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Il problema della discrezionalità amministrativa (continuazione)

Capitolo 3. Concetto e concezioni di Interesse Pubblico

3.4. Le concezioni individuate fino ad oggi e la letteratura sul concetto

3.4.3. Il problema della discrezionalità amministrativa (continuazione)

Molte delle riflessioni prodotte, più o meno negli stessi anni di quelle di Leys e Schubert (ma anche successivamente), in merito al problema di una definizione dell’Interesse Pubblico in grado di dipanare il nodo gordiano della discrezionalità amministrativa, non sembrano fare grandi passi avanti, e anzi, sebbene siano spesso presentate dai loro autori come soluzioni innovative, nascondono molteplici contraddizioni e gli stessi insanabili difetti che talvolta essi rimproverano ai loro predecessori.

Un esempio in tal senso è costituito da Emmette S. Redford, il quale accetta le descrizioni politologiche della group theory come elaborata da Bentley, Herring e Truman, ma vuole

all’ordine pubblico, quando sia gli obiettivi sia le procedure sono controverse, e si intenda evitare la guerra civile e il conflitto distruttivo.

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combinare tale approccio realista (“eticamente nichilista”) con la visione “utopica” del Bene comune (eticamente idealista) attraverso una ricerca dei “best means of strengthening the impact of the concept of the common weal in the decision-making process” (Redford 1954, 1103). Sembra che anche Redford cada nella trappola paventata da Freund e successivamente da Schneider di cui si è detto prima (il bisogno di un continuo rimando a qualche altro concetto che mantenga in vita la vaghezza che si vorrebbe eliminare), quando ad esempio dice che “the interests of men must be interpreted in the light of developments in society” (1954, 1106). Va bene inserire un collegamento dinamico con la contingenza storica o geografica, ma in che cosa questo dovrebbe aiutare la giustificazione della scelta amministrativa discrezionale?

Basandosi su alcuni spunti di Herring e di Avery Leiserson155, Redford vuole sganciare l’attività amministrativa dal condizionamento esclusivo dei gruppi, anche perché in tal modo il “real danger is that the interests of the unorganized and weak, the shared interests of men generally, and the interests of men for tomorrow will not have proper weight in government councils” (1954, 1109), e per questo prevede, da una parte, un ruolo maggiore per gli experts, che devono manipolare gli elementi discordanti verso i fini pubblici156, e, dall’altra, una serie di disposizioni strutturali (“arrangements”)157, le quali devono servire i pubblici interessi al di là di considerazioni particolaristiche. “An administrator who operates without political support from above will find that his manipulative powers are weakened and that capitulation to group demand is unavoidable. […] The unity within the executive branch argued can be achieved only if there is more unity in the Congress, and apparently this can be achieved only

155 I quali scrivono: “The offering of positive proposals by a responsible administration is then the first goal to

seek” (Herring 1936, 383), e si rifanno alla “independence of administrative initiative” (Leiserson 1942, 284), puntando così su un ruolo attivo dell’amministrazione nell’elaborare le istanze provenienti dai gruppi di interesse, non costituendo – come invece risulterebbe da una visione “integralista” della teoria di Bentley – semplici notai dei rapporti di forza esistenti tra i gruppi di interesse nella società, o, nelle parole di Earl Latham, un “cash register, ringing up the additions and withdrawals of strength, a mindless balance pointing and marking the weight and distribution of power among the contending groups” (Latham 1952, 37).

156 Manifestando ancora una volta una forma aggiornata di idealismo tecnocratico, che non appare risolutivo in

nessuna delle due situazioni possibili: infatti, in un caso (quello ove ci sia accordo tra i vari interessi in gioco) si tratta solo di dare concreta attuazione a un orientamento già determinato dall’accordo tra le parti (è lo stesso caso in cui si abbia a disposizione un testo di legge chiaro e definito, come quello auspicato da Freund, per cui all’amministratore non resta che l’implementazione tecnica, con margini di discrezionalità praticamente assenti o ridottissimi), per cui l’intervento dell’esperto è sostanzialmente meccanico; nell’altro (ove tale accordo non ci sia, e anche le leggi lascino spazio alla discrezionalità amministrativa, che è esattamente la situazione problematica di cui si sta qui discutendo) ci si affida all’esperto, inteso come “every form of intelligence which can be employed efficiently in the solution of problems” (p. 1109), per trovare soluzioni innovative e intelligenti al problema in questione. In tale secondo caso, come già Leys rimproverava Freund per spostare semplicemente il problema nelle mani del legislatore, si può rimproverare Redford di spostare il problema in quelle degli esperti.

