costruire un’immagine, anche se più debole, di uno stato emotivo senza doverla vivere nel corpo in quel momento: vi sono infatti, dispositivi neurali che ci aiutano a sentirci come se stessimo provando uno stato emotivo e ci consentono di aggirare il corpo, cioè rievochiamo una qualche apparenza di un sentimento. Tuttavia dice Damasio: “dubito però che tali sentimenti si avvertono allo stesso modo dei sentimenti coniati di fresco in un vero stato corporeo”. I dispositivi “come se” sarebbero stati sviluppati mentre crescevamo e ci adattavano all'ambiente; l’associazione tra una certa immagine mentale e il surrogato di uno stato corporeo sarebbe stata acquisita attraverso ripetute associazioni delle immagini di entità o situazioni date con le immagini di stati corporee appena rappresentati. A differenza dell’ambiente, la cui composizione di sicuro cambia, e a differenza delle immagine che costruiamo di tale ambiente, frammentarie e condizionate da circostanze esterne, il sentimento di fondo riguarda perlopiù gli stati corporei.
Un altro caso interessante sono, ad esempio, i cosiddetti ‘neuroni specchio’ dell’area premotoria. Essi sono stati chiamati ‘neuroni specchio’ perché si attivano tanto quando l’animale sta compiendo in prima persona una data azione elementare, quale afferrare un oggetto, quanto nel momento in cui vede la medesima azione compiuta da un altro. Sembra cioè che un determinato neurone sia in grado di riconoscere una particolare azione in astratto, sia che venga compiuta dal soggetto stesso che da altri. Il comportamento di questa particolare classe di neuroni potrebbe quindi rivelarsi d’importanza fondamentale per la percezione del “sé in azione” riflesso nelle azioni dell’altro. Questi neuroni, che stabiliscono una sorta di ponte tra l’osservatore e l’attore, sono attivi anche nella nostra specie e sono quindi al centro di comportamenti di mimesi, imitativi, che giocano un ruolo fondamentale nell'intelligenza linguistica459. D’altra parte, vedere il sé nell’altro è anche il primo passo per lo sviluppo della facoltà di vedere l’altro in sé che è alla base dell’empatia, cioè della capacità di immedesimarsi nell’altro e quindi di prevederne e magari prevenirne le mosse, e di quella che oggi si chiama teoria della mente.
La possibilità di creare, all’interno delle attuali tecnologie, dimensioni esperenziali, in una visione di virtuo-complessità, che prescindono il corpo, permette di dar vita a identità fluide. La tecnologia ha aumentato le relazioni interpersonali con conseguente ampliamento del sé attraverso l’inclusione dell’altro. La comunicazione incorporea attualizzata nella scelta di un personaggio, il cui ruolo deve essere recitato, dà forma a identità differenti, a frammentazioni del sé, ad una sua distribuzione nei vari ‘non luoghi’ telematici a partire dal ‘come sé’, o del ‘facciamo finta che’ , prassi che nella Rete diventano modalità condivise. Il rischio è quello di un sé saturo, ossia di un io sommerso da un eccesso di incontri interpersonali che crea dilemmi di identità creati da una abilità basata e
458 Cfr A. Damasio, 1995, op. cit., p. 223.
459 È noto che anche negli esseri umani l’osservazione dei movimenti di un altro essere umano
sull'interazione molteplice pluridimensionale, con il rischio della possibile perdita di un senso di appartenenza. Il corpo che, come abbiamo visto, finora era stato la prova tangibile dell’identità personale, nella Rete non è più importante, anche se proprio questa assenza della corporeità sottolinea l'importanza che essa assume nelle interazioni dette ‘faccia a faccia’.
