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Il quadro socioeconomico dell’Umbria tra 1951 e

in Umbria prima e dopo l’Autunno caldo: una prospettiva quantitativa

2.  Il quadro socioeconomico dell’Umbria tra 1951 e

Per comprendere meglio come si espressero scioperi e pro- teste operaie in Umbria a cavallo dell’Autunno caldo, e perché furono meno radicali che nelle aree del settentrione, è necessario

6.  Pregi e difetti di entrambe le tipologie di fonti saranno specificati più avanti nel testo.

volgere lo sguardo all’evoluzione occupazionale, demografica e produttiva conosciuta dalla regione nel ventennio 1951-1971. In quel lasso di tempo le province di Perugia e di Terni furono attraversate da mutamenti che ne stravolsero la struttura econo- mica e sociale. Da zone eminentemente agricole (con l’eccezione delle città di Terni e Narni), in cui da secoli eccelleva il contratto mezzadrile come modalità di sfruttamento della terra, esse di- vennero zone in cui predominavano le attività dell’industria e del terziario. Come si evince dalla tabella 1, che rielabora i dati della popolazione attiva in condizione professionale contenuti nei censimenti generali della popolazione, tra l’inizio degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta il peso percentuale degli attivi in agricoltura sul totale si ridusse di oltre la metà, mentre quello degli attivi nei servizi quasi raddoppiò e quello degli atti- vi nell’industria crebbe di oltre due terzi.

Tab. 1: Distribuzione percentuale della popolazione attiva in condizione

professionale in Umbria (1951-1971) 1951 1961 1971 Agricoltura 56,27 40,85 20,67 Industria 25,24 34,46 42,89 Terziario 18,49 24,69 36,44 Totale 100,0 100,0 100,0

Fonte: elaborazioni da Istat, Censimento generale della popolazione ita-

liana, Roma, ad annum.

Le campagne si svuotarono a causa dell’entrata in crisi del sistema di conduzione della mezzadria, del mancato rinnovo dei patti agrari e dell’innesco del boom economico (che rilanciò l’e- spansione edilizia anche in Umbria), mentre le famiglie tesero ad abbandonare piccoli nuclei abitati e case sparse e a concentrarsi nei centri urbani di una certa consistenza. Dal 1951 al 1971 i re- sidenti nei primi passarono dal 51,9% al 32,6% della popolazio-

ne, mentre gli abitanti dei comuni oltre le 10.000 unità passarono dal 64,15% al 72,56% della popolazione. La regione, però, rimase priva di grandi città: nel 1961 solo Perugia superava i 100.000 abitanti, affiancata da Terni nel 1971, e sui 92 comuni che compo- nevano le due province, per tutto il periodo in questione, i centri con oltre 50.000 abitanti passarono appena da 2 a 37.

Il crollo degli attivi nel settore primario, inoltre, non si tradus- se in una proporzionale impennata di attivi nell’industria e nei servizi, come si deduce dal grafico 1.

Graf. 1 – Andamento dei tassi di attività maschili e femminili in Um- bria (1959-1975)

Nota: i tassi di attività sono calcolati in rapporto alla popolazione presente.

Fonte: Istat, “Annuario di statistiche del lavoro e dell’emigrazione”,

ad annum.

I tassi di attività dei maschi in agricoltura diminuirono di oltre

7.  Elaborazioni dai dati contenuti in Luigi Tittarelli, Evoluzione demografica

dall’Unità a oggi, in Renato Covino e Giampaolo Gallo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, Torino, Einaudi, 1989, pp. 156-157 e 160-161.

Sui processi di de-ruralizzazione e industrializzazione della regione durante la seconda metà del Novecento si vedano Renato Covino e Giampaolo Gallo, Le

contraddizioni di un modello, in Idd. (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 113-133 e

Renato Covino, Umbria. Dati e caratteri della grande trasformazione (1950-1980), in “Proposte e ricerche”, 2005, 55, pp. 34-45.

tre volte tra il 1959 e il 1975 e quelli delle femmine di oltre cinque, ma i tassi di attività negli altri settori, per gli appartenenti a entram- bi i sessi, crebbero solo di pochi punti percentuali. La ragione di tale sfasamento è da ricercare negli elevati flussi emigratori, che fino agli anni Settanta non solo impedirono alla popolazione di crescere, ma la fecero addirittura diminuire. Il saldo migratorio verso le altre regio- ni italiane fu negativo fino all’intervallo 1971-1975, quando le nuove iscrizioni presso gli uffici anagrafici umbri superarono le cancellazio- ni, mentre quello verso l’estero fu negativo fino all’intervallo 1966- 1970, quando i rimpatri sopravanzarono gli espatri. Se i residenti in Umbria nel 1951 erano 803.888, vent’anni dopo si erano ridotti a 775.7838. In altre parole, nel periodo 1951-1971 il territorio regiona-

le si instradò, lentamente e con fatica, su un sentiero di sviluppo e di modernizzazione, sviluppo confermato da un incremento del pil pro-capite superiore a quello, ad esempio, della Lombardia (il quale era però ben più elevato in termini assoluti)9. Tale percorso non fu tut-

tavia in grado di compensare la perdita di peso del settore agricolo né di impedire il depauperamento demografico né, dunque, di avviare un’urbanizzazione sostenuta. L’industria e i servizi, pur espandendo- si, non ebbero la capacità di assorbire la sovrabbondanza di offerta di manodopera che si liberava dalle campagne.

