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Una parabola al femminile

vimento operaio

4.  Una parabola al femminile

C’è una parabola tutta al femminile che racconta lo sviluppo della presenza sindacale in fabbrica e delle sue parole d’ordine alla fine degli anni Sessanta. È una sorta di tragitto, sicuramente non lineare ma comunque emblematico di un avanzamento.

Nel 1968 alcune operaie autodefinitesi “vedove e le signorine” della Magrini, da qualche tempo in cassa integrazione, firmano una lettera in cui chiedono alla direzione aziendale di essere rein- tegrate in fabbrica in sostituzione delle mogli dei dipendenti già assunte che “lavorano per il lusso”40. È la testimonianza di una

classe operaia estremamente frammentata e ben lontana dall’u- nità che negli anni immediatamente successivi sarebbe diventata una priorità assoluta per il sindacato dei Consigli. Colpisce, nella lettera, il tono deferente con cui le lavoratrici si rivolgono alla di- rezione aziendale, confidando in un “benevolo” interessamento e comprendendo che “la nostra Ditta cerca tutte le vie meno disa- strose per venirci incontro”41. Un tono stonato rispetto al passag-

gio in cui le “vedove e signorine” si riferiscono alle colleghe, per le quali “il disagio non esiste”42. Il documento, redatto senz’altro

sulla spinta delle preoccupazioni di mantenere se stesse e le fa- miglie, è in ogni caso indicativo di certo individualismo.

Dalla vicenda delle lavoratrici della Magrini si passa, pochi mesi dopo, a quella della In.Ca.B. (Industrie Camicerie Berga-

40.  Lettera al sindacato di un gruppo di operaie della Società Magrini di Bergamo, 23 gennaio 1968, in Archivio Fiom-Cgil di Bergamo, in fase di riordino, conservato presso ABDV-Cgil BG.

41.  Ibidem. Corsivo mio.

masche), azienda tessile che all’inizio del 1969 vive uno scosso- ne dettato dall’iniziativa che alcune operaie assumono contro il “padrone” e il suo “scagnozzo”. La vicenda è riferita nella rela- zione di una funzionaria della Fiom di Bergamo. Se ne riportano di seguito alcuni passaggi particolarmente interessanti sia per il linguaggio adoperato sia per l’aneddotica, che è in sé simbolo di un germinale cambiamento in atto. Nella prima parte della rela- zione si fa riferimento al clima di sudditanza in cui si trovano le maestranze, la cui composizione è per il 95% femminile e in gran misura giovane (tra i 15 e i 25 anni). La direzione viene definita “di tipo dittatoriale-paternalistico”:

Nelle maestranze la coscienza politica è scarsissima; esiste però un generale malcontento dovuto ai bassissimi salari e al trattamento car- cerario e inumano praticato dal quadro dirigente e in modo partico- lare dal direttore […].

Questi è la tipica figura dello scagnozzo del padrone che fa di ogni sistema di coercizione, minaccia, repressione e negazione dei più ele- mentari diritti umani, la sua ferrea regola quotidiana con la quale quasi sempre [è] riuscito a sottomettere le maestranze ed a tenerle zitte.

È appunto grazie a questa “disciplina interna” che il titolare […] si può permettere di fare “il buon padrone”, che a Natale regala il pa- nettone alle sue dipendenti, o un servizio di posate se qualcuna si sposa, e se proprio una ragazza ha bisogno di un paio di giorni di permesso, magari perché le è morta la madre, lui, bontà sua glielo concede e magari manda anche una corona di garofani con la scritta [recante il nome della ditta].

Sono poi reazionarie quelle poi che reclamano perché la corona è stata pagata dalle operaie, con un’illecita trattenuta di 100 lire a testa della busta paga, e lui […] non ci ha mai messo una lira, ma solo la bella fi- gura, e qualcun altro ancora ha trattenuto nelle proprie tasche il resto, sistematicamente per anni, giacché cento per duecento fa ventimila e una corona di garofani costa dalle dodici alle quindicimila lire. […] questo atteggiamento di “padrone buono” piace molto al titolare della IN. CA. B., il quale, fra l’altro, si compiace di dire a chiunque gli capiti a tiro, che lui ha fatto tanto bene alle sue operaie e che lo hanno

anche ringraziato in molte (non si è mai capito chi fossero queste e perché lo avrebbero fatto).

