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Se si riflette sul rapporto fra pensiero e linguaggio inteso nella sua generalità, da un lato siamo disposti ad ammettere che diverse specie animali, anche se non parlano alcuna lingua, sono nondimeno in grado di avere pensieri, pur se in forma semplificata; dall'altro, seguendo le argomentazioni filosofiche e linguistiche, siamo costretti a riconoscere che il pensiero vada associato a una forma di manifestabilità, e che, quindi, non è possibile avere pensieri se non si è padroni di un qualche linguaggio. Saussure, ad esempio, scrive che il pensiero, senza una sua espressione in parole, non è che una massa amorfa e indistinta, una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato, per cui senza l'apparizione della lingua sarebbe impossibile distinguere due idee in modo chiaro e costante.

Questa è una posizione assai radicale. Infatti, se in assenza di una lingua non siamo in grado di operare alcuna distinzione di idee, ciò significa non tanto che il

94 ivi, p. 222. 95 Ivi, p. 225

pensiero senza la lingua è una nebulosa, ma che esso non esiste, perché una generale facoltà di linguaggio che non sia in grado di offrire idee distinte non è definibile ‘pensiero’. La tesi di Saussure che non si diano pensieri al di fuori del linguaggio, è sostenuta in vario modo anche da alcuni autori di impostazione analitica, che “sulla scorta delle indicazioni di Frege, ritengono che i pensieri sono ciò che ci viene comunicato tramite il senso degli enunciati, sono ciò che afferriamo e che appartiene al ‘terzo regno’, ossia a un dominio di entità astratte indipendenti dalle realizzazioni dei singoli parlanti”96.

In realtà, gli studi sui bambini piccoli e comportamento degli animali superiori, contraddicono tale posizione, mostrando l’esistenza di forme prelinguistiche e non linguistiche del pensiero, i quali dimostrerebbe che pensiero e linguaggio sono parzialmente autonomi e godono ciascuno di proprietà e caratteristiche proprie97. Tale ipotesi è ispirata ad una teoria naturalista della mente, che rintraccia in strutture e funzioni biologiche gli aspetti rilevanti dell’attività cognitiva, per cui le condizioni di possibilità per lo sviluppo, onto e filo-genetico, del linguaggio si costituiscono nell’interazione percettiva dell’organismo ancora non linguistico con il mondo esterno. Tuttavia, come si è visto nel capitolo precedente, la percezione si modella anche in base a schemi forniti dalla cultura mediati dal linguaggio. Per l’acquisizione di queste nozioni è necessario “che il bambino prelinguistico venga inserito in uno schema d’azione in cui un adulto interagisce con il bambino

attribuendo a suoi movimenti ancora irriflessi un valore intenzionale”98.

L’attacco all'idea che gli animali possano avere pensieri passa attraverso la negazione che essi possano avere stati intenzionali di un qualche genere, dato che questi stati sono quelli che più di altri veicolano il pensiero. La visione classica della comunicazione, prevede che due persone che comunicano oltre ad avere in comune un codice abbiano anche un patrimonio condiviso di credenze e conoscenze sulla base delle quali si scambino nuove informazioni e conoscenze Attraverso l'analisi di particolari forme di comportamento, si è potuto, invece, concludere che gli animali sono dotati di forme di pensiero perché molte scimmie sono in grado di esibire comportamenti intenzionali, e questi sono guidati da stati di pensiero. Questo mostra che sono possibili pensieri in assenza di una lingua.

A partire da ciò è possibile domandarsi: primo, se e quanto il linguaggio e le lingue modifichino la generale capacità di pensiero; secondo se la posizione continuista, relativamente al problema dell'origine del linguaggio, riceva da questi studi una qualche forma di sostegno. Quanto al primo punto possiamo ammettere che le specie che possiedono una varietà comportamentale notevole, forse determinata dalla socialità, hanno la capacità di esibire comportamenti intenzionali articolati che forse assumono un ruolo di rilievo nel consentire a un animale di apprendere linguaggi artificiali e risolvere situazioni difficili. Una volta appresi questi linguaggi artificiali, alcuni di questi animali possono essere addestrati a risolvere compiti ancora più ardui e ciò potrebbe dare una misura del modo in cui il linguaggio aiuta nello sviluppo del pensiero.

