«L’origine storica dello Stato italiano si configura, come è noto, come un
processo di successive annessioni ad una monarchia unitaria e centralizzata, il Regno
di Piemonte e Sardegna, dei territori già appartenenti a una molteplicità di piccoli
Stati preunitari o facenti parte di altri Stati europei»
191. L’unificazione avvenne
quindi mediante estensione della struttura della monarchia sabauda al resto del
territorio che andò a formare lo Stato italiano, venendosi ad applicare in tutta Italia la
188 Per una accurata ricostruzione di tale percorso evolutivo, si rinvia, tra gli altri, ad A. Z
ORZI GIUSTINIANI, Competenze legislative, cit., p. 32 ss.. Cfr., altresì, I. RUGGIU, Il “ritorno” del principio di competenza, ne Ist. fed., 2008, I, p. 107 ss..
189 Nozione alquanto controversa in dottrina. T. Groppi, ad esempio, afferma che la stessa sia caratterizzata da una notevole dose di ambiguità (v. T. GROPPI, Il Federalismo, Bari, 2004, p. 74. 190 L.T
OSI,A.GIOVANARDI, Federalismo (dir. trib.), in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, III, p. 2478.
191
Così V. ONIDA, Il regionalismo in Italia: origini, caratteri prospettive, in Quaderni del Centro studi parlamentari “Silvano Tosi”, n. 3/1992, p. 79. Per l’A., tali modalità di unificazione consentirono, sia pure a costo di un appiattimento istituzionale, di evitare che si formassero forti reazioni di tipo “anti- coloniale” nei territori annessi, poiché la classe dirigente dell’epoca vedeva nella monarchia sabauda un’istituzione storicamente al servizio dell’ideale dell’unità d’Italia. Le istituzioni dell’era liberale si affermarono pertanto in Italia non secondo il modello federale presente, ad esempio, in Germania ma secondo il modello amministrativo francese, con un potere centrale forte e compatto e strutture periferiche da esso dipendenti e dotate di larghi poteri di controllo sul territorio (le Prefetture). L’idea federale non fu assente nel dibattito pre-unitario, ma fu consapevolmente scartata, nel timore di rigurgiti di frammentazione fra regni e potentati. Più in generale, per un approfondimento, si rinvia altresì alla magistrale ricostruzione offerta da S. CASSESE, «Fare l’Italia per costituirla poi». Le continuità dello Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, 2, p. 305 ss..
77
legislazione - compreso lo Statuto albertino del 1848 - ed il sistema amministrativo
piemontesi.
In quei medesimi anni, i ministri Farini e Minghetti avevano elaborato un
progetto di istituzione delle Regioni, che venne giudicato pericoloso per l’appena
raggiunta unità politica del Paese ancorché i suoi contenuti non risultassero
particolarmente rivoluzionari. L’esigenza dell’unificazione amministrativa prevalse
pertanto su ogni altra considerazione di valorizzazione delle particolarità locali e lo
Stato liberale marciò da allora coerentemente alle sue premesse ideologiche e
giuridiche, mirando a considerare la libertà solo come «garanzia», e non anche come
«partecipazione» e riferita a un rapporto instaurato tra l’individuo e lo Stato senza
altri soggetti od enti intermedi giuridicamente rilevanti
192.
Dopo la prima guerra mondiale, il tema della Regione come ente di
decentramento politico fu oggetto di riflessione di nuovi movimenti politici, specie di
origine cattolica (il partito popolare di Luigi Sturzo), e vennero annessi all’Italia
nuovi territori (quelli del Trentino-Alto Adige e della Venezia Giulia) già
caratterizzati da forti tradizioni di autonomia nell’ambito dell’impero plurinazionale
austriaco, ma quelle che potevano essere «le premesse per una trasformazione nel
senso di una maggiore articolazione dello Stato vennero soffocate sul nascere
dall’avvento del fascismo. Il regime fascista infatti fece dell’accentramento assoluto
del potere uno dei cardini della sua politica istituzionale»
193.
