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La concezione antica del pubblico come politico

Capitolo 2. Il pubblico: uno spazio a geometria variabile

2.3. Pubblico e privato

2.3.1. La concezione antica del pubblico come politico

Che cosa, nell’antichità, era considerato un fatto di rilevanza pubblica? Per rispondere e comprendere in che senso diciamo che la concezione antica è caratterizzata da una dimensione intrinsecamente politica, possiamo citare il paradigmatico incipit della Politica di Aristotele, già richiamato nel precedente capitolo, il quale recita:

Poiché vediamo che ogni stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene (perché proprio in grazia di quel che appare bene tutti compiono tutto) è evidente che tutte tendano a un bene, e particolarmente e al bene più importante tra tutti, quella che è di tutte la più importante e tutte le altre comprende: questa è il cosiddetto 'stato' e cioè la comunità statale.

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La comunità che risulta di più villaggi è lo stato perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice. Quindi ogni stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità: infatti esso è il loro fine e la natura è il fine [...] Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il fine, è il meglio e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste considerazioni è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole.

[Aristotele, Politica, I, 2, 1252a, 1252b, 1253a]

La comunità statale (koinwn…a politik»), fine naturale e massimo bene dell’uomo come animale sociale / politico (ζῷον πολιτικόν)74, è il contesto “naturale” al quale attribuire l’idea del pubblico (risulta scontato far notare che “koinwn…a” deriva proprio da quel “κοινόj” di cui si è detto sopra).

In essa si ritrovano sia il carattere della generalità, riferito alla dimensione collettiva che vede la partecipazione di tutti i cittadini su un piano di uguaglianza75, sia l’attribuzione, alla stessa collettività di cittadini, della titolarità della decisione collettiva, riguardante la collettività stessa della pόλιϛ, decisione per questo detta politica.

Ciò che caratterizza il “pubblico” nella sua concezione antica, infatti, è il suo essere un concetto essenzialmente ed esclusivamente politico.

A simboleggiare eminentemente questa equivalenza tra pubblico e politico è il luogo della città pubblico per antonomasia: l’ἀγορά, la piazza. La piazza era il luogo dove si discuteva

pubblicamente e dove si esercitava la pubblica autorità. E facile vedere come la nozione

soggettiva ed oggettiva del pubblico, nella pόλιϛ greca, fossero in realtà equivalenti.

Si potrebbe obiettare: non esisteva forse il privato delle mura domestiche? E donne, schiavi e meteci, privi dei diritti di cittadinanza e della titolarità politica, non sfuggivano forse a questa equivalenza? La risposta è no, in entrambi i casi. La migliore argomentazione in merito è quella fatta da Constant, secondo cui la libertà degli antichi

… consistait à exercer collectivement, mais directement, plusieurs parties de la souveraineté toute entière, à délibérer, sur la place publique, de la guerre et de la paix, à conclure avec les étrangers des traités d’alliance, à voter les lois, à prononcer les jugements, à examiner les comptes, les actes, la gestion des magistrats, à les faire comparaître devant tout le peuple, à les mettre en accusation, à les condamner ou à les absoudre; mais en même temps que c’était là ce que les anciens nommaient liberté, ils

74 Il fatto che tale espressione di Aristotele venga, nelle diverse versioni, tradotta a volta con l’aggettivo ‘sociale’

(sulla scorta di Tommaso d’Acquino) e a volte con l’aggettivo ‘politico’ non è in realtà un errore, piuttosto è il sintomo della sovrapposizione concettuale tra due idee che nella cultura greca antica erano praticamente coincidenti; essere parte della società significava anche essere parte della comunità politica, perché la pόλιϛ (città, ma anche Stato) racchiudeva naturalmente entrambe le dimensioni, almeno per i cittadini (tra cui – è bene ricordarlo – non comparivano né le donne né gli stranieri né gli schiavi, “naturalmente” esclusi dal possesso dei diritti politici, come spiega lo stesso Aristotele nei passi successivi della Politica).

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admettaient comme compatible avec cette liberté collective l’assujettissement complet de l’individu à l’autorité de l’ensemble.

Vous ne trouvez chez eux presque aucune des jouissances que nous venons de voir faisant partie de la liberté chez les modernes. Toutes les actions privées sont soumises à une surveillance sévère. Rien n’est accordé à l’indépendance individuelle, ni sous le rapport des opinions, ni sous celui de l’industrie, ni surtout sous le rapport de la religion. La faculté de choisir son culte, faculté que nous regardons comme l’un de nos droits les plus précieux, aurait paru aux anciens un crime et un sacrilège.

Dans les choses qui nous semblent les plus utiles, l’autorité du corps social s’interpose et gêne la volonté des individus; Terpandre ne peut chez les Spartiates ajouter une corde à sa lyre sans que les éphores ne s’offensent. Dans les relations les plus domestiques, l’autorité intervient encore. Le jeune Lacédémonien ne peut visiter librement sa nouvelle épouse. A Rome, les censeurs portent un œil scrutateur dans l’intérieur des familles. Les lois règlent les moeurs, et comme les moeurs tiennent à tout, il n’y a rien que les lois ne règlent.

Ainsi chez les anciens, l’individu, souverain presque habituellement dans les affaires publiques, est esclave dans tous les rapports privés. Comme citoyen, il décide de la paix et de la guerre; comme particulier, il est circonscrit, observé, réprimé dans tous ses mouvements; comme portion du corps collectif, il interroge, destitue, condamne, dépouille, exile, frappe de mort ses magistrats ou ses supérieurs; comme soumis au corps collectif, il peut à son tour être privé de son état, dépouillé de ses dignités, banni, mis à mort, par la volonté discrétionnaire de l’ensemble dont il fait partie.