96 S. Gozzano, in ivi, p. 28.

97 Le teorie comportamentiste riportavano tali elementi intellettivi a schemi d'azione, pur

riconoscendoli come schemi di elevata articolatezza; anzi, il comportamentismo era portato a ritenere che anche il linguaggio umano potesse esser ricondotto a una forma complessa di comportamento, questo di natura verbale.

Al tempo stesso, questo discorso offre spunti per avanzare ipotesi circa l'origine del linguaggio umano e delle lingue. Nell’ambito dei linguaggi animali, abbiamo dei casi in cui alcuni esseri comunicano in termini semantici di riferimento e, secondo i casi, di inganno, di verità. Essi inoltre, come risulta dagli esperimenti, sono in grado di distinguere i ruoli tematici di agente, azione, oggetto, e quindi hanno la potenzialità per sviluppare questi ruoli nelle loro interazioni. Quello che manca, stando alle interpretazioni più rigorose, è una qualche forma di sintassi. Questa è stata il grande passo in avanti della nostra specie: il pensiero, possiamo ipotizzare, c’era già.

Riguardo al rapporto tra lingua usata da una popolazione e la sua concezione del mondo, le posizioni degli studiosi oscillano tra due punti estremi che si possono così sintetizzare: il linguaggio è un prodotto delle condizioni pratiche di un gruppo umano e, come tale esprime registra quelle condizioni di base e le sue possibili variazioni; l'altra posizione afferma, invece, che il linguaggio è portatore di una concezione del mondo che determina le abitudini mentali di comportamento dei parlanti, cioè il mondo è visto come proiezione grammaticale. Con l’Illuminismo si apre la via alla natura linguistica del pensiero: la tesi del linguaggio come condizione del pensiero, si radicalizza, poi, in età romantica pervenendo ad una forma di relativismo linguistico.

L'espressione, relativismo linguistico, comporta l'idea secondo la quale ogni lingua determina il pensiero dei suoi parlanti e la loro concezione del mondo, ossia si comincia ad assegnare alle lingue il ruolo di forme in cui la realtà si oggettiva, trasformandosi in patrimonio collettivo e pensiero individuale. Le lingue, a loro volta, condizionano non solo il pensiero in senso proprio, ma la totalità dell'esperienza di coloro che le parlano; si crea così una forma di determinismo etnicolinguistico che avrà ampi sviluppi del pensiero dell’800. Humboldt dirà che il linguaggio è l’organo formativo del pensiero; qui il linguaggio assurge a elemento trascendentale, condizione prima rispetto al pensiero, vi è, in qualche modo, una moltiplicazione degli ‘a priori’ per quante sono le lingue naturali. Scrive Humboldt, “nella formazione e nell’uso della lingua passa il modo della percezione soggettiva degli oggetti, per cui, la diversità delle lingue non è una diversità di suoni e di segni, ma delle stesse visioni del mondo”99. Il linguaggio permettendo una corrispondenza tra essere e rappresentazione si pone, secondo il filosofo, come mondo intermedio, in quanto né totalmente prodotto dall’impressione degli oggetti, né dall’arbitrio dei parlanti: il linguaggio si situa tra l’universo e l’uomo. Ciò significa che il rapporto con il mondo non avviene mai senza la mediazione culturale e linguistica. Nel pensiero di Humboldt, il linguaggio non è, come voleva Kant, strumento a disposizione del pensiero, mera “riproduzione semiotica di un’ideale rappresentazione indipendente dal linguaggio”, ma “organo costitutivo del pensiero” stesso; proprio in quanto generato dalla parola, il pensiero trova espressione attraverso essa.