Se si considera poi il grado di sfruttamento cui sono sottoposte le operaie, le quali sono obbligate a consegnare ogni giorno un alto nu- mero di produzione senza nemmeno usufruire, non dico del cottimo o premio di produzione, ma neanche dell’8% di mancato cottimo, previsto dal contratto di lavoro, allora bisogna dire che questo [pa- drone] è davvero abile nel manovrare il suo BURATTINO DIRETTO- RE, ed è appunto grazie a questa sua abilità che si può permettere di affermare che lui, non obbliga proprio nessuno a pressanti ritmi di lavoro, ma che, certo, se le operaie gli fanno tanta produzione perché gli vogliono bene, lui che ci può fare?!!!...43

La situazione descritta nel frammento della relazione non era circoscritta a questa azienda e i comportamenti da “padrone buo- no” erano frequenti in molti altri contesti. La novità che si snoda lungo tutto il 1968, acquisendo però maggiore forza già nel gen- naio del 1969, pochi giorni prima della stesura della relazione stessa, fu rappresentata dall’intervento di un gruppo di giovani operaie che pretesero e ottennero di “rifare” la Commissione in- terna, da sempre imposta dal datore di lavoro. Queste ragazze sentirono “il bisogno di ricercare qualcuno da delegare a questo compito, del quale sarebbero state perfettamente all’altezza, sia per intelligenza, sia per coscienza di classe e versatilità”44.

L’intervento, messo in atto in sinergia con il sindacato e con la locale sezione del Partito comunista, permise anzitutto di respin- gere la proposta del proprietario dell’azienda, che aveva elabora- to un contratto aziendale in cui si prevedeva un aumento del 5% sulla paga base se la Commissione si fosse rifiutata di scioperare. Si elaborò poi una piattaforma rivendicativa piuttosto articola- ta, basata sul pagamento del mancato cottimo, sulla regolariz-

43.  Relazione sulle condizioni di lavoro, 24 gennaio 1969, in Archivio Filtea Cgil Bergamo, fald. «III / 10 Fabbriche varie [1958-1987]», fasc. 5, conservato presso ABDV-Cgil BG.

zazione dell’orario di lavoro, sulla istituzione di un premio di produzione, sulla regolarizzazione delle qualifiche e, in partico- lare, sul rispetto della dignità delle lavoratrici. L’irata reazione del direttore portò allo stato di agitazione e a scioperi che videro la partecipazione dell’80% delle maestranze: una situazione fino a poco prima inimmaginabile per un’azienda tessile di Bergamo a prevalente manodopera femminile. In attesa della conclusio- ne della vertenza, vennero intraprese altre forme di protesta per denunciare i comportamenti repressivi delle maestre, tra cui il temporaneo abbandono delle macchine in un reparto della pro- duzione. Si legge dunque nella relazione che, all’alba del 1969, a prescindere dal risultato conseguito, la mobilitazione delle ope- raie rappresentava un enorme salto in avanti nella rivendicazio- ne della dignità del lavoro:

Infatti, la vivissima soddisfazione e l’entusiasmo che si leggeva nel volto di tutte, era determinato, non tanto dal risultato materiale, ma dal risultato morale della lotta, che finalmente aveva messo il padro- ne nelle condizioni di dover capitolare, di dover cedere alle richieste delle operaie e tanto più dura è stata la lotta, tanto maggiore la soddi- sfazione della vittoria, anche, e non ultima per la C.I.

[…] La barriera di servilismo, sfiducia, rassegnazione e paura, che era di ostacolo ad ogni innovazione e ad ogni conquista morale ed economica, questa barriera è stata oggi abbattuta attraverso la bril- lante prova di coscienza di classe data dalle maestranze nel corso della vertenza.

La fiducia in sé stesse che queste ragazze hanno acquisito attraverso questa esperienza, ha aperto la strada all’avanzamento di una po- litica nuova, che porterà maggior benessere ai lavoratori e migliori condizioni di vita45.

La vicenda delle operaie della In.Ca.B. potrebbe essere presa a esempio per spiegare il ruolo del sindacato come guida del- le agitazioni spontanee e come istituzione formativa: il sapere

operaio si traduce in pratiche di lotta che determinano un cam- biamento ascrivibile soprattutto all’atteggiamento e dunque alla frantumazione delle barriere di “servilismo, sfiducia, rassegna- zione e paura” (sentimenti che si percepiscono nei toni deferen- ziali delle “vedove e signorine” della Magrini) che resistevano pervicacemente in quel contesto.