157 Che consistono in: 1. evitare la diretta rappresentanza degli interessi nei consigli decisionali pubblici; 2.

preservare l’indipendenza dei funzionari pubblici da interessi riguardanti la propria giurisdizione; 3. creare un gruppo di esperti di soluzioni nel campo delle organizzazioni e delle procedure istituzionali, flessibile e trasferibile, che aiuti le varie amministrazioni nel trovare soluzioni innovative; 4. elaborare un codice etico per i funzionari pubblici.

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through provision of means by which a unified executive can work with organs of leadership in Congress” (1954, 1113). Come si vede, lungi dall’essere risolto, il problema centrale viene solo aggirato, attraverso l’affidamento a un qualche deus ex machina (gli esperti, il Presidente, il Congresso, etc.).

Problema analogo si pone per tutti gli autori che nascondono dietro un presunto approccio realista o “scientifico” l’immissione di più norme morali e valori di quanto essi pensino. Proprio questo, ad esempio, è il problema del saggio di Richard E. Klosterman (1980), il quale pretende di dirimere tutta la questione dell’Interesse Pubblico fornendo “a meaningful, empirically verifiable, and rationally defensible criterion for evaluating public policies” (1980, 323). Adottando la nozione dell’interesse come oggettivamente definito e quantificabile materialmente (di cui si è detto nel primo capitolo), Klosterman afferma di prendere le distanze dalla concezione utilitarista e dalla visione della group theory, ma finisce nel ricadere esattamente nelle panie concettuali che rimprovera a tali approcci, applicandone, in modo fallace, gli stessi criteri di base158.

Problemi simili, anche se questa volta con una consapevole assunzione dell’ottica utilitarista, si trovano nelle riflessioni di David Braybrooke (nell’antologia del 1962 a cura di Friedrich, alle quali seguono infatti i rilievi critici di Julius Cohen), oppure di J. Roland Pennock (1962)159.

158 Per chiarire la sua posizione, infatti, Klosterman ricorre ad un esempio pratico: “Consider, for example, a

proposal to build an urban expressway which will link an affluent suburban area with the central business district and pass through a well-established low-income neighborhood. Construction of the expressway will have diverse direct and indirect impacts on a wide range of individuals and groups. Suburbanites will benefit from the reduced cost and inconvenience of commuting. Neighborhood residents will suffer from a breakdown of their community and possible relocation to other areas. Indirect effects include impacts on land values, regional unemployment, ambient air quality, and on local, state, and federal taxes (and thus on taxpayers at all levels). Application of the proposed public interest criterion would not require the summation of the resultant pleasures and pains (as is the case for classical utilitarianism), or the aggregation of individual preferences (as is true for modern welfare economics). Rather, it would require a determination of whether the collective and individual benefits of improved transportation, increased employment, and higher property values (in some locations) outweigh the common and particular disbenefits of increased pollution, neighborhood disruption, and lower property values (in other locations). Techniques are currently available for evaluating each of these impacts in terms of publicly observable standards such as income, life expectancy, and wealth. Recognizing the severe theoretical and practical problems facing attempts to express all of these effects in monetary terms, these impacts are best considered in whatever units are appropriate-expected improvements in income, projected decreases in life expectancy, etc. Nevertheless, given limited resources, inadequate information, and rudimentary policy analysis techniques, any evaluation can only be a preliminary best estimate, subject to question and potential bias in the selection and analysis of available data” (1980, 329). I problemi, come è intuibile, sono: chi stabilisce i criteri della valutazione degli impatti della policy in questione? Nel momento in cui si ritiene necessario soppesare benefici e svantaggi relativi non si sta usando esattamente il modus operandi utilitarista? In che modo si comparano relativamente tra loro dati diversi quali reddito, attesa di vita e ricchezza? Non si tratta, come afferma Klosterman, di semplici problemi teoretici e pratici, piuttosto la fallacia consiste nel non riconoscere il ruolo di un qualche standard normativo che consenta di determinare il peso specifico di questi diversi fattori, e nel non realizzare che un tale standard ha necessariamente una natura etica e metafisica, oppure semplicemente non c’è.

