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Avviandoci alla conclusione del nostro percorso concettuale ci accostiamo ora

ad una formula caratterizzata da un certo margine di indeterminatezza

157

; essa invero

155 Così L. A

NTONINI, Sussidiarietà verticale e orizzontale nelle prospettive di sviluppo della legge n. 42 del 2009, in AA.VV., Sussidiarietà orizzontale e verticale: profili fiscali, IRER, 2010, p. 81.

156

G. BERTI, o.l.u.c., p.388.

157 In termini di «problematica configurazione della clausola» si esprime, ad esempio, E. P

ESARESI, La “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” e la materia “tutela della salute”: la proiezione indivisibile di un concetto unitario di cittadinanza nell’era del decentramento istituzionale, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, p. 1733 ss., mentre E. FERIOLI, Sui livelli essenziali delle

63

esprime un forte collegamento con taluni dei concetti già affrontati e si presenta, per

usare un’acuta definizione, come un «principio valvola»

158

.

La clausola ha trovato espresso riconoscimento costituzionale con la riforma del

2001, e in particolare con l’attuale formulazione dell’art. 117 Cost., che, alla lettera

m) del secondo comma, affida alla competenza legislativa esclusiva statale la

«determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e

sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»

159

.

L’origine del concetto, già presente a livello di legislazione ordinaria, va

ricercata nell’ambito sanitario e socio-assistenziale. In sede di istituzione del Servizio

sanitario nazionale, infatti, compare la locuzione «livelli delle prestazioni sanitarie»:

livelli che devono essere fissati con legge dello Stato e prestazioni che devono essere

garantite a tutti i cittadini

160

. In questa fase la locuzione non è caratterizzata dalla

prestazioni: le fragilità di una clausola destinata a contemperare autonomia ed eguaglianza, in www.forumcostituzionale.it, ravvisa una vera e propria intrinseca ambiguità della formula. Va rilevato che già l’utilizzo di diversi acronimi e diverse locuzioni da parte del legislatore e degli operatori non giova alla comprensibilità della tematica. Si rinvengono, infatti, gli acronimi «LEP» o «LEPS» (Livelli essenziali delle prestazioni sociali), «Liveas» (Livelli essenziali di assistenza sociale), «LEA» (Livelli essenziali di assistenza).

158 «Nella nostra Costituzione, tra le competenze statali enumerate, quella dell’art. 117, comma 2, lett. m) si presta ad essere utilizzata come un vero e proprio “principio valvola”, dal momento che in forza di questa disposizione nessuna competenza regionale che attenga ai diritti può dirsi esclusiva. Le leggi statali che stabiliscono i livelli essenziali sono, infatti, destinate a porsi come parametro interposto di costituzionalità delle leggi regionali emanate anche nell’ambito della competenza primaria», così L. ANTONINI, in Competenza, finanziamento e accountability in ordine alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali, in Riv. Dir. Fin., 2003, 1, p. 70, che mutua la

felice espressione da T. GROPPI, La garanzia dei diritti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo

V, rinvenibile in www.federalismi.it.

159 L’espressione «livelli essenziali» peraltro compare anche nell’articolo 120, secondo comma, Cost.,

laddove costituisce uno dei presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Governo: «Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione».

160

In base all’articolo 3, comma 2, della legge n. 833 del 1978: «La legge dello Stato, in sede di approvazione del piano sanitario nazionale di cui all’articolo 53, fissa i livelli delle prestazioni sanitarie che devono essere, comunque, garantite a tutti i cittadini». La legge n. 883 del 1978 è stata la prima grande riforma sanitaria nazionale e ha avviato un importante processo di trasformazioni nella sanità pubblica. Essa ha stabilito per la prima volta che la sanità è un insieme di misure di prevenzione, cura e riabilitazione ed ha introdotto un nuovo sistema sanitario basato sul criterio della copertura universale, sostituendo il precedente modello fondato sul sistema mutualistico, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di enti e organizzazioni che erogavano l’assistenza sanitaria sul territorio. Ciò comportava per i cittadini disuguaglianza di trattamento, sia sotto il profilo di prestazioni sanitarie ricevute diverse dal punto di vista qualitativo, sia sotto il profilo dei costi, che gli stessi dovevano sostenere per accedere alle prestazioni, differenti a fronte dei medesimi servizi ricevuti. Inoltre, la spesa sanitaria era incontrollata. Questi elementi di debolezza del sistema condussero alla radicale