Le nuove frontiere tecnologiche muovono, quindi, da una intrinseca e insuperabile contraddizione: infatti, mentre esse, da una parte, si sviluppano nella prospettiva di coniugare mente, corpo e tecnologia e di superare definitivamente l’idea di una mente ‘disincorporata’, indipendente e autosufficiente dal corpo, dall’altra non possono rinunciare al loro carattere di ‘riduzione della realtà’. Così, mentre le nuove tecnologie si caratterizzano come realizzazione di una riduzione e prossimità degli strumenti, attraverso cui vengono affievoliti i confini tra il medium e il corpo di chi li utilizza, -anzi, in una ipotesi, che sembra sempre meno improbabile, un giorno tra queste apparecchiature e l’uomo potrebbe non esserci più nessuna distinzione-; dall’altra, questo avvicinamento sempre più fisico al ‘medium-oggetto’ avviene però a scapito della ‘capacità di sentire’ legata all'ormai declassato corpo organico, come se quest’ultimo dipendesse dall’inorganico: “l’alleanza tra i sensi e le cose consente l’accesso a una sessualità neutra, che implica una sospensione del sentire: questa non è l’annullamento della sensibilità, che implicherebbe la caduta di ogni tensione, ma l'ingresso di una esperienza spostata, decentrata, liberata dall'intento di raggiungere uno scopo”460. In pratica, nell’ottica in cui la finzione ha sostituito la realtà, l’uomo -trascesa la dimensione di natura, di bios- trova, come affermava Bergson, una supposta onnipotenza nella stretta comunione con l’inorganico, ovvero con la macchina-computer creatrice. In questa nuova dimensione postorganica, il corpo è sottoposto ad una mutazione che ne investe la sacralità e che arriva a distruggere l’idea di pelle come luogo di contatto/separazione tra sé e il mondo. Pelle e cervello, che non a caso sono costituiti da un comune tessuto organico, sono contemporaneamente il limite, ma anche il punto di scambio d’informazione e su tale limite noi fondiamo al nostra capacità di “rappresentazione fondata sulla differenziazione tra la propria soggettività e l’oggettività del mondo”461. La duplicazione virtuale dello spazio e la duplicazione reale dell'individuo ruotano intorno al soggetto umano e inducono a riflettere su una porzione dei cambiamenti che riguardano la soggettività, il mondo sociale in generale e la natura. Creare un doppio del mondo significa allora che “per il singolo, almeno come possibilità teorica, i due fattori primari nella sua individualità biologica, nascere e essere situato nel mondo, possono essere o raddoppiati o de-situati è con ciò modificati profondamente”462.
La proliferazione di mondi virtuali, relativizzando per via tecnologica la tesi del mondo e il suo carico di implicazione, potrebbe avviarci non alla sospensione e all’oscillazione tipiche delle esperienze primarie, “ma a una sorta di cattivo infinito. La versione più radicale e rigenerante della ‘meraviglia’ filosofica e non, potrebbe essere sempre più sostituita da un stupefacente tecnologica stupefazione, tanto mirabolante quanto sedativa e in fondo chiusa”463. Il reale viene così annientato e
460 M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p. 4.
461 Cfr. M. Groppo, M.C. Locatelli, Mente e cultura: Tecnologie della comunicazione e processi
educativi, Raffaello Cortina, Milano 1996.
462 M. Monaldi , op.cit., p.14. 463 ivi, p. 15
con esso il giudizio morale. L’uomo disorientato cade in un pastiche percettivo dove l’affollamento sensoriale e la caduta del senso non sembra portare alla necessità di utilizzare l’ultimo parametro di giudizio possibile: il corpo, ritenuto ormai inferiore, insufficiente o, addirittura, non necessario. La tecnica tende, infatti, ad “oggettivarlo sempre più e a mostrarne la trasparenza: anche qui la situazione è ambigua nuove possibilità si intrecciano ad usi strumentali, ma intanto il corpo respira si apre e si chiude continuamente e non può rinunciare al suo ritmo vitale”464.
13.3. Cyberantropologia
La possibilità di una compenetrazione, di una vera e propria simbiosi, per quanto conflittuale e drammatica, fra uomo e macchina, si realizza oggi grazie alla presenza di tecnologie molto duttili e flessibili quali appunto le tecnologie digitali e informatiche.
