• Non ci sono risultati.

La strada universalista

Capitolo 2. Il pubblico: uno spazio a geometria variabile

2.7. La strada universalista

Una volta esplorati i percorsi storici del concetto di ‘pubblico’ nelle teorizzazioni e nelle dottrine riguardanti l’evoluzione di pubblico e privato, del rapporto tra potere politico e sfera autonoma della società civile, del ruolo della pubblicità e della ragione pubblica come condizioni del dibattito filosofico e del processo politico, possiamo cercare il senso più appropriato da attribuire al termine ‘pubblico’ nell’espressione ‘Interesse Pubblico’.

A questo punto, delle tre nozioni di pubblico individuate all’inizio del capitolo (A: soggettiva nel senso di Stato; B: soggettiva nel senso di collettività sociale; C: oggettiva come proprietà) da guardare con maggiore attenzione sembrano essere proprio la seconda (soggettiva nel senso collettivo-sociale) e la terza (oggettiva come proprietà); proprio queste, infatti, come si vedrà nel prossimo capitolo, appaiono fondamentali per comprendere le diverse concezioni dell’Interesse Pubblico. Sul piano filosofico, è certamente la terza quella

125 È sempre Habermas, in una nota, a chiarire maggiormente cosa si debba intendere quando si fa riferimento

alla generalità della legge. “La ‘generalità’ della norma, nel significato del concetto borghese di legge, non è già soddisfatta dal criterio formale dell’universalità; questo significato è soddisfatto soltanto se la formulazione generale che esclude dispense e privilegi non è indirizzata anche di fatto a nessun gruppo determinato all’interno della società entro rapporti sociali dati. L’efficacia giuridica della legge generale secondo criteri materiali non può essere selettiva; deve essere ‘elementare’ o ‘di principio’ e riferirsi alle basi dell’ordine sociale complessivo, perciò al possibile ambito di tutti i membri della società. Le norme giuridiche che regolano non solo i princìpi della convivenza sociale in generale, ma concrete situazioni nel quadro dell’ordinamento complessivo, si chiamano ‘specifiche’ per differenziarle da quelle generali, sebbene siano concepite come universali nella loro formulazione. Soltanto nella fase liberale del capitalismo la società civile borghese era tanto ‘separata’ dallo Stato, come sfera privata autonoma, che tendenzialmente la legislazione si limitava a un sistema di norme generali, e soltanto in questa fase la universalità della formulazione doveva implicare anche la generalità dell’effetto giuridico effettivo” (Habermas 1962, 206, nota).

92

che pone i maggiori problemi teoretici, eppure è proprio quella che appare anche più promettente.

Infatti, si può dire che sia la prima nozione che la seconda (cioè quelle soggettive, statuale e sociale) assumono un carattere relativo e contestuale, sono intrinsecamente condizionate cioè dalla diversità dei tempi e dei luoghi per quanto riguarda ciò che rientra nella sfera dello Stato (o delle autorità politiche in generale) o ciò che invece si trova nel dominio collettivo della società. Si è visto come dal periodo medioevale a quello moderno sia la stessa concezione della sfera pubblica a trasformarsi: da rappresentativa (feudale) essa diventa l’ambito, radicato nella società civile, di discussione critica delle questioni pubbliche stesse, in una dinamica tendenzialmente contrappositiva tra società civile (almeno nella sua componente borghese) come soggetto autonomo e potere politico assoluto. Dalla fine del XVIII secolo in poi, invece, i caratteri del politico e del pubblico vengono nuovamente trasformati in virtù del processo di evoluzione democratica, dell’allargamento del suffragio e dello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, arrivando al XX secolo, in cui si intrecciano sempre più – sovrapponendosi come mai nel passato – l’apparato dello Stato (divenuto Stato sociale) e la società civile di massa, rappresentata da partiti126 e gruppi di interesse, con l’apporto più o meno fondamentale dei mass-media giunti a pieno sviluppo. Nel nuovo contesto, da una parte l’opinione pubblica non è più l’incorruttibile tribunale della ragione dell’epoca illuministica, ma rappresenta (nel senso più della rappresentazione che della rappresentanza) la dimensione di un consenso di tipo plebiscitario ricercato dai diversi attori dell’arena politica e mediale; dall’altra la razionalità come proprietà tipica della ricerca filosofica e scientifica e specificamente la ragione pubblica per quanto riguarda la formazione dell’atto pubblico per eccellenza, cioè la legge, sembra perdersi tra gli infiniti rivoli delle dinamiche di gruppo della nuova società civile sempre più compenetrata allo Stato.

Per tutte queste ragioni è possibile parlare del pubblico come “uno spazio a geometria variabile”, perché sia nella sua nozione soggettiva statuale-istituzionale, sia nella sua nozione soggettiva collettiva-sociale, esso traccia i confini labili e cangianti di ciò che riguarda la collettività (più o meno estesa) di riferimento e ciò che invece rientra nella sfera del privato. Come si intuisce, tali confini risentono pesantemente della cultura di sfondo, delle concezioni politiche, etiche, religiose e della Weltanschauung propria dei diversi contesti in cui si tratti di individuare con precisione i confini di ciò che ha rilevanza pubblica.

La coscienza religiosa, solo per fare un esempio – ne abbiamo parlato a proposito della libertà degli antichi – assume rilevanza pubblica nell’Atene del V secolo a.C., oppure nella Ginevra di Calvino; appartiene invece al dominio del privato laddove dei diritti positivi sanciscano l’inviolabilità della libertà di culto, oppure dove semplicemente vigga un regime di relativista o liberale tolleranza.