Da allora, come evidenzia un’attenta dottrina, l’evoluzione della forma di Stato
(quanto al rapporto tra sovranità e territorio) si è sviluppata secondo un processo
«centrifugo», ovvero attraverso un decentramento di competenze dallo Stato centrale
192 In tal senso, E.B
ALBONI,G.PASTORI, Il governo regionale e locale, in G. AMATO, A. BARBERA (a
cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, p. 356. Secondo la ricostruzione di G. ROLLA, La
costruzione dello stato delle autonomie, in Le Istituzioni del Federalismo, 2005, 5, p. 799, «… lo Stato unitario liberale vide nel centralismo un rimedio al rischio di tendenze centrifughe rese possibili della debolezza del processo di unificazione nazionale e della mancanza di una diffusa coscienza nazionale. Se la richiesta di un sistema di autonomie politiche fu avanzata sin dalla formazione dello Stato unitario italiano, solo con la Costituzione repubblicana del 1948, il principio di autonomia diventò uno dei cardini fondamentali del sistema costituzionale. Le prime proposizioni normative in cui si prevedeva l’istituzione di Regioni risultano assai distanziate nel tempo. Si può ricordare, in primo luogo, il disegno di legge presentato dal ministro Minghetti nel primo governo Cavour in materia di amministrazione comunale, provinciale e regionale, il quale prevedeva la creazione di un consorzio interprovinciale - denominato Regione - retto da un “governatore ”alle dirette dipendenze del Governo e da una Commissione eletta dai Consigli provinciali interessati. Successivamente, il r.d. 1319/1921 istituì una commissione consultiva per il riassetto amministrativo delle Regioni Trentino Alto Adige e Venezia Giulia, finalizzato alla concessione di autonomie regionali.».
193 V. O
78
ad enti esponenziali di comunità locali. La prima tappa del processo coincide con la
Costituzione del 1948, poiché l’Assemblea Costituente fece una scelta in favore dello
Stato decentrato, che si concretizza in due tipi di previsioni costituzionali:
innanzitutto l’art. 5, che inserisce autonomia e decentramento tra i principi
fondamentali della Costituzione; inoltre, il titolo V della parte II, che istituisce per la
prima volta le Regioni, come enti dotati di potestà legislativa e riconosce l’autonomia
dei comuni e delle province. Si tratta non solo di una novità nella storia d’Italia, ma
anche di un interessante esperimento a livello di diritto comparato, trovando il suo
antecedente soltanto nella breve esperienza della repubblica spagnola del 1931
194.
E tuttavia non può non evidenziarsi come la scelta dell’Assemblea Costituente
sia stata frutto di un percorso travagliato. Le ragioni della scelta vanno infatti in
primo luogo ricercate nella volontà dei Costituenti di creare uno Stato nuovo, non
solo rispetto a quello fascista, ma anche a quello liberale prefascista, cui l’ascesa del
fascismo era imputata.
All’inizio del dibattito emersero le resistenze delle forze di sinistra
195, mentre il
gruppo di forze di centro riuscì a far adottare alla Commissione preparatoria un
progetto largamente favorevole alle autonomie regionali, al fine di avvicinare il
potere ai cittadini e di rendere più salde le istituzioni democratiche, improntato alla
concezione di favore per le comunità intermedie ed il principio di sussidiarietà.
Con l’evolvere della situazione politica, tuttavia, si verificò una sorta di
inversione nelle posizioni dei partiti, dovuta principalmente alla rottura del patto di
collaborazione fra le forze che avevano concorso alla liberazione e la conseguente
uscita dal Governo delle forze di sinistra
196, che, dovendo rinunciare alla possibilità di
194 Tale la ricostruzione offerta da T. G
ROPPI, L’evoluzione della forma di Stato in Italia: uno Stato regionale senz’anima?, in www.federalismi.it. L’A. rileva altresì come la scelta in favore del decentramento sia legata in Italia soprattutto a due elementi, riconducibili alle parole chiave dell’efficienza e della democrazia (quest’ultima intesa nelle diverse accezioni di responsabilità, partecipazione e separazione dei poteri), che sembrano in qualche modo aver guidato le fasi dell’evoluzione della forma di Stato italiana. Una fase prodromica può esser individuata già nell’ultimo scorcio dello Stato liberale di diritto, in cui si assiste alla fioritura della vita locale sotto l’impulso del municipalismo socialista e cattolico, fase interrotta dall’avvento del regime fascista. Tre fasi vere e proprie - seguite da tre rispettivi periodi di «riflusso» - sono poi contenute nel periodo repubblicano, e sono scandite dall’adozione di apposite norme giuridiche: la Costituzione repubblicana, le leggi ordinarie di attuazione relative alle regioni ordinarie, le riforme costituzionali del 1999 e del 2001. 195 Così T. G
ROPPI, L’evoluzione della forma di Stato, cit..
196 Che intendevano avviare un’opera di profondo rinnovamento dei rapporti economici e sociali per porre rimedio alle diseguaglianze economiche esistenti e temevano che le autonomie regionali potessero costituire delle roccaforti di resistenza delle posizioni conservatrici. V., in tal senso, S.
79
perseguire i propri obiettivi dal centro dello Stato, ripiegarono sull’opportunità di
conquistare il potere almeno in alcune Regioni. Va tenuto altresì presente che
all’interno delle diverse forze politiche coesistevano diverse visioni di come
dovessero declinarsi l’autonomia e il decentramento.