Nel corso del ‘900 tale posizione si ritrova nell’ipotesi avanzata da Whorf- Sapir per la quale il pensiero prende forma dal linguaggio in cui viene formulato o espresso. Sapir ravvisando l’importanza che il linguaggio riveste per la comprensione delle diverse visioni del mondo, afferma che l’impressione che molti hanno di poter pensare, o addirittura ragionare, senza la lingua è una ‘illusione’

dovuta alla mancanza di distinzione fra immagine e pensiero. Non si può parlare di un modo neutrale di vedere il mondo, di un assorbimento passivo delle impressioni e di una loro interpretazione solo in una fase successiva. l’osservazione è un processo attivo, modellato dalle proprie attese teoriche, dalla propria cultura e grammatica: l’atto della visione si costituisce su un ‘vedere che’, che inserisce all’origine la dimensione linguistica e conoscitiva. Vedere non consiste solo nell’avere una esperienza visiva, ma dipende da ciò che sappiamo del mondo e dalle parole che usiamo per descriverlo. A tale proposito, Whorf scrive: “il sistema linguistico di fondo (in altre parole la grammatica) da forma alle idee, è il programma e la guida dell'attività mentale dell'individuo.[…] il mondo si presenta come un flusso caledoiscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere organizzato anche in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti. Selezioniamo la natura, la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato nelle configurazioni della nostra lingua”100.

Il limite di questa visione è nel definire il linguaggio come qualcosa di astorico, solo in tal modo, difatti, si potrebbe ritenere che la storia è fatta dal linguaggio. Ciò esclude una visione del linguaggio come evento storico, come risultato di una complessa trama di eventi in cui la radice originaria va ricercata nei modi possibili in cui si realizza il rapporto uomo-mondo “esiste un numero teoricamente infinito di modi secondo i quali ci possiamo mettere in rapporto col mondo, ma di volta in volta uno solo di questi si realizza di fatto nella nostra vita individuale”101. Inoltre, l'a posizione di Whorf-Sapir, e in genere dell'antropologia sociale, può facilmente scaturire in forme di idealismo, per il quale il linguaggio ha la facoltà di suscitare il mondo. La linguistica idealistica, ha insistito sulla costitutiva e originaria creatività della lingua, in quanto attraverso il linguaggio, si comincia a costituire un universo concettuale articolato, non più soltanto dotato di ‘significato’ e ‘senso’ ma provvisto, anche, di un ‘sistema di valori’. Tale posizione è fortemente criticata dagli studiosi di orientamento marxista, per i quali il potere del linguaggio di costituire una determinata Weltanschauung dei parlanti una determinata lingua, è direttamente proporzionale a quanto questi abbiano “un rapporto di sudditanza acritica con il loro linguaggio, e quanto più esso con le sue istituzioni rappresenta l'unico strumento linguistico posseduto. Ma tutto ciò non esclude affatto che il linguaggio abbia una sua origine dialettica, sia innestato cioè in un contesto dialogico uomo-natura”102. Il dialogo uomo-natura, da cui il mondo-cultura è emerso, non si interrompe col sorgere della parola, semplicemente si istituzionalizza, si cristallizza, diviene cultura. Il linguaggio come processo è colto, invece, da Vygotskij, il quale affermava che non può esistere elaborazione concettuale senza linguaggio e non può esistere linguaggio senza un'intensa attività di pensiero, in quanto “il significato della parola dal punto di vista psicologico [...] non è altro che una generalizzazione o un concetto. Generalizzazione e significato della parola sono sinonimi. Ogni generalizzazione, ogni formazione di un concetto è l'atto di pensiero più specifico, più originale, più

100 B.L. Whorf , Linguaggio pensiero e realtà, Boringhieri, Torino 1970, p. 169, in B. Lorè, op. cit.,

1998, p. 88.