In effetti, come chi abbia un minimo di dimestichezza con la pratica giurisprudenziale potrebbe confermare, non è possibile essere manichei o categorici neanche nell’applicazione

126 A proposito dei partiti si è giunti perfino a parlare di partiti-cartello come soggetti politici non più concepiti

come associazioni private diffuse nella società ma radicati, invece, nelle pieghe stesse dello Stato (vedi Katz e Mair 1995).

93

delle categorie di pubblico e privato che fa il diritto positivo127, figuriamoci a voler trovare definizioni (di pubblico e privato in questo caso) stabili a prescindere dalla relatività dei contesti.

Anche per questo abbiamo, nel primo capitolo, affermato la natura particolare (e non generale) del concetto di interesse nazionale, vista la inevitabile caratterizzazione particolaristica e contingente di una “comunità” nazionale.

Il concetto di pubblico, in definitiva, risulta pesantemente condizionato dalle concezioni propriamente politiche che uno Stato, una società o una determinata collettività adottano: in tal senso si comprende la citazione di Dewey posta all’inizio del capitolo, che definisce il

public come un political state: è la stessa forma della convivenza umana in un particolare

quadro politico (riguardante la configurazione della città come dominio della politica) che traccia i lineamenti di ciò che può dirsi pubblico.

Se, dunque, non è possibile individuare limiti certi e definizioni nette a proposito di ciò che è pubblico perché espressione dell’autorità politica-statale, e neanche di ciò che è pubblico in quanto appartenente alla sfera della collettività o di determinati gruppi sociali, non resta che provare a percorrere la terza via: quella della definizione oggettiva, che individua nel pubblico una dimensione caratterizzata dalla generalità e dall’astrattezza come proprietà, filosoficamente valida al di là dei molteplici contesti di applicazione.

Nel capitolo tale nozione è affiorata diverse volte: nel brano di George Cornewall Lewis, in cui il politico britannico fa riferimento alla pubblicità di un luogo pubblico come luogo a cui chiunque, in astratto, potrebbe accedere, o alla pubblicazione di un libro, per cui un testo diventa disponibile in generale (potremmo dire, con Popper, che entra nel mondo 3, abbandonando il mondo 2 dell’autore128); nel brano di Kant sull’illuminismo, in cui il filosofo tedesco evidenzia il carattere pubblico della relazione tra un filosofo e i suoi lettori; e, infine, nella descrizione che Habermas fa – a livello ideale – della sfera pubblica critica, nella quale è la discussione razionale tra eguali a proposito di affari di interesse generale a risultare propriamente pubblica (la stesssa discussione tra eguali individuata da Rawls nella definizione della concezione politica della giustizia).

Ma è, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la definizione di un quadro politico di riferimento che prescinda dai singoli contesti la vera sfida che la nozione oggettiva del pubblico deve affrontare. Solo laddove tale nozione del pubblico possa ricongiungersi, così come le altre due nozioni, ad un disegno politico, sarà possibile comprendere fino in fondo l’importanza del pubblico in un senso non particolaristico. La nozione oggettiva, infatti, è l’unica che potrebbe idealmente essere in grado di superare il problema della soggettività (che è una componente importante, come si è visto, anche nella determinazione del concetto di interesse) per solcare il più arduo – ma anche più promettente – piano della transoggettività,

127 Penso, ad esempio, ad una delle funzioni considerate tradizionalmente come emintemente appartenenti alla

sfera privata e familiare, quale l’educazione dei figli. Con la crescita dello Stato sociale tale funzione inizia ad essere considerata un diritto e un dovere nei confronti dello Stato, diventa cioè una questione pubblica. Anche al di là dell’istruzione obbligatoria, si pensi ancora ai casi in cui la stessa patria potestà dei genitori è messa in discussione, per motivi di interesse pubblico.

94

conferendo ad una concezione politica (nel senso specificato, ad esempio, in Cohen 2009) una proiezione di respiro universalista, che possa cioè cercare una giustificazione non all’interno di visioni particolaristiche della politica, ma piuttosto possa vantare – segnando una differenza ontologica di portata immane – una generale giustificabilità verso l’Altro.

Tale è l’aspirazione espressa dal filone di ricerca su una concezione universale della giustizia, che riesca a coniugare un ideale politico di convivenza, di eguaglianza e di libertà, alle più spinose questioni dell’identità e della storia (su questo vedi Maffettone 2002 e 2006). A ben vedere, in effetti, solo la nozione oggettiva potrebbe essere in grado di superare le difficoltà e le obiezioni derivanti invece dalle altre due nozioni del pubblico. L’obiettivo è, in definitiva, la riconciliazione delle dimensioni del pubblico e del politico su una scala che prescinda da contesti particolaristici, identità comprensive, supposte tradizioni, e che invece disegni e ponga le basi per la costruzione di una convivenza (in quanto tale politica) necessariamente globale.

Essere in grado di superare filosoficamente le difficoltà teoretiche e di sviluppare un modello che porti il pubblico verso il politico nella reciproca relazione tesa all’universale è l’unico modo, probabilmente, di superare anche la dicotomia, analizzata sopra, tra società e comunità, perché v’è un’unica comunità che realmente non può essere definita artificiale, inventata o surrettizia: è la comunità umana. E visto che sia i processi economici, sia quelli culturali e sociali non sono ormai necessariamente che pensabili in termini globali, non resta che provare la strada universalista anche sul piano della riflessione politica.

Dopotutto, come si domanda Dahl, “looking back a century hence, will observers view democracy in the national state rather as we view democracy in the city-state - as desirable in its time, perhaps, but rendered hopelessly obsolete by an inevitable shift to units governing on a transnational scale?” (Dahl 1999, 5).

Questa è la vera sfida che la teoria politica deve affrontare, nel concepire in modo utile e ambizioso il concetto di Interesse Pubblico.

95

Documenti correlati