Il risultato appare quindi essere il frutto di un compromesso che ha impedito
l’espressione della matrice più nobile del regionalismo; vi è chi, in dottrina, rileva
come le Regioni siano state configurate senza alcuna forma di coinvolgimento da
parte delle popolazioni interessate ma utilizzando un criterio meramente
amministrativo, il quale faceva riferimento alle ripartizioni territoriali storicamente
utilizzate ai fini del censimento nazionale
197. Né tale criterio fu adottato senza
difficoltà, perché non mancarono tentativi di mettere in discussione i confini e si
avanzarono candidature di nuove Regioni, per la cui esistenza non era difficile
trovare, nella ricca e lunga storia dei territori italiani, una qualche giustificazione.
Tali difficoltà nel definire il quadro dell’articolazione regionale rivelavano
nitidamente una marcata caratteristica del regionalismo italiano: «quella di nascere,
più che sulla base di forti e consolidate identità regionali indiscusse e interiorizzate
dalle popolazioni rispettive, sulla base di un diffuso particolarismo di città e di
ristrette aree, che tende a valorizzare l’estrema differenziazione e l’identità autonoma
delle piccole comunità che pur vivono in zone vicine»
198.
Il modello costituzionale di Stato decentrato concretizzò un regionalismo
differenziato, prevedendo la Costituzione due tipi di Regioni, quelle a statuto speciale
(Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia) e
quelle a statuto ordinario, e limitandosi a stabilire le competenze di queste ultime. Per
BARTOLE, R. BIN, G. FALCON e R. TOSI, Diritto regionale, Bologna, 2005, p. 11, e T. GROPPI, L’evoluzione della forma di Stato, cit..
197 G. R
OLLA, La costruzione dello stato delle autonomie, cit., p. 814 ss., il quale sottolinea come nella formulazione dell’art.131 Cost. si sia utilizzato un parametro obsoleto, il quale non teneva conto del fatto che gli ambiti territoriali di tali Regioni non coincidevano affatto con quelli determinati dalle modificazioni economiche, culturali e sociali nel frattempo intervenute.
198 V. O
NIDA, Il regionalismo in Italia, cit., p. 83. Prosegue l’A. «È l’Italia, più che delle Regioni, degli 8.000 Comuni, delle città grandi e piccole orgogliose della loro storia, delle loro tradizioni, del loro dialetto, spesso storicamente rivali l’una dell’altra proprio nelle stesse zone regionali, spesso più insofferenti del dominio dei vicini che di quello di lontani poteri centrali; l’Italia delle cento Province e delle cento città capoluogo, alle quali sempre nuove città mirano ad aggiungersi, mentre eventuali processi di fusione vengono respinti come fattori di degradazione degli antichi capoluoghi pur se decaduti; l’Italia delle tante diocesi anche piccole e piccolissime, anch’esse così difficili da razionalizzare e riorganizzare per le resistenze locali.». Per una chiave di lettura in senso analogo operata più di recente, si rinvia a M. FEDELE, Né uniti né divisi. Le due anime del federalismo all’italiana, Roma, 2010.
80
le Regioni a statuto speciale - all’origine del cui trattamento differenziato vi erano
ragioni di ordine geografico o etnico-linguistico, e, più in generale, di sedare tendenze
separatistiche - la definizione delle competenze era affidata ad apposite leggi
costituzionali. Per le Regioni ordinarie le condizioni di autonomia erano definite
direttamente dalle norme contenute nel titolo V della parte II della Costituzione.
La seconda fase del processo di decentramento italiano si avvia intorno alla fine
degli anni Sessanta, quando vengono approvate la legge 17 febbraio 1968, n. 108, per
l’elezione dei Consigli regionali e la legge 16 maggio 1970, n. 281, che individua i
provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario e contiene
altresì una delega per il trasferimento delle funzioni amministrative e delle risorse
finanziarie e umane necessarie (delega poi esercitata con una serie di decreti
legislativi nel 1972)
199.
Viene pertanto finalmente resa possibile l’istituzione effettiva delle Regioni a
statuto ordinario, dopo un «congelamento» dell’ordinamento regionale dovuto in
buona parte al timore che tramite le autonomie regionali si consentisse, in talune zone
del Paese in cui i partiti dell’opposizione avevano una posizione maggioritaria, una
eccessiva concentrazione del potere in capo agli stessi
200.
E sempre per motivi di carattere politico - di bilanciamento dell’esclusione dal
Governo nazionale delle medesime forze di opposizione - ebbe luogo l’inversione di
tendenza che consentì l’avvio dell’ordinamento regionale, anche se contribuì non
poco l’idea della necessità di una profonda riforma degli apparati amministrativi. La
formula ricorrente che caratterizza questa fase, infatti, è «le Regioni per la riforma
dello Stato»: il trasferimento di funzioni alle Regioni e agli enti locali avrebbe dovuto
costituire un’amministrazione pubblica più efficiente ed in grado di rispondere alle
esigenze della società. Inoltre, l’istituzione di un nuovo livello di governo poteva
costituire uno strumento ulteriore per l’effettività della democrazia partecipativa,
sull’onda dei movimenti culturali della fine degli anni Sessanta.
