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Il rapporto tra linguaggio e realtà apre a problematiche di natura ontologica e epistemologica. Il linguaggio nel suo denominare si riferisce sempre alla ‘cosa’ ipostatizzata, che diviene in tal modo esprimibile attraverso l’immobilità del concetto, dunque il linguaggio non ammette una concezione dinamica del reale. In tale contesto la parola si situa come riflesso del concetto, sua mera estrinsecazione dal valore puramente strumentale, perché semplicemente designativo. Il suo compito è quello di sottrarre il mondo al tempo sempre-trascorrente e porlo nel tempo della storia in cui si dispiega il mondo dell'uomo, che è il mondo/cosmo che ha avuto inizio nella parola, nella sua capacità ordinatrice e costrittiva. In Parmenide, la tendenza della parola a fermare il tempo-trascorrente, assume la rigidità assoluta dell'essere e si traduce in principio logico: “L'impossibilità a riprodurre il mondo e la necessità di dargli uno statuto, […] fanno sì che il moto appaia verificarsi nei confini della rigidità dell'essere”87. L'essere parmenideo assume, in sé il principio di non contraddizione. La via seguita dal filosofo per argomentare è quella del logos, perché solo il logos afferma l’essere e nega il non-essere -non a caso tutte le principali affermazione che si trovano nel poema non sono altro che meri corollari che scaturiscono necessariamente dalle premesse- i sensi, invece, potrebbero attestare il divenire, il movimento e, dunque, l'essere e insieme il non-essere.

Eraclito, al contrario, percepisce il carattere ambiguo della parola, in cui la funzione ordinatrice, nel tentativo di sottrarre le cose al fluire del tempo, si lega alla sua radicale insufficienza ad esprimere il moto del mondo. La profonda essenza del mondo non può, dunque, assolutamente essere esaurito dal linguaggio, che mostra così la sua limitatezza e insufficienza a rappresentare la realtà: citando J.L. Borges, potremo dire, che mentre “l’universo è fluido e mutevole, il linguaggio è rigido”; infatti il linguaggio, come abbiamo detto, è il primo strumento, che l’uomo utilizza per imprimere un ordine al mondo, creando il “mondo come rappresentazione”.

Il divenire, infatti, mette a rischio l’esistenza stessa dell’uomo, da cui l’esigenza linguistica mette al riparo. Come nota Lorè, la parola è un modo per fissare, cristallizzare ciò che intende nominare, ossia per fermare l’essere nel divenire . “Senza un riferimento preciso e costante nel tempo il nucleo significante e la capacità rappresentativa della parola non hanno senso, né ragion d'essere, e non esercitano funzione alcuna. Di qui 1'insanabile frattura che tiene separati e inconciliabili le due realtà, […]: il mondo della parole non è il mondo dei sensi.

La filosofia greca, che costituisce l’origine della cultura occidentale, si pone la questione di quale sia la relazione fra mondo e linguaggio, ma al divenire eracliteo viene ad opporsi l’essere pamenideo in cui l’Essere esclude il Non-essere. Ancora, Lorè scrive: “la scelta parmenidea è tutta contenuta entro il dominio della lingua: la realtà vera è quella testimoniata dalla lingua, precisamente dall'essere, osservato ed esaminato come un puro reperto morfologico e grammaticale sottratto del tutto al mondo empirico percepibile con i sensi, che viene invece ridotto a semplice apparenza. In tal modo viene risolto il polemos eracliteo con una riduzione del reale sensoriale e col trionfo della lingua-ragione, che introduce alla metafisica. Eraclito scorge l’insufficienza del linguaggio perché non sa dimenticare il mondo; Parmenide sprofonda nell'artificio linguistico perché dimentica il mondo e crea, in tal modo, il mondo della lingua”88.

87 B. Lorè, 1998, op.cit., p. 98. 88 B. Lorè, op. cit., 2002, pp. 47-48.

Sul logos è fondata maieutica socratica, secondo la quale attraverso la tecnica del dialogo e della dialettica, si perviene a quella verità oggettiva che l'anima cerca. In realtà, l'essere è infinitamente più complesso del linguaggio, dunque, se è vero che nel linguaggio si manifesta l'essere, è anche vero che l'essere non coincide completamente col linguaggio. Nel pensiero orientale l’impossibilità della parola di porre la domanda sul mondo è evidente nelle tecniche praticate da maestri zen, che vogliono rimuovere la corazza di certezze che riempiono e paralizzano la mente dell'allievo. La differenza tra la maieutica socratica e quella zen è infatti profonda: “mentre la tecnica dialogica di Socrate è ancora tutta interna all'orizzonte delle procedure discorsive e delle regole dell'argomentazione logica, le tecniche praticate da maestri zen tendono spesso ad andare oltre questo orizzonte, ad uscire dalla parola, fornendo risposte che non sono costituite da una o più parole dotate di senso, e nemmeno, addirittura da parole in senso stretto. Spesso infatti l'ultima risposta sul

mondo è costituita da un'esclamazione, da un urlo o da un semplice gesto che segna

il punto di abbandono dell'orizzonte logico e linguistico” 89.