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qualifica

dell’essenzialità,

risultando

evidentemente

prioritario

focalizzare

l’attenzione sulla garanzia dovuta a tutti i cittadini

161

.

riforma operata con la legge n. 833, che ha ristrutturato l’organizzazione sanitaria mediante l’istituzione del servizio sanitario nazionale (SSN), il cui obiettivo fondamentale era garantire a tutti i cittadini omogeneità e uguaglianza qualitativa dei servizi erogati. Il nuovo sistema sanitario introdotto dalla riforma del 1978 è stato caratterizzato dai seguenti obiettivi: a) estensione della copertura assicurativa a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione economica, sociale e lavorativa, intendendo superare il precedente sistema di tipo mutualistico, in cui l’assistenza sanitaria era differenziata sulla base della specifica posizione professionale, ritenuto iniquo, causa di inefficienze e di scarsa controllabilità finanziaria; b) finanziamento pubblico fondato sulla fiscalità generale (dopo un periodo di transizione in cui il peso dei contributi di malattia sarebbe progressivamente diminuito); c) gratuità del servizio per l’utente finale, come naturale conseguenza del finanziamento attraverso meccanismi di prelievo obbligatorio; d) coinvolgimento dei diversi livelli di governo (avvio del decentramento) nella gestione del servizio, secondo uno schema che attribuiva al governo centrale il compito di definire l’entità del finanziamento (il fondo sanitario) e di ripartirlo tra le regioni; alle regioni il ruolo di programmare gli interventi nel territorio di loro competenza; alle unità sanitarie locali la funzione gestionale; e) perequazione territoriale dell’intervento pubblico (assumendo implicitamente ad obiettivo una tendenziale omogeneizzazione dei livelli di spesa nelle diverse aree geografiche). In seguito, il servizio sanitario nazionale è stato poi oggetto di ulteriori interventi di riforma, in particolare con i decreti legislativi n. 502 del 1992 e n. 229 del 1999. Secondo R. BALDUZZI, L’impatto della devolution sul Servizio sanitario nazionale, rinvenibile in www.cosmopolisonline.it, «La legge 833 si inserisce nel filone delle riforme amministrative degli anni Settanta, dopo l’avvento delle Regioni ad autonomia ordinaria e i connessi trasferimenti alle Regioni medesime e agli enti locali, il tentativo di riassetto del livello sovracomunale (l’ente intermedio), la scommessa sulla partecipazione (a livello di quartiere-circoscrizione, ma anche, per fare un esempio, nelle forze armate): tutti interventi riformatori fortemente caratterizzati dall’esplicito intento di far penetrare la Costituzione repubblicana anche in una zona, l'amministrazione e i servizi pubblici, rimaste sino ad allora più riparate e meno esposte al vento costituzionale. (…) la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale si inserisce dentro la cornice del cambiamento delle forme e dei modi della statualità e in particolare dentro una traiettoria che significativamente parte dall’elezione dei primi consigli delle Regioni ad autonomia ordinaria. Si potrebbe dire, in altri termini, che l’attuazione larga del diritto sociale alla salute e l’attuazione del disegno autonomistico abbiano proceduto, negli anni Settanta, di pari passo e che dunque non sia stato casuale che l’accelerazione decisiva, dopo trent’anni di tentativi di riforma del sistema sanitario, sia avvenuta proprio nel periodo della cosiddetta solidarietà nazionale o solidarietà democratica, cioè negli anni in cui più forte era la spinta a un’attuazione integrale del disegno costituzionale, ricomponendo in unità le due parti della Costituzione e ricostruendo una convergenza tra settori politici e culturali che, sotto questo specifico profilo, in sede di Assemblea Costituente avevano faticato ad intendersi pienamente (alla freddezza o almeno alla tiepidezza di consistenti settori dello schieramento politico, in particolare delle sinistre dell’epoca, nei confronti dell'istituto regionale, nei decenni successivi avrebbe fatto da contrappunto la sostanziale disattenzione, per questo aspetto dell'attuazione costituzionale, da parte della maggioranza governativa e parlamentare). Che maggiore garanzia del diritto alla salute rimasse, fermo restando un assetto generale di tutela della salute, con maggiore autonomismo non era peraltro un’acquisizione inedita per il nostro Paese. Anche non volendo ricordare le proposte formulate in sede di CLN, significativi sono gli spunti tratti dal dibattito in Assemblea Costituente, dove l’opposizione alla proposta di includere anche l’igiene e sanità pubblica, oltre che l’assistenza sanitaria e ospedaliera, tra le materie assegnate alla competenza regionale si dovette più al prevalere di preoccupazioni concernenti i divari regionali che non al convincimento dell’inidoneità regionale nella suddetta materia.».