159 Il quale, paragonando il concetto di Interesse Pubblico a quello di bellezza, cioè affermando che pur nella

inevitabile ambiguità del termine si trova comunque un fondamento su cui si può nella pratica convergere, sembra (inconsapevolmente) assumere un approccio di tipo intuizionista, demandando ai decisori pubblici

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In alcuni casi, poi, non si cerca neanche di trovare un modo filosoficamente valido di coniugare il piano normativo e quello descrittivo-scientifico, poiché si propone semplicemente la propria personale visione del mondo, presentandola come scientificamente fondata e logicamente coerente. Tale è il caso della riflessione di Harold D. Lasswell del 1962 (saggio anch’esso contenuto nell’antologia a cura di Friedrich, al quale non a caso – come per il saggio di Braybrooke – fanno seguito due scritti diversamente e pesantemente critici verso di esso: Friedmann 1962 e Nakhnikian 1962)160, del saggio di John D. Montgomery (nello stesso volume), il quale compie senza alcuna argomentazione un’equivalenza tra Interesse Pubblico e sviluppo (sul modello occidentale), oppure del libro di Marcus G. Raskin del 1986161. “Inexorably the concept of public interest leads one to search for criteria of general welfare, and the latter postulates values” (Griffith 1962, 17).

Per quanto diversi autori (soprattutto studiosi del campo dell’amministrazione pubblica) abbiano tentato di fornire criteri sempre più dettagliati e circostanziati di formulazione e

(amministratori, giudici, etc.) il compito di determinare nei singoli casi l’equilibrio meritevole di essere considerato Interesse Pubblico.

160 Le argomentazioni di Lasswell, d’altronde, sono attaccabili da molti punti di vista, almeno in un contesto di

discussione accademica e filosofico-scientifica (non ci sarebbero problemi, infatti, se si trattasse di un discorso di carattere politico, in cui si spiegassero le proprie convinzioni morali sul mondo). In primis, Lasswell dà per scontato, senza alcuna argomentazione in proposito, che l’Interesse Pubblico si può esplicare solo in accordo con il valore della dignità umana, e si coniuga fondamentalmente con la tradizione culturale (tipica dell’era liberale) dei princìpi espressi nella Dichiarazione di Indipendenza e nella “Charter of Human Rights” (immagino si riferisca alla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948). Come sottolinea Nakhnikian (1962, 90-92), quest’assunzione lascia del tutto inevaso il problema di una definizione condivisa del concetto, e confonde indebitamente degli elementi normativi con degli elementi presentati come “scientifici”. Come, tra l’altro, evidenzia correttamente Friedmann (che offre il punto di vista di un giurista sulla questione, fornendo argomentazioni in tutto e per tutto sottoscrivibili), “Lasswell’s paper is permeated by a methodological confusion between the ‘public interest’ and the various methods to implement and enforce whatever the public interest may be at a given time” (1962, 84). Ulteriore elemento di debolezza argomentativa, infine, è dato dal fatto che Lasswell fa addirittura un elenco di “beni” (ricchezza, salute, affetto, capacità, rettitudine, rispetto, istruzione e potere) che costituirebbero, in modalità variabili, l’Interesse Pubblico. Proprio l’Interesse Pubblico, allora, dovrebbe consentire agli individui di essere liberi di perseguire ognuno di questi beni secondo le proprie preferenze e con un grado minimo di coercizione esterna (si tratta della tradizionale visione politica liberale dello Stato minimo). Al di là di considerazioni di merito, quanto occorre rilevare è il rapporto di una concezione simile con la dimensione temporale, perché è un elemento di criticità che ritroveremo anche in altre riflessioni. Lasswell fornisce la sua visione morale della società politica e delle migliori (secondo lui) policies, praticamente elaborando la visione politica tipica di un intellettuale liberale americano degli anni Sessanta del XX secolo; Friedmann fa notare, allora, come solo trent’anni prima molti dei valori dati per scontati come interessi pubblici da Lasswell fossero lontani dall’essere accettati dalla società americana (esemplare è il caso della concezione del ruolo economico dello Stato e dell’evoluzione del Welfare State). La domanda che occorrerà allora porsi, in definitiva, sarà: qual è la relazione tra Interesse Pubblico e Tempo? Come vedremo, alcune concezioni possono essere considerate costanti e indipendenti dalla dimensione temporale, altre avranno invece una natura dinamica che inevitabilmente le legherà alla contingenza storica. Su tale questione si veda quanto scrive, tra gli altri, Gerhard Colm (1960, 298).

161 Un’analisi dettagliata del rapporto teoretico che lega Interesse Pubblico, interessi privati ed etica democratica

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analisi di politiche pubbliche secondo i termini dell’Interesse Pubblico – esempi in tal senso possono essere costituiti dalle riflessioni di Norton E. Long (1981), Charles T. Goodsell (1990) o Thomas J. Barth (1992) – nessuno sembra essere riuscito a colmare (o almeno inquadrare) in modo soddisfacente lo iato tra l’approccio normativo-etico presupposto dalle diverse concezioni dell’Interesse Pubblico e l’approccio empirico-scientifico che dovrebbe essere adottato per tradurre il concetto in modo da operativizzarlo e applicarlo nelle situazioni concrete della decisione amministrativa.