Il settore secondario si contraddistinse per una diffusione e un rafforzamento dei comparti cosiddetti leggeri (abbigliamen- to, maglieria, lavorazione del legno, beni alimentari, laterizi e

8.  Luca Calzola, Andamento e caratteristiche strutturali della popolazione, in Mario Tosti (a cura di), Storia dell’Umbria dall’Unità a oggi, vol. 1, Uomini e risorse, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 9-10 e 30, tab. 1; Odoardo Bussini, Da regione di emi-

granti a regione di immigrati, ivi, pp. 48-51, 67, tab. 1 e 71, tab. 3. Si ricorda che i

tassi di attività misurano il rapporto tra le forze di lavoro (occupati e in cerca di occupazione) e la popolazione di un dato territorio.

9.  Dal 1951 al 1971 il pil pro-capite regionale passò da 3.538 euro, calcolato a prezzi costanti 2010 a parità di potere d’acquisto, a 11.071 euro, con un incremento di 212,92 punti (considerato 100 il valore del 1951). Nello stesso lasso di tempo il pil pro-capite lombardo passò da 6.723 euro a 16.581, con un incremento di 146,63 punti. Elaborazioni dai dati contenuti in Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà.

materiali da costruzioni, carpenteria metallica, fabbricazione di attrezzi e macchinari agricoli), senza tuttavia che si creasse una particolare specializzazione produttiva né un addensamento ter- ritoriale di piccole e medie aziende. Il progresso della manifat- tura, perciò, non assunse l’aspetto dei distretti industriali che si potevano rinvenire nelle regioni confinanti (Toscana e Marche), bensì quello di una crescita disordinata di imprese dalla bassa produttività, poco dotate dal punto di vista tecnologico e, come si intuisce guardando la tabella 2, di ridotte dimensioni. Un in- soddisfacente grado di accumulazione del capitale, così come una scarsa dotazione nel campo dei trasporti e in quello del cre- dito, erano alla base di una simile evoluzione10.

Tab. 2: Distribuzione degli addetti all’industria1 in Umbria nelle unità lo- cali, distinte per numero di addetti che vi lavoravano (1951-1971)

1951 1961 19712 1-10 addetti 32,46% 33,63% 29,91% 11-100 addetti 20,47% 28,61% 32,51% 101-500 addetti 17,47% 15,70% 17,05% 501-1.000 addetti 7,78% 5,43% 5,95% > 1.000 addetti 21,82% 16,63% 14,57% Totale 100,0% 100,0% 100,0%

Note: 1 Nella categoria “industria” sono stati compresi i comparti minerario,

manifatturiero in senso stretto, della costruzione e installazione impianti, della produzione e distribuzione di luce, gas e acqua. 2 Nel censimento del 1971 le par-

tizioni per numero di addetti erano: 1-9, 10-99, 100-499, 500-999, ≥ 1.000.

Fonte: elaborazioni da Istat, Censimento generale dell’industria e del

commercio, Roma, ad annum.

10.  Bruno Bracalente, L’Umbria nel modello di industrializzazione diffusa, in R. Covino e G. Gallo (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 466-485; Ruggero Ranieri, Gran-

de industria e sistema industriale, in M. Tosti (a cura di), Storia dell’Umbria dall’Unità a oggi, vol. 1, cit., pp. 197-201; Francesco Chiapparino, L’imprenditoria, ivi, pp. 252-257.

Gli stabilimenti piccoli (fino a 100 addetti) crebbero dal 52,93% del totale nel 1951 al 62,42% nel 1971, mentre quelli medi (da 101 a 500 addetti) rimasero praticamente stabili e quelli grandi (ol- tre i 500 addetti) diminuirono dal 29,6% nel 1951 al 20,52% nel 197111. Nondimeno, ditte pubbliche e private di media e grande

scala quali, ad esempio, le acciaierie di Terni, la Polymer, la Ter- ni Chimica, l’Elettrocarbonium e la Ceramiche Pozzi nella parte meridionale dell’Umbria e la Perugina, la Colussi, la Spagnoli e la So.Ge.Ma in quella centrale e settentrionale continuarono ad essere attive e a ricoprire il ruolo di principali controparti della mobilitazione operaia negli anni a cavallo dell’Autunno caldo.

L’ambiente in cui si verificarono le agitazioni dei lavoratori tra fine anni Sessanta e inizi anni Settanta, perciò, era contraddi- stinto dall’assenza di grandi concentrazioni urbane in frenetica espansione, da un deflusso di forza lavoro verso l’esterno della regione, da un contemporaneo travaso di manodopera dall’agri- coltura all’industria e ai servizi, da un tessuto manifatturiero in crescita trainato da piccole aziende di comparti labour intensive. All’interno di tale tessuto, inoltre, operavano poche società di grandi e medie dimensioni, che non si dedicavano, a parte alcu- ne eccezioni, a produzioni in serie di merci standardizzate quali i beni di consumo durevole o a raffinazioni di materie prime su grandi lotti, bensì alla creazione di semilavorati metallici e mec- canici (a volte su commessa) o di beni di consumo deperibili. Un quadro ben diverso da quello che si poteva riscontrare nei ca- poluoghi regionali del Nord-Ovest del Paese o nel polo di Porto Marghera12.

11.  All’eventuale obiezione che si potrebbe addurre a questi calcoli, e cioè che un’azienda avrebbe potuto avere più di una unità locale disposta sul territo- rio regionale, si risponde che la quasi totalità delle unità locali censite in Umbria faceva riferimento a una sola impresa.

12.  Robert Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi

italiana, Firenze, Giunti, 1998, pp. 34-44 e 157-164; Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 20052, pp. 321-336; Stefa-

no Musso, Il 1969 a Torino: il conflitto industriale nella città-fabbrica, in P. Causarano, L. Falossi, P. Giovannini (a cura di), Il 1969 e dintorni, cit., pp. 205-213.