Nel linguaggio permane sempre, a prescindere dal soggetto, un'ambiguità di fondo, proprio perché la sua piena identificazione coll'essere è impossibile90. Denominare un oggetto determina il suo essere tratto fuori dal tempo e dunque dal reale; denominando qualcosa, difatti, noi le impediamo qualsiasi tipo di trasformazione, e sappiamo che le trasformazioni avvengono nel tempo. Inoltre denominare significa generalizzare un oggetto singolo, ma la realtà non è fatta di generalizzazioni. Ci troviamo di fronte a questa constatazione: la realtà è fatta di cose singole e in divenire, ma il linguaggio generalizza il singolo oggetto e mentre lo fa è costretto a trarlo fuori dal flusso del divenire, ossia lo cristallizza. Il linguaggio, insomma, non rispecchia il reale e ne dà un’immagine deformata. E, anche se il linguaggio possedesse i caratteri del dinamismo, cioè del divenire e del farsi delle cose, tuttavia non direbbe qualcosa in più rispetto all’oggetto (che continuerebbe a cambiare in continuazione) ma, se mai, solo rispetto all’indicante.

Locke riconosceva che le parole di una lingua sono sempre termini generali, cioè non si riferiscono a cose particolari, di cui indubbiamente è invece contraddistinta la realtà. Ma questo per il filosofo è effetto di ragione e necessità, perché senza nomi comuni, che facciano riferimento ad aspetti comuni, non ci sarebbe alcuna possibilità di comunicazione, non vi sarebbe, cioè, il linguaggio.

La riflessione sul rapporto tra linguaggio e realtà è riproposto con forza nella filosofia del ‘900, in particolare nell’ambito del neopositivismo e della filosofia analitica e nella loro successiva crisi. Wittgenstein affermava che “se il linguaggio deve rappresentare la realtà, se le proposizioni debbono rappresentare lo stato delle

89 G.G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte meditazione nelle culture d’oriente, Marsilio, Venezia

1995, p. 71. In un dialogo zen si legge di un monaco che chiede al suo maestro: “quando si raggiunge il punto in cui non lo si può più dire, che accadde?” Joshu disse: “ non lo si può dire”. Il monaco disse: “che cosa si deve dire allora? Joshu disse: è questo che non si può dire”.

90 Per Heidegger vi è, tuttavia, una dimensione autentica del linguaggio, in cui esso è esperito come

“la casa dell' essere”, il luogo dell' accadere della verità. I modi in cui il linguaggio parla sono molteplici: il pensiero è uno di questi, che per il filosofo è strettamente unito alla parola poetica . La parola poetica non ha nulla dell’evidenza oggettiva, la parola poetica ha il carattere dell’inessenzialità; in tal senso deve essere interpretato il verso “un è si dà là dove la parola vien meno”. La poesia esprime, raffigura la verità dell’orizzonte a cui apparteniamo, sul cui sfondo vanno a delinearsi le singole verità.. Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 73.

cose, allora, devono esserci cose in comune tra la proposizione e lo stato delle cose […] in questo senso la proposizione è come un quadro di un fatto possibile”91. In

pratica la struttura della realtà determina la struttura del linguaggio, cioè il significato delle proposizione è vincolato al fatto di rispecchiare la realtà; per cui il significato risiede nella struttura che è in grado di descrivere il posto in cui le cose del mondo si pongono. Per i neopositivisti era possibile pervenire ad una mappa della realtà costruendo un linguaggio perfetto, riproponendo in qualche modo il problema baconiano della necessità di un linguaggio rigoroso e coerente depurato da ogni fraintendimento metafisico.

Nelle problematiche più attuali il linguaggio viene visto come una sorta di momento di congiunzione tra Io e Mondo e tale momento di congiunzione non si limita a determinare un ‘incontro’ tra un ‘Io e Mondo’ già dati ma ‘io’e mondo si costituiscono reciprocamente come due polarità concrescenti grazie al loro rapporto e tale rapporto è reso possibile grazie alla mediazione del linguaggio. il linguaggio si realizza attraverso le ‘polarità’ che pone, risultando trascendentale nei confronti di esse.