[Henri Benjamin Constant de Rebeque (1819), De la liberté des Anciens comparée à celle

des Modernes]

Niente, insomma, sfuggiva al controllo politico pubblico, e non si può, in effetti, parlare in alcun modo di una dimensione privata: i cittadini “sono liberi in quanto membri del corpo politico, ma non lo sono in quanto privati cittadini. Come legislatori brandiscono minacciosamente lo scettro del comando, sono onnipotenti, ma proprio perché possono tutto possono disporre sovranamente anche dell’esistenza privata dei singoli” (Pecora 2004, 8), e se potevano disporre della vita e della morte dei cittadini (come non pensare al processo di Socrate, che, nella pur singolare situazione ateniese, assai più aperta rispetto alle altre πόλειϛ e unico caso a vantare addirittura – come riconosce lo stesso Constant – alcune similarità con l’esperienza moderna, venne condannato a morte per empietà?), figurarsi quanto donne e schiavi potessero pensare di trovare rifugio nel privato delle mura domestiche (discorso analogo vale per i meteci, sebbene con diverse modalità). Questa sovrapposizione tra pubblico e politico, soprattutto nei contesti meno aperti – esemplare, da questo punto di vista, è il caso di Sparta, preso a paradigma di “società chiusa” anche da Karl R. Popper (1945) – permette di dire che in un certo senso “la democrazia degli antichi era una democrazia totalitaria, centrata sulla figura del ‘cittadino totale’, che ignorava la distinzione fra la sfera pubblica e la sfera privata” (Pellicani 1997, 254), e in cui non esiste un reale “principio di libertà soggettiva” (Hegel 1821, par. 185) e “la liberté individuelle ne pouvait pas exister. Le citoyen était soumis en toutes choses et sans nulle réserve à la cité; il lui appartenait tout entier” (Coulanges 1864, Livre III, chapitre XVIII).

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L’ἀγορά è il luogo dove si celebra, anche sul piano architettonico, la coincidenza del fatto pubblico con il fatto politico. Ad Atene, ad esempio,

... si trovavano nell’agorà il buleutérion, l’edificio nel quale si riuniva il Consiglio dei Cinquecento (la più autorevole magistratura collettiva della città), e la residenza dei Prìtani, che era [...] la sede del governo. Vi erano anche l’archivio pubblico, custodito nel tempio di Cibele, detto Metróon, e il portico del Re, sulle pareti del quale venivano incise nella pietra le leggi più importanti della città, in modo che i cittadini potessero sempre consultarle. [...] In una località della piazza vi erano le statue degli Epònimi; così erano chiamati gli eroi leggendari ritenuti capostipiti di ciascuna delle dieci tribù in cui Atene era divisa. A queste statue venivano affisse le proposte di nuove leggi, che il popolo era chiamato a discutere nell’Assemblea, e tutte le comunicazioni ufficiali.

[...]

Centro anche di vita religiosa, l’agorà accoglieva nella sua ampia area molti fra i tempi più venerati. [...]

Nelle ore intorno al mezzogiorno [...] tutti i cittadini, che non avessero particolari impedimenti od occupazioni, si riversavano nella grande piazza. Questa è la ragione per la quale, leggendo i testi greci, si ha l’impressione che, anche nelle città più grandi, i cittadini, fra loro, si conoscessero un po’ tutti. L’incontrarsi, il parlare insieme, il discutere, in una città greca, e in particolar modo nelle città democratiche dell’età classica, era una necesità.

[Ugo Enrico Paoli (1957), Come vivevano i Greci, pp. 20-21]

Nell’interpretazione di Constant ragionamenti analoghi, per i quali il publicum aveva una valenza politica, potrebbero riferirsi in generale alla cultura antica, poiché proprio la Res

Publica o il common wealth, che letteralmente denotano la “cosa pubblica” o il “bene

comune”, assurgono, come già visto, al duplice significato politico e sociale di ‘autorità statale’ e di ‘comunità politica’ (in sostanza confermando un’equivalenza tra le due nozioni soggettive individuate sopra).

Tuttavia, l’estensione del ragionamento portato avanti per il caso greco – all’interno del quale tra l’altro Atene rappresenta (come evidenziato dallo stesso Constant) sicuramente un caso eccezionale – alla generalità delle culture antiche (gli altri riferimenti che Constant fa nel suo discorso sono alla cultura romana repubblicana e a quella gallica) è, chiaramente, un’operazione teorica che meriterebbe diversi approfondimenti e studi storici assai meno superficiali rispetto ai veloci accenni contenuti nel discorso di Constant, che non possono certo essere acquisiti acriticamente76. Anche perché proprio a Roma nasce, nella teoria del diritto, la grande distinzione compiuta da Ulpiano riportata nei Digesta di Giustiniano, tra cio che riguarda il diritto pubblico come “quod ad statum rei romanae spectat” e diritto pirvato come “quod ad singulorum utilitatem pertinet”, con un evidente parallelismo con ciò che scriveva Habermas sopra a proposito della cultura germanica antica.

76 La magistrale opera di Fustel de Coulanges, La cité antique (1864), da questo punto di vista, appare un punto

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Quanto qui ci interessa, ad ogni modo, è l’aspetto puramente teorico e idealtipico della contrapposizione tra una concezione antica e moderna del pubblico, per cui si può dire che nelle πόλειϛ che seguono il modello spartano, in definitiva, non esisteva una dimensione privata, e le particolari configurazioni socio-politiche e istituzionali permettevano un’identificazione pressocché completa tra ciò che era considerato “pubblico” e ciò che aveva valenza politica.

2.3.2. La nascita della società civile e dell’individuo. La concezione moderna del

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