161

Come osserva G. MELONI, L’ambito di operatività dei livelli essenziali delle prestazioni, ne I livelli essenziali delle prestazioni, Formez, Quaderno n. 46, p. 23, «In questa prima formulazione il termine “livelli” è privo di aggettivi, stando solamente a indicare dei parametri riferiti a prestazioni la cui definizione è rinviata al legislatore e da cui però passava la garanzia effettiva del diritto alle prestazioni sanitarie da parte dei cittadini. Si tratta, dunque, di un concetto chiave per l’assistenza sanitaria che, nel momento in cui si accingeva a trasformarsi in servizio di carattere universale, si poneva il problema di definire quali prestazioni fossero da assicurare obbligatoriamente ai cittadini.». L’A. prosegue rilevando come già in tale fase peraltro fossero presenti due aspetti fondamentali dei livelli essenziali

65

Nel frattempo, poiché la riforma sanitaria del 1978 non era risultata sufficiente

a superare le criticità correlate al contenimento dei costi della gestione sanitaria

162

,

che rimarranno validi anche successivamente «Da una parte, la necessità di ricorrere a questo concetto sorge nel momento in cui un servizio si trasforma in universale, al fine di attenuare o precisare l’ambito dell’universalità. Il primo significato di “livello”, pertanto, è quello di stabilire un limite, un tetto che serva a mitigare il carattere di universalità del servizio, inteso nella sua accezione più estrema. Dall’altra, però, proprio in quanto limite, il livello è almeno potenzialmente in grado di delimitare e definire le posizioni giuridiche di diritto – in capo ai cittadini – dando sostanza a diritti, quali quelli sociali, che sono risultati, al contrario, non sempre direttamente esigibili. Questi due aspetti del “livello” come limite, ma anche come ambito del diritto esigibile, rappresentano la portata significativa più importante di questo concetto che ritroviamo anche nella formulazione più recente», ma che tuttavia costituiranno anche un deterrente alla concreta applicazione della formula: «Probabilmente, anche a causa del carattere fortemente innovativo di questa nozione, si riscontra la sua sostanziale inapplicazione. In effetti, i Piani Sanitari Nazionali, nei quali i livelli essenziali avrebbero dovuto trovare concreta espressione, non sono stati approvati per molti anni. Tale impedimento ha comportato che, di fatto, l’unica discriminante, riferita sia alle prestazioni da erogare da parte del Servizio Sanitario, sia ai diritti che i cittadini potevano legittimamente far valere, era decisamente condizionata dalle risorse economiche che lo Stato riusciva a stanziare per il Servizio Sanitario. Ne conseguiva che uno dei maggiori obiettivi della trasformazione del Servizio Sanitario in sistema universalistico veniva in gran parte vanificato: i diritti sociali, in questo caso quelli collegati alle prestazioni sanitarie, continuavano a essere diritti condizionati fortemente dalle risorse finanziarie. I diritti garantiti erano semplicemente quelli che il Servizio Sanitario riusciva a coprire con le risorse affidate.».