Nella cyberantropologia, le alternative sembrano essere due: i bioputer (computer in grado di varcare la soglia della coscienza di sé) oppure la “possibilità di innestare dentro i nostri corpi e, ancor più, all’interno del codice genetico, degli elementi artificiali, in grado di potenziare la percezione, la memoria, l’insieme delle risposte immediate e di lungo periodo alla complessità dell’ambiente in cui viviamo”465. La seconda prospettiva è, secondo Biuso, più praticabile; anche perché la prima alternativa non riesce a considerare, se non minimamente, l’aspetto bio-
ambientale da cui l’intelligenza umana invece non riesce a prescindere. Il concetto di
informazione nella cibernetica ha portato all’idea del vivente come un organismo di elaborazione e distribuzione dell'informazione. L’ulteriore momento di assimilazione del corpo al linguaggio della macchina è stata la diffusione capillare delle tecnologia informatica nella società attraverso il computer. Il corpo che costituisce il nostro principale momento di comunicazione con l’esterno, la nostra interfaccia con il mondo, viene direttamente integrato nel processo di valorizzazione capitalistica e si integra anche grazie alla tecnologia in modo più persuasivo che in passato.
Se nel campo dell’Intelligenza Artificiale vi possono essere delle risorse anche rilevanti466, al contrario, i suoi limiti sono insormontabili: l’inoltrepassabilità di ostacoli come il linguaggio, le emozioni e il corpo, che costituiscono un tutt’uno nell’umano, rende impossibile che una macchina possa diventare “una struttura che intesse di sé ogni processo intenzionale, ogni fenomeno qualitativo della vita, ogni comprensione della realtà che fa scaturire il mondo dalla mente e in essa, quindi, gli dà senso”467; ossia un’entità ascrivibile alla dimensione umana.
Dunque, scrive Biuso, il vero progetto di ibridazione si realizzerà nella direzione nella quale non saranno “le macchine a diventare intelligenti ma sarà il
nostro corpo ad assumere al proprio interno la potenza percettiva e computazionale delle macchine”468. La mutazione tecnologica, cioè, aspira a mostrarsi in forma
collaborativa, simbiotica e non distruttiva, in maniera duratura stabile e non
464 ivi, p. 16.
465 A. Biuso, Cyborgsofia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, p. 33.
466 Ad esempio la “multidisciplinarità che apre ogni luogo della conoscenza a una serie di interazioni
potenzialmente infinite con ogni altro, creando uno spazio di conoscenza senza confini troppo rigidi e artificiosi” ovvero il cyperspazio. ivi, p. 39.
467 ivi, p. 44. 468 ivi, p. 48.
istantanea; questo porta a interrogarci sulla definizione identitaria dell’umano, quando è posto a confronto con l’artificiale. Tradizionalmente è nell’intelligenza intesa come autocoscienza, come “facoltà di apprendimento rispetto al vissuto”, che la nostra specie si caratterizza come umana. Ma nella sua riflessione Biuso ritiene che il concetto di ‘umano’ sia sempre in evoluzione, e seguendo le sollecitazioni di studiosi come Lorenz, Eibl-Eibesfeldt e Gehlen, egli avanza la possibilità di transitare dalla forma biologica ad una nuova forma computazionale dell’umano, conseguenza necessaria “della ricchezza dell’essere rispetto agli schemi nei quali cerchiamo di rinchiuderlo”. All’orizzonte si profilano indubbiamente nuovi esperimenti di umanità e di ‘post-umanità’, in cui individui geneticamente modificati, pluritrapiantati, forniti di protesi che ne potenzieranno le funzioni e le prestazioni naturali, romperanno le barriere che separano la materia vivente dall’artificiale e diventeranno un amalgama di organico e inorganico e supereranno le frontiere mentali perfino. In questa ‘prospettiva post-umana’ “è sull’antropologia, quindi, che bisogna fondare la comprensione delle macchine, sulla conoscenza dell’ente nel quale natura, razionalità e tecnica si raggrumano e diventano storia”469. Il filosofo ribadisce ancora la difficoltà che la cultura, da quella greco-cristiana in poi, ha intessuto con il corpo che, anche nell’era post-moderna, in cui il corpo sembra aver assunto nuova centralità, continua a riferirsi ad un corpo-oggetto, visto e non sentito; di qui egli evidenzia efficacemente che “il limite di fondo di una parte consistente della cybercultura sta proprio nell’ignorare il tempo e la corporeità, come se l’homo sapiens potesse trasformarsi in homo cyber lasciando dietro di sé il corpo, giudicato […] un oggetto a noi esterno”470.