101 ivi, pp. 90-91. 102 ivi, pp. 91-92.

sicuro”103. Ossia, consideriamo il significato della parola nella misura in cui “il pensiero è legato alla parola e incarnato nella parola e viceversa è un fenomeno del linguaggio nella misura in cui il linguaggio è legato al pensiero e ne è illuminato”104 Ma il frutto di questa attività intellettuale non è mai del tutto maturo, non è mai un risultato definitivo. Proprio in virtù di questo gioco di sponda tra analisi e sintesi, tra percezione e generalizzazione, il significato è un processo in continua evoluzione, cioè, i significati delle parole sono formazioni dinamiche che mutano con lo sviluppo individuale e con le varie modalità di funzionamento del pensiero105.

Le teorie cognitive, pur non negando le interazioni tra linguaggio pensiero, contestano che la forma linguistica sia la forma primaria o esclusiva dell'organizzazione del pensiero. Gli studi più recenti hanno spostato l'attenzione proprio sui processi mentali sottostanti al comportamento linguistico. Nei recenti studi sull’Intelligenza Artificiale, “pensiero e linguaggio sono mostrati come due aspetti che emergono dall’interazione tra processi di apprendimento omogenei e numerosi processi decisionali semplici e simultanei”106. Questo, pur non

comportando una coincidenza tra pensiero e linguaggio, sembra, comunque, voler dire che una volta che il linguaggio entra onto e filogeneticamente a far parte del bagaglio di strumenti cognitivi di un essere vivente, condiziona a tal punto la strutturazione della sua ‘mente’ che diventa difficile stabilire una separazione netta tra il linguaggio e il pensiero.

Ma, come si formano i pensieri e i significati? Per rispondere, seguendo Merleau-Ponty occorre indagare il pensiero e la sua stretta correlazione con il linguaggio in un luogo aldiquà dell’espressione linguistica: nel gesto, in cui il linguaggio si fa atto, corpo, azione. Il corpo acquista, nel pensiero di questo filosofo, una centralità determinante anche nella riflessione metalinguistica, acquisendo tra l’altro una valenza simbolica nei confronti del mondo: “Sotto il brusio delle parole sono già all’opera una preliminare rivelazione del senso e una primordiale comunicazione, all’interno di rapporti costitutivi e di originarie pratiche di commercio col mondo”. Il linguaggio più naturale, più completo, più espressivo, più profondo non è quello verbale, ma quello gestuale. La profondità di un linguaggio sta nell'esperienza che esprime. In altre parole, il gesto implica sempre il venire incontro di un mondo dischiuso e della collettività, senza i quali sarebbe impossibile ogni relazione linguistica e gestuale, nonché ogni contesto emozionale. Nel linguaggio trova espressione la reazione dell’uomo di fronte al mondo, questa reazione è il primo nucleo psichico, in quanto la psiche si va costituendo nel nostro interagire con il mondo da cui costruiamo la nostra visione del mondo, non solo come individui, ma come collettività di una cultura, di un popolo.

103 L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 325.

104 Ibidem. Vygotskij, pur postulando un inscindibile rapporto tra pensiero e linguaggio. vede, tuttavia, lo sviluppo dell'un dell'altro come due processi indipendenti dal punto di vista genetico.

105 Per illustrare la relazione dinamica tra pensiero, parola e significato è importante distinguere il

linguaggio interno, rivolto a sé stessi, dal linguaggio esterno, quello normalmente chiamato ‘lingua’, che serve a metterci in contatto con i nostri simili. In effetti, i due tipi di linguaggio -data la differenza funzionale- hanno una struttura diversa, sono due versi di uno stesso tipo di traduzione: il linguaggio esterno è la traduzione di pensieri in parole, mentre il linguaggio interno, secondo Vygotskij, è la traduzione delle parole in pensiero. Con l'evoluzione successiva degli studi, è ora concepibile l'ipotesi di un linguaggio interno a prescindere dalla traduzione verso il linguaggio verbale - un linguaggio tra sé e sé che non fa uso di parole ma solo di unità di senso mentali