162 La legge n. 833 del 1978 aveva infatti, tra l’altro, cercato di ovviare alle disfunzioni del sistema di tipo mutualistico preesistente, caratterizzato da una grande varietà di enti con compiti diversificati, in cui ciascuno di essi adottava decisioni di spesa non coordinate, erogava servizi e prestazioni non tenendo conto delle necessità degli altri enti, dando luogo alla formazione di disavanzi che si sono nel tempo accresciuti. La legge n. 833 pertanto mirò ad una razionalizzazione della spesa sanitaria basata anche su strumenti quali la programmazione e il fondo sanitario nazionale. Le finalità sottese all’istituzione del fondo erano: la predeterminazione del fabbisogno annuale di risorse per il sistema; il contenimento della crescita della spesa sanitaria attraverso l’imposizione di tetti massimi; il riequilibrio delle situazioni territoriali; un indirizzo dell’attività delle Regioni. Tuttavia, nonostante i migliori intenti del legislatore, il fondo stanziato annualmente risultava ogni volta inferiore all’effettivo fabbisogno sanitario nazionale. In parte ciò è dipeso dalle scelte gestionali degli enti locali e dagli altri organi del SSN che cercavano di soddisfare tutti i bisogni socio-sanitari non tenendo conto della logica sottostante al nuovo sistema di finanziamento (offerta di servizi e prestazioni equivalenti all’ammontare di risorse distribuito), generando continui scostamenti tra previsioni e consuntivi di spesa e costringendo lo Stato ad intervenire ripianando con pagamenti a piè di lista i disavanzi di gestione. Ma non bisogna dimenticare che sotto la pressione della congiuntura e della necessità di ridurre il deficit statale, i Governi hanno verosimilmente sottodimensionato il fondo sanitario e sovrastimato gli effetti delle misure di contenimento della spesa sanitaria, dovendo pertanto autorizzare incrementi di spesa ad esercizio inoltrato se non addirittura provvedere ex post al ripiano dei debiti accumulati dalle Regioni. In tal modo, si è più o meno consapevolmente legittimato queste ultime a non tenere in debito conto il vincolo di bilancio, omettendo di procedere a interventi di razionalizzazione delle spese. In senso conforme, v. G. MELONI, o.l.u.c., secondo cui «Una prima evoluzione del concetto di livello delle prestazioni si ha in seguito alla riforma bis del sistema sanitario e, in particolare, col d.lgs. n. 502 del 1992. L’origine di questa riforma è nota. Da una parte, l’Italia presenta proprio in quegli anni un quadro della contabilità nazionale drammaticamente instabile per il quale sono prese alcune misure drastiche per fronteggiare la grave crisi monetaria e finanziaria; dall’altra, proprio nella sanità, si registrava una spesa pubblica fuori controllo da addebitare alla conformazione di un sistema spurio poco razionale, in cui lo Stato definiva le risorse da impiegare attraverso gli stanziamenti del fondo sanitario nazionale, mentre la gestione dei servizi veniva affidata alle regioni e agli enti locali, i quali erano sollevati dal reperire le risorse necessarie per ripianare i deficit prodotti in un contesto istituzionale che, evidentemente, non premiava le gestioni responsabili delle risorse finanziarie. In questo quadro, la riforma bis del Servizio Sanitario tentava di riportare sotto maggiore controllo la spesa sanitaria e, contestualmente, cercava di rimettere in una condizione di maggiore equilibrio l’assetto delle responsabilità di Stato e regioni.».

66

negli anni ’90, il legislatore avviò una serie di ulteriori interventi normativi, nella

convinzione che l’attribuzione del potere decisionale, e delle responsabilità

finanziarie conseguenti, a livello locale avrebbe potuto responsabilizzare

maggiormente gli amministratori pubblici verso comportamenti di spesa virtuosi. In

tale contesto si sviluppa ulteriormente la formula oggetto del nostro esame, che viene

ad assumere dapprima la connotazione di uniformità ed infine quella di

essenzialità

163

.

