al vissuto incorporeo
OSSERVAZIONI A MARGINE
La premessa da cui prende avvio questa ricerca è che l’uomo non può che rapportarsi con un mondo che è già inevitabilmente una nostra immagine del mondo, quindi un mondo virtuale. E’ già una realtà virtuale quella a cui l’uomo dà origine organizzando i dati sensoriali all’interno della attività percettiva, andando poi, successivamente, ad ordinarli e strutturarli con il linguaggio. Attraverso la sua capacità tecnica, l’uomo opera questa virtualizzazione della ‘cosa in sé’ dando vita a una sua ‘noosfera’, al mondo dell’uomo e per l’uomo, il mondo della cultura che si profila, allora, come una seconda natura, come l’habitat naturale dell’uomo; in tal senso Gehlen definisce la tecnica come la categoria antropologica fondamentale.
Volendo mantenere una prospettiva di relativismo culturale, possiamo, in modo molto sommario, dire che il pensiero occidentale, formatosi sulle eredità della cultura greca, si è incamminato nel mondo fondato dal logos, che appunto è stato assunto a Mondo, ovvero si è identificato il concetto con il reale, fissando l’essere nell’immutabilità dell’Idea.
Nella spiritualità greca, ad un certo punto, la coscienza dei contrasti insiti nella realtà umana, apparvero al Greco come qualche cosa di contro natura e non la conseguenza insopprimibile di una realtà eternamente contraddittoria nel suo divenire484, generando nella sua intima coscienza un vissuto conflittuale e problematico. Tale nuova coscienza necessitava un approfondimento della realtà, che esasperando il conflitto fra una realtà diveniente e la necessità del logos dell’Essere, sfocia nella filosofia. Nella proposizione parmeneidea “l’Essere è” , è condensato, racchiuso, la volontà di uscire dall’angoscia e dallo sgomento per
484 La religiosità mediterranea aveva concepito un’origine unica per gli dèi e gli uomini, il mito di Prometeo, che rappresenta l’agire tecnico, l’intelligente invenzione, segna la frattura di quella unità. Da quel momento, dice Esiodo, all'uomo distinto da Dio viene ad incombere un tragico destino: di essere Dio e uomo, sublime e misero a un tempo, questo dissidio sarà fatale nella storia della spiritualità ellenica e culminerà nella tragedia.
l’assurdo del mondo; un mondo che muta di continuo, che non trova possibilità di essere rappresentato nella fissità della parola scritta e quindi precluso al pensiero che su quella parola andava strutturandosi.
La tradizione orientale, come abbiamo sommariamente tratteggiato, invece, mantiene la coscienza della natura mutevole della realtà, anzi la vive pienamente nei suoi aspetti significativi; per cui ogni realtà nel pensiero orientale, è solo l’attualizzazione momentanea dell’essere all’interno di un processo dialettico che si sviluppa in una costante copresenza di entrambi i termini; per cui utilizzando i termini del pensiero deleuziano, l’attuale, si determina in un processo di individuazione in un punto singolare della complessa nebulosa virtuale, senza che questa individuazione sia mai riducibile ad una individualità e singolarità stabile e definitiva.
Il virtuale come modalità dell’essere è quello che le ultime frontiere della scienza hanno mostrato e le moderne tecnologie hanno messo in scena, ma l’Occidente si trova nell’impasse di dare senso a questa sua comprensione per aver da lungo tempo, rinunciato al mondo reale a favore del mondo astratto logico- scientifico, in cui la scienza divenuta pura tecnica, ha scambiato il proprio metodo per la verità del contenuto, perdendo nella proiezione ideale, ogni interesse per il mondo reale. La condizione preliminare per la scienza è stata proprio l’emancipazione da quell’universo mutevole e denso di intuizioni in cui si articola il mondo della vita, per rifugiarsi nella chiarezza del mondo oggettivo delle idee.
A questo punto, se le possibilità della scienza sono innanzitutto nella sua capacità di prescindere dalla soggettività corporea e da quel mondo “generico e approssimativo” -realtà che inevitabilmente l’uomo, come entità corporea, percettivamente e intuitivamente incontra-, ebbene la scienza e la tecnica che ne deriva, sono nell’impossibilità di produrre dei sensi per l’uomo la cui vita è in quella soggettività e in quel mondo.