199
La legge n. 281 del 1970, tuttavia - anticipando riflessioni che verranno svolte nel prosieguo del presente elaborato - si pose tendenzialmente in difformità dal disegno costituzionale, poiché modellò la finanza regionale come finanza di trasferimento, realizzando una compressione dell’autonomia tributaria degli enti regionali.
200 V. O
81
Tali fattori ingenerarono tuttavia un carico eccessivo di aspettative
201; in realtà,
il modello di Stato regionale configurato dalla seconda fase del decentramento risulta
caratterizzato da una autonomia legislativa regionale alquanto circoscritta, con le
Regioni destinate a connotarsi prevalentemente come enti di amministrazione. Ciò
può essere riconducibile a diverse circostanze: che i trasferimenti di funzioni
operarono «ritagli» nelle materie elencate dall’art. 117 Cost., escludendo dal
trasferimento settori, funzioni, compiti che lo Stato trattenne a sé, con la
giustificazione dell’esigenza di preservare l’«interesse nazionale»
202; che la
definizione delle materie avvenne sulla base delle funzioni amministrative trasferite
alle Regioni, secondo un «parallelismo all’inverso» che ne ha comportato la
sostanziale decostituzionalizzazione
203.
201
Come evidenzia V. ONIDA, Il regionalismo in Italia, cit., p. 89, che rileva inoltre come fosse tuttavia inevitabile che la realtà si mostrasse inferiore alle attese, «se non altro perché le Regioni venivano costruite con i “materiali” (partiti, classi politiche, classi di funzionari, cultura amministrativa) disponibili all’epoca, e provenienti dalla lunga tradizione di uno Stato non regionale. Le Regioni sono state certo generose, nelle proclamazioni dei propri statuti, di promesse e impegni a favore degli obiettivi ora indicati. Di fatto, però, nei vent’anni del loro funzionamento, esse hanno espresso delle classi politiche regionali complessivamente modeste; si sono date degli apparati spesso non più efficienti, e talora meno efficienti, di quelli tradizionali dello Stato; hanno riprodotto molti dei caratteri tipici dell’azione statale e instaurato con le proprie comunità rapporti spesso non molto diversi da quelli tradizionalmente propri delle istituzioni politiche centrali. In questo primo ventennio esse hanno certamente consolidato la propria presenza istituzionale, ma né la loro immagine, né la loro realtà si sono grandemente sviluppate in positivo, e anzi oggi le Regioni italiane vivono e operano in un clima istituzionale, politico e di opinione non molto favorevole, nonostante che di recente il desiderio di rispondere alle spinte delle “leghe” nordiste abbia riattivato progetti di rafforzamento del regionalismo. Le cause di ciò sono certamente molteplici. Fra le principali indicherei l’assenza, nella maggior parte delle Regioni, di una forte coscienza regionale diffusa nella popolazione, che possa alimentare la spinta al rafforzamento delle autonomie; e soprattutto le caratteristiche dei partiti italiani, centralisti nella struttura degli apparati e del finanziamento, e ancorati in genere esclusivamente a strategie di portata nazionale.». In senso analogo, v. anche L. Antonini, secondo cui «il regionalismo italiano, comunque, anche nello sviluppo dei decenni successivi alla Costituzione, è rimasto carente, a livello politico, d’idee originali, nonostante una tradizione di pensiero federalista ricca e vivace. Nel suo travagliato sviluppo il modello complessivo passò da un’originaria conformazione di tipo garantista-difensivo, rimasta solo nelle intenzioni del costituente, ad una forma di regionalismo cooperativo tutt’altro che limpida e lineare. Non solo i limitati poteri previsti dall’impianto costituzionale furono interpretati con formulazioni al “massimo ribasso”, ma a deprimere il sistema regionale concorse anche una persistente “politica dell’uniformità” che, con una straordinaria produzione di regole, esprimeva “oggettivamente la sfiducia negli amministratori regionali e nella capacità di stimolo e di controllo della società locale”, spesso misurando l’opportunità dell’autonomia “assumendo come naturale punto di riferimento le situazioni dove maggiore era l’inefficienza amministrativa e più corrotto il costume”» (così L. ANTONINI, Art. 117 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO e M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., par. 1.2).
202 Così S. B
ARTOLE,R.BIN,G.FALCON e R.TOSI, Diritto regionale, Bologna, 2003, p. 208. 203 T. G