Più di dieci anni dopo, quasi a compimento della parabola a cui si è accennato, un’altra relazione, stavolta di una anonima delegato al Coordinamento donne, scoperchiava la condizione personale delle lavoratrici a partire dalla mancanza di tempo per vivere la propria esistenza. Quella dell’anonima delegata è una invocazione, una richiesta di aiuto, di supporto per riappropriarsi della propria vita dentro, ma soprattutto oltre il tempo del lavoro in un contesto sindacale già mutato, fatta usando parole chiare, sincere, dirette, molto diverse da quelle di chi scrisse la relazione sulle operaie della In.Ca.B.46. È il personale che entra prepotente-

mente nel politico rivendicando un proprio spazio, un diritto di rappresentanza. A testimonianza del fatto che il percorso, all’i- nizio degli anni Ottanta, non era ancora compiuto – e del resto non lo è ancora oggi –, ma anche a testimonianza del fatto che la storia del 1969 è stata la storia di un attraversamento o, di nuovo, di uno sconfinamento oltre il recinto della subordinazione a cui la classe operaia, e in particolare la classe operaia femminile, era stata costretta. Crollava un ulteriore muro: quello del “maschile” come categoria concettuale per interpretare il lavoro.

È un punto da cui si diramano in tante rette parallele le bat- taglie per cambiare la propria condizione. Nel 1969, per la prima volta, la lotta era tutta incentrata sull’autodeterminazione, l’e- mancipazione – altre parole nuove e ricorrenti – e questa doveva

46.  Relazione di un’operaia, s.d. [1981?], in Corso organizzato dal gruppo donne

Cgil Femminile/Plurale. Tempi di vita tempi di lavoro, in Archivio Fiom-Cgil di Berga-

mo, b. «Coordinamento donne 1979-1997», fald. «7/C», fasc. 5, in fase di riordino, ABDV-Cgil BG. Il passaggio a cui si accenna è riportato in R. Villa, Percorsi di

passare per il salario, certo, ma soprattutto per il riconoscimento della dignità personale.

E a proposito di dignità e di riconoscimento di un diritto alla cittadinanza a tutto tondo, occorre segnalare – pur non essen- do questa, anche per limiti di spazio la sede adatta ad affrontare il tema – che all’esterno delle fabbriche si iniziava ad agitare il mondo dell’istruzione, con il quale il movimento operaio avreb- be saldato negli anni successivi un solido rapporto soprattutto nei corsi delle 150 ore47.

Infine, una prima ricognizione di ulteriori materiali recente- mente acquisiti dalla Biblioteca “Di Vittorio”48 consente di affer-

mare che il movimento studentesco bergamasco si costituì pro- prio nel 1969. Si trattava di un movimento di soli studenti medi49

(l’università era nata a Bergamo solo nel 1968) e si presentò dap- prima con le occupazioni dell’inverno, tramite le quali si riven- dicava una diversa politica urbanistica per gli edifici scolastici, spesso inadeguati e fatiscenti; poi, in autunno con nuove mo- bilitazioni e piattaforme contro la cultura autoritaria. Colpisce in particolare la richiesta dell’abolizione della valutazione o, co- munque, la richiesta di partecipazione agli scrutini: il voto come misura classificatoria e repressiva doveva essere eliminato. Men- tre gli operai in fabbrica cercavano di essere categorizzati con cri-

47.  Si veda Paolo Barcella, Le 150 ore nella provincia di Bergamo, in E. Valtuli- na (a cura di), Questa voglia di cambiare la condizione umana, cit., pp. 267-301.

48.  Il riferimento è al Fondo Mauro Gruber, in cui sono depositati preva- lentemente periodici della cultura underground e pubblicazioni studentesche.

49.  Il recente lavoro di M. Galfré, La scuola è il nostro Vietnam, cit., rappresen- ta un importante contributo rispetto al ruolo, spesso sottostimato, degli studenti medi nell’assumere e nel promuovere comportamenti e prassi, anche politiche, fortemente antiautoritarie nell’ambito movimenti collettivi del ’68 e della sua lunga coda. In particolare, se ne evince che la fine degli anni Sessanta segna l’in- gresso pieno e definitivo di questa categoria sociale e generazionale – finalmente identificabile come insieme omogeneo (perché uscita per prima dalla scuola me- dia unica introdotta dal centro-sinistra nel 1963 e perché principale destinataria di una fase ormai compiuta della politica dei consumi) – nella vita pubblica del Paese.

teri più equi e basati sulla professionalità effettiva del soggetto, ma senza dimenticare la dimensione collettiva ed egualitaria, a scuola si chiedeva addirittura l’abolizione di qualsiasi forma di soggettivizzazione del processo di apprendimento, chiedendo di mettere al centro lo studio cooperativo, ma anche chiedendo che non si valutasse più.

Quelle proteste sarebbero state il brodo di coltura per le ri- vendicazioni degli anni successivi. Nuovi e ulteriori sconfina- menti ancora da studiare.