Il mondo della vita, protetto dal disinteresse della scienza per il contingente, per il sensibile, per l’empirico, pur se relegato negli spazi ambigui e oscuri dei ‘piani inferiori’, aveva mantenuto una sua sfera di autonomia, ma la sua esistenza rumoreggiava sotto i piani alti. Nel corso del tempo il progresso scientifico- tecnologico è arrivato ad un livello di sviluppo tale da mettere in crisi i suoi stessi contenuti mettendo l’intelletto nelle condizioni di prender coscienza di quel mondo sensibile, non circoscrivibile nell’Idea platonica, che gli era stato precluso e che si sottraeva, per la sua natura, al suo controllo, ma che era sempre lì a ricordargli le sue origini e pronto a minare le sue certezze. Tra la fine dell’800 e primi decenni del ‘900, scienza, filosofia e arte sono impegnati nella decostruzione di tutte quelle certezze che avevano caratterizzato l’età moderna. Si scopre così che la materia è essenzialmente vuoto; un vuoto che permette l’attuarsi di campi energetici e che dunque l’essere dell’uomo e del mondo non è un’entità stabile e solida, bensì il risultato di interazioni continue e mutevoli. Insomma si può dire che la scienza scopre che aveva ragione Eraclito e non Parmenide.
Il mondo del divenire si presenta, allora, all’uomo postmoderno in tutta la sua virulenza, ma il nostro sapere tecnico è così avanzato e sofisticato nella sua flessibilità che ha saputo inventare degli strumenti tecnologici in grado, in qualche modo, di riportare sotto l'ordine della razionalità tecnica anche quegli aspetti che la razionalità classica aveva ignorato, o quantomeno non se ne era occupata. L’intelletto ha sempre trovato il suo alleato nella tecnica, ha sperimentato come
attraverso questa il mondo gli si rende comprensibile, per cui nella dimensione dell’astrazione tecnica ha inglobato anche il corpo, aprendosi al colloquio con il mondo della vita, ma secondo le sue regole e le sue modalità. Per prendere coscienza dell’organico, delle sue forme soggette al divenire al mutamento, la mente occidentale attraverso gli strumenti tecnici che ha saputo produrre lo ha dematerializzato, cioè lo ha trasformato in quell’inorganico che, come dice Bergson, si presta alla sua attività.
Oggi la tecnica invade ogni nostro spazio, anche quello del vissuto, delle relazioni interpersonali: la tecnica come una madre protettiva, ma fagocitante, continua ad offrirci vie di scampo alla nostra fragilità fisica ed emotiva. Tuttavia con tale fragilità alla fine inevitabilmente dobbiamo fare i conti perché l’uomo non può in ogni caso oltrepassare se stesso e la propria finitudine, in quanto essendo l’uomo, come ogni vivente, situato nel tempo, si realizza nel movimento, ovvero il divenire costante, l’orizzonte di attesa che scaturisce dalla propensione per la progettualità, la morte, ossia la coscienza dell’heideggeriano ‘essere-per-la-morte’, la memoria, strumento di costruzione continua e rielaborazione sempre mutevole del proprio Sé, del proprio corpo.
Se non vuole ridursi all’insignificanza totale, la scienza può trovare il suo senso solo rinunciando a porsi come norma della vicenda stessa; ricordando che il mondo costruito dalla scienza attraverso le sue operazioni logiche, è pur sempre un mondo che l'uomo è andato costruendo per sé, e quindi è in questo per sè che va riportato il senso di ogni atteggiamento teoretico. Quindi la verità oggettiva della scienza, oggi è nella necessità di prendere proprio dal mondo della vita il senso che dia giustificazione ad ogni suo possibile futuro. La verità del mondo della vita è nell’esperienza, che a differenza di quella scientifica, che dell’esperienza vissuta è solo un’astrazione, è “una presenza e insieme l’induzione di un’assenza”.
La ‘esperienza’ della virtualità, che nella cultura postmoderna nasce come risposta, resa a livello tecnologico, alla coscienza della virtualità dell’essere, ha condotto l’uomo occidentale su una strada priva di ancoraggi, e a sperimentare, venuta meno la zavorra dell’Idea, la “leggerezza dell’essere” come insostenibile. In tal senso, il nichilismo della tradizione occidentale, figlio dell’oggettivismo può essere inteso come forma di infondatezza e di nulla positivi, e quindi in autentico. Questo è un nichilismo che, privandoci delle indicazioni e delle fondamenta dei grandi ‘metaracconti’ disancorati come siamo dal Mondo, lascia il campo aperto per una gamma infinita di scelte, di possibili, difficili da ricondurre in una rete di significati. Il nichilismo orientale, al contrario, è un percorso che si muove nel significato della vita per trascenderla e quindi può essere considerato come il solo possibile superamento dell’attaccamento ad un fondamento.