Una tale funzione trascendentale del linguaggio, è colta da Cassirer, per il quale l’uomo produce simboli per natura e attraverso l'attività simbolica plasma il molteplice sensibile, costituendo sé stesso e il mondo. Anche per Heidegger, è soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo: il mondo che noi ‘vediamo’ è quello di cui abbiamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. In pratica, ogni esperienza che il singolo fa del mondo è resa possibile dal suo disporre del linguaggio. È soprattutto in quanto sede, o luogo di attuarsi concreto, dell'ethos comune di una determinata società storica che il linguaggio funge da mediazione totale dell'esperienza del mondo.

In questa visione antimetafisica del linguaggio, in cui la realtà viene colta come dinamica, incontro di forze tra loro interagenti, in cui la sostanza rappresenta l’ipostatizzazione di un momentaneo stato di equilibrio tra le forze, la parola diviene la reazione dell’uomo di fronte le cose, la risposta provocata nella sua interazione con il mondo, non più la designazione dell’oggetto. Scrive Leibiniz: “L’accordo dei suoni con gli affetti che la visione delle cose suscita è l’origine del linguaggio”92. L’uomo, come essere aperto al mondo in modo non codificato, ma flessibile e plastico, nel momento del suo incontro con il mondo esperisce un sentimento che è il riflesso dell’azione di oggetti esterni sull’animo. Per Leibiniz vi è un’analogia tra il suono, “punto germinale di tutti i linguaggi”, e tale sentimento, cioè il bisogno di rispondere emotivamente alla presenza dell’oggetto. Dunque, le parole, per Leibiniz, non ci riferiscono l’ordine naturale delle idee, ma la storia delle nostre scoperte condizionata dai nostri bisogni e interessi: “Siamo invece stati costretti a seguire l’ordine fornitoci dalle occasioni e dalle circostanze cui è soggetta la nostra specie, e questo ordine ci fornisce non già l’origine delle nozioni, ma, per così dire la storia

delle nostre scoperte”93. Il suono evocato nel momento dell’incontro con il mondo, è

“autoavvertito” dal soggetto e in tal modo diventa azione che influisce sul soggetto; “come azione esso può essere ripetuto a volontà e con questo liberato dal vincolo del

91 J. Searle, XV conversazione. Wittgenstein, in B. Magee, I grandi filosofi. Una introduzione alla

filosofia occidentale, Armando, Roma 1999, p.334.

92 U. Galimberti, op.cit., p. 218. 93 ivi, p. 219.

legame con il mondo. Vi è dunque il passaggio “dal suono-reazione (vincolato alla situazione nel mondo) al suono-azione (svincolato dalla situazione)”94. Se prima

erano gli oggetti, gli eventi a evocare il suono, adesso il suono si svincola dalla presenza del mondo e in tale autonomia si manifesta la particolarità del linguaggio umano che può esplicarsi indipendentemente dalla concreta presenza della ‘cosa’ a cui si riferisce. Nella risposta che proviene dall’altro, il bambino esperisce il valore comunicativo e strumentale della parola, cioè che, attraverso il suono, perviene allo stesso risultato a cui giunge maneggiando la cosa, dunque la parola può stare al posto della cosa. Essa diviene segno, sia delle cose fuori di noi, sia di quelle dentro di noi. Prima della funzione comunicativa il linguaggio svolge una funzione di esonero dall’immediatezza della situazione affettiva, e dall’immediatezza della manipolazione attiva.

Il segno linguistico svolge un’attività senza modificare di fatto le cose, successivamente il pensiero esonera dalle prestazioni linguistiche da cui dipende, svincolandosi dal carico semantico che le parole portano con sé, nonché dalle interferenze dovute alle passioni e ai sentimenti presenti nelle parole. Ambedue riproducono lo schema anticipante dell’azione, che in tal modo vive una libertà superiore in quanto svincolata dal rapporto concreto con le cose. In tal senso la teoria diviene sublimazione della prassi.

Oltre esonero dall’azione, il linguaggio diventa anche luogo in cui pulsioni e bisogni trovano un loro orientamento che nell’uomo non è organizzato dall’istinto: “Conservando il mondo presso di sé, il linguaggio diventa il luogo in cui si orientano e si precisano bisogni e pulsioni che a questo punto si esprimono a misura del linguaggio”95, in tal modo il mondo interno, tramite il linguaggio, si evolve e si

articola sul mondo esterno. Il pensiero inibisce l’espressione pulsionale e senso- motoria a favore di un loro ripiegamento, che favorisce quell’interiorizzazione desensorializzata, che permette al pensiero di conseguire la sua autonomia dai vincoli del mondo sensibile e linguistico. L’azione non viene meno nel pensiero, ma semplicemente trasferita all’interno, attraverso la forma imposta dall’espressione linguistica, in modo di consentire la sperimentazione virtuale delle azioni più attuabili.