Si può, in verità, registrare un pregevole tentativo in tal senso nello schema elaborato da Carol W. Lewis nel suo articolo In Pursuit of the Public Interest (2006). La politologa americana, dimostrando una consapevolezza più profonda rispetto ai suoi predecessori in merito al problema delle diverse concezioni possibili di Interesse Pubblico, cerca di coniugare le diverse prospettive (ad esempio quella utilitarista-aggregativa, quella comunitarista- repubblicana e quella giusnaturalista) in un unico schema concettuale sull’azione amministrativa in grado di offrire un riferimento analitico completo, utile nel guidare l’amministratore così come l’analista. Il problema, tuttavia, è proprio la compresenza di riferimenti etici così diversi tra loro, poiché nella realtà di una qualsiasi scelta decisionale appare alquanto improbabile una loro convergenza concreta.

Se la strada di ricerca percorsa da molti amministrativisti si è rivelata, dunque, debole e inconcludente, ciò non dipende dalla insufficiente profondità analitica o dalla incapacità di elaborare modelli empirici adeguati, perché in molti casi (come per il saggio di Lewis di cui si è appena detto) si sono anzi prodotti schemi di analisi complessi e positivamente articolati. Il vero nodo è altrove.

Il problema della discrezionalità amministrativa è, a ben vedere, un problema generale di discrezionalità decisionale, applicabile non solo al campo dell’amministrazione pubblica ma anche a tutti i contesti in cui un decisore pubblico debba prendere (o non prendere – anche la preservazione dello status quo, ovviamente, è una decisione rilevante) una decisione pubblica (o autoritativa, per dirla con Easton).

Se le considerazioni finora svolte rendono conto della complessità teorica e della problematicità teoretica del concetto di Interesse Pubblico, altrettanto difficile appare la strada pragmatica, attraverso la quale si potrebbe cercare – come fa Stephen K. Bailey (1962) – di soffermarsi su dei casi concreti di policy-making per scovare caso per caso che cosa possa costituire Interesse Pubblico. Come Bailey dimostra nel suo saggio, infatti, l’analisi della realtà (di qualsiasi realtà) difficilmente offrirà appigli sicuri e ragionevolmente stabili per chi ancora non abbia ben chiaro che cosa stia cercando, e anzi evidenzierà tutta la difficoltà pratica di valutare nel modo corretto (sia sul piano di inquadramento descrittivo della situazione, sia sul piano etico e prescrittivo di che cosa sia meglio fare in tale situazione) le opzioni disponibili sul tavolo di un qualsiasi decisore pubblico162.

162 I due casi analizzati da Bailey, nello specifico, sono quelli di un Presidente degli Stati Uniti che, in periodo di

guerra fredda, deve decidere che cosa fare riguardo a una rivolta rivoluzionaria in un vicino paese dell’America latina (1962, 98-102) e quello di un cattolico leader della maggioranza nel Senato di uno stato (dove la Camera bassa è a maggioranza repubblicana e il Senato a maggioranza democratica) a cui il governatore protestante dello Stato, suo vecchio amico, chiede di appoggiare una legge per il finanziamento delle scuole pubbliche (1962, 102- 105).

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Il problema della discrezionalità decisionale, allora, non può certamente essere risolto con gli strumenti tipici dell’analisi delle politiche pubbliche perché, a ben vedere, è un problema propriamente filosofico-politico, concernente la diversità dei fini e dei criteri etici in grado di guidare non solo l’azione amministrativa, ma la stessa attività legislativa e più propriamente politica che ne costituisce la base. È la diversità dei criteri etici contenuti nelle varie concezioni dell’Interesse Pubblico che rende impossibile elaborare un unico quadro coerente e completo di applicazione concreta dell’Interesse Pubblico.

Per tale motivo, a questo punto, appare più utile concentrarsi, sulla falsariga di Leys e Schubert, sulla enucleazione di tali differenti concezioni nella letteratura. Come si è già accennato, tentativi di riflessione in tal senso sono stati compiuti da vari studiosi provenienti da diversi ambiti disciplinari (inclusi, ovviamente, gli studi amministrativi). Proprio a tali tentativi è dedicato il resto del presente paragrafo.

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