163

Si veda, sul punto, la ricostruzione offerta da L. ANTONINI, Art. 117 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO e M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., par. 2.1.1: «Si può iniziare ricordando che l’espressione «livelli essenziali» è comparsa nella legislazione ordinaria degli ultimi anni, prima nell’ambito sanitario e poi in quello socio assistenziale. Rispetto alla tutela della salute, il d.lg. 502/1992, all’art. 1, faceva riferimento ai livelli uniformi di assistenza, identificandoli come il criterio in base al quale ripartire il Fondo sanitario nazionale; il d.lg. 229/1999 ha poi ripreso la nozione di livello uniforme aggiungendovi però la qualifica dell'essenzialità. Inoltre, all’art. 13 del d.lg. 229/1999 è stata confermata e implicitamente modificata la precedente disposizione del d.lg. 502/1992, prevedendo che «le Regioni fanno fronte con risorse proprie agli effetti finanziari conseguenti all’erogazione di livelli di assistenza superiori a quelli uniformi di cui all’art. 1...». Nell’evoluzione normativa si traduce la ricerca di un equilibrio fra tre diversi valori: universalità, globalità e qualità. Ad una linea politica degli anni Settanta che mirava innanzitutto ad incrementare l’universalità, spesso a scapito della qualità, ne è subentrata un’altra, negli anni novanta, che pur volendo mantenere un elevato grado di universalità, ha cercato di aumentarne la qualità. Dovendo rimanere all'interno delle compatibilità finanziarie, si è quindi presentata l’esigenza di sacrificare qualcosa alla globalità e la risposta è stata individuata in ciò che non rientra nei livelli essenziali. (…) L’ulteriore ambito in cui si ritrova poi l’espressione “livello essenziale” (…) è quello dell’assistenza sociale dove la legge quadro 328/2000 collega questa nozione ad una dimensione non solo etico sociale, ma anche di compatibilità finanziaria (si precisa «nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale»). Più precisamente, sul modello del Piano sanitario nazionale, viene prevista l'adozione del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali come atto fondamentale di programmazione che individua, tra l’altro, i livelli essenziali e uniformi delle prestazioni sociali, sulla base delle indicazioni riportate nell’art. 22. ”. Si ritiene utile rinviare altresì ulteriormente alle considerazioni espresse da G. MELONI, o.l.u.c.: La definizione dei livelli essenziali continua ad essere oggetto di rimando nei Piani Sanitari Nazionali, anche se ora approvati dal Governo; ma al contempo è precisato che i livelli essenziali debbono garantire l’uniformità delle prestazioni sull’intero territorio nazionale. Il collegamento dei livelli essenziali al concetto di uniformità aiuta a specificare meglio nella sostanza tale nozione rispetto al periodo precedente; infatti, pur nell’assenza pratica della definizione dei livelli essenziali, già il carattere universalistico del Servizio Sanitario si traduceva di fatto nell’assicurare pari servizi su tutto il territorio nazionale, intesi tanto come uguale offerta quantitativa, quanto come pari opportunità di accesso al Servizio Sanitario. Naturalmente si trattava di un’eguaglianza apparente, formale, giacché nei diversi territori l’efficienza delle strutture declinava diversamente il diritto effettivo alle prestazioni, anche in conseguenza della mancata definizione dei livelli di uniformità. Ciò che l’elaborazione del concetto di livello di assistenza doveva discriminare, al fine di definire i limiti del servizio universale e i contenuti dei diritti esigibili, diveniva il risultato immediato delle risorse impiegate e dei servizi offerti per mezzo di queste risorse. Tuttavia, è solamente in occasione dell’approvazione del Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (I Piani Sanitari Nazionali sono stati istituiti con l’articolo 53 della legge n. 833 del 1978, che aveva stabilito che venisse stilato il primo piano per il triennio 1980-82. In realtà il primo Piano Sanitario Nazionale fu approvato quindici anni più tardi ed esattamente il 23 luglio 1994, per il triennio 1994-96. Il Piano 1998-2000 fu approvato con d.P.R. 23 luglio 1998, n.d.e.) che finalmente troviamo la dizione corrente di “livelli essenziali” di assistenza, oggetto di questo studio. Pur ribadendo che tali livelli indicano l’ambito delle garanzie che il Servizio Sanitario Nazionale deve prestare in modo uniforme sul territorio nazionale, si aggiunge che: “sono definiti essenziali i livelli di assistenza che, in quanto necessari (per rispondere ai bisogni

67

E se già prima che la formula assumesse rango costituzionale la dottrina si era

occupata della «misura minima essenziale dei diritti sociali»

164

, dopo la riforma del

Titolo V un numero sempre maggiore di osservatori si è interrogato sulla valenza

semantica della clausola. E inoltre la nozione, invero, è subito assurta, in una lettura

corroborata dal Giudice delle leggi, a indice del delicato confine tra il riparto delle

competenze come delineato dal nuovo art. 117 Cost..

Quanto al primo profilo, senza soffermarsi sulle possibili distinzioni tra

categorie di diritti civili e sociali, va osservato che l’attenzione degli studiosi si è

concentrata sulla differenza tra «livelli minimi»

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e «livelli essenziali» e sul rapporto

fondamentali di promozione, mantenimento e recupero delle condizioni di salute della popolazione) ed appropriati (rispetto sia alle specifiche esigenze di salute del cittadino sia alle modalità di erogazione delle prestazioni), debbono essere uniformemente garantiti su tutto il territorio nazionale e all’intera collettività, tenendo conto delle differenze nella distribuzione delle necessità assistenziali e dei rischi per la salute”. Dunque, nell’aggettivo “essenziale” vi è un supplemento di significato concernente la necessità e l’“appropriatezza” della cura, unite a una maggiore flessibilità dell’utilizzo degli strumenti