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a Parma tra gli anni Sessanta e Settanta

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È impossibile parlare di Autunno caldo senza considerare la superficie prismatica delle relazioni tra fabbrica e territorio, azione sindacale e conflitto sociale, cultura del lavoro e trasformazione antropologica. Quando la classe operaia diventa protagonista delle relazioni industriali e dell’agenda politico- economica del Paese, qualcosa di profondo è già avvenuto nella società italiana e non è possibile comprendere le motivazioni e gli orizzonti ideali dei suoi protagonisti senz’assumere una prospettiva analitica multidisciplinare.

La conquista di spazi di azione sindacale e politica all’inter- no delle fabbriche va vista a tutti gli effetti come una cesura che accompagnò la maturazione di una precisa consapevolezza di sé della classe operaia del secondo dopoguerra.

La cesura si materializzò in un conflitto interno alle cattedrali dell’industria, dove l’alta concentrazione di lavoratori, l’innal- zamento dei livelli di sfruttamento determinati dall’ingresso tra gli anni Cinquanta e Sessanta dell’automazione nel processo produttivo, la sostanziale assenza del sindacato dalle fabbriche, dettero l’innesco a una stagione di agitazioni e di conquiste mai raggiunte in precedenza. D’altronde, la narrazione mitopoieti- ca della coscienza e solidarietà operaia come esito oggettivo e inevitabile della sottomissione al regno della “strumentalità ca-

pitalistica” non regge al confronto con la storia del movimento operaio. Come il “capitale” non può essere ridotto a mera con- centrazione di potere economico-politico, così la “soggettività operaia” non è interpretabile come un tutto socio-politicamente omogeneo e trasparente. Anzi, il merito di uno studio che cer- chi d’indagare la ricca trama di rapporti tra territorio, società e fabbrica, risiede nel tentativo di capire come mai la relazione dell’operaio con il proprio sfruttamento sia a tutti gli effetti un rapporto sociale, su cui non si può non intervenire che con un approccio, per così dire, “totale”, cioè attento a cogliere la com- plessità di un fenomeno che intreccia “materiale” e “spirituale”; bisogna, in altre parole, puntare a un’analisi della pluralità (i lavoratori) e non dell’unità (il lavoro, la classe), a raccontare la “civiltà dei lavoratori” e i suoi propri criteri di visione e divi- sione, i lineamenti di una soggettività plurale capace di arrivare ai poli opposti dell’autorappresentazione all’insegna di sponta- neità e conflittualità (caratteristica di certe lotte per la contrat- tazione aziendale) o alla rappresentazione mediante delega ai sindacati. Si tratta, in sostanza, di declinare nello specifico delle lotte operaie il criterio di relazionalità che Marc Bloch osserva nel suo metodo critico di analisi della società come tutto: “Abbiamo riconosciuto che, in una società, qualunque essa sia, tutto si lega e si condiziona vicendevolmente: la struttura politica e sociale, l’economia, le credenze, le manifestazioni più elementari come le più sottili della mentalità”1.

La storia della vetreria Bormioli Rocco di Parma è una testi- monianza, per certi versi paradigmatica, del “gliommero” com- posto dall’intreccio fra differenti livelli di esplicabilità della gran- de fabbrica novecentesca. Prima ancora che una vetreria, essa fu tout simplement “la fabbrica” di Parma. La sua vicenda inizia nel 1903, con il trasferimento dalla sede storica di via Farnese a un’area semirurale periurbana collocata sul versante nord-occi-

1.  Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou métier d’historien, Paris, A. Colin, 1964 (citato in Jacques Le Goff, La nuova storia, Milano, Mondadori, 2001, p. 18).

dentale della città, quella che poi diverrà, grazie al suo arrivo, il quartiere operaio e industriale di Parma, il San Leonardo.

Considerando che la vetreria nel momento della sua massima espansione si estendeva su una superficie di 8.325 metri quadra- ti, è difficile non vedere nel suo insediamento la realizzazione di una cattedrale dell’industria, capace di calamitare su di sé una serie di flussi, ciò che a tutti gli effetti ce la configura come una città nella città. Le leggi gravitazionali che presiedono alla for- mazione dei centri urbani assomigliano fortemente ai principî insediativi che mossero alla realizzazione, tutt’attorno alle cimi- niere e ai fabbricati della Bormioli, di una sorta di città-fabbrica quasi spontanea. Nel giro di qualche decennio, il San Leonardo crebbe al punto da conquistare un ruolo chiave nella struttura produttiva di Parma, poiché, oltre alla Bormioli, vi si contava- no le eccellenze del comparto metalmeccanico, delle industrie di trasformazione dei prodotti agricoli e delle officine.

L’industrializzazione del quartiere comportò anche una tra- sformazione della sua composizione sociale e demografica. Mi- gliaia di uomini e donne vi si trasferirono stabilmente, andando a vivere a contatto con i luoghi di lavoro, secondo le caratteristi- che di un inurbamento pianificato in origine da Rocco Bormioli, fondatore e pater familias dell’azienda, personalità di spicco della società cittadina (nel 1960 verrà nominato Cavaliere del lavoro), simbolo e immagine della Bormioli, anzi, la Bormioli in perso- na2. In linea con le caratteristiche del reclutamento praticato dai

nuovi industriali del settore agro-alimentare dei primi decenni del Novecento, Rocco decise di cercare manodopera all’interno delle famiglie mezzadrili o affittuarie3, una scelta resa ancor più

2.  «A lui si rivolgevano i vecchi vetrai che cercavano lavoro per i giovani figli e sempre a lui facevano riferimento gli stessi operai quando maledicevano il duro lavoro. Così, negli scioperi, le invettive più feroci erano contro di lui e contro il suo modo di essere padrone’. Perché la Bormioli era lui». Gino Dondi, i

Bormioli. Seicento anni di fedeltà a un mestiere, Colorno, Tielleci, 2002, p. 157.

3.  Marco Minardi, Le ragioni del contendere. Sviluppo industriale e lotte sindacali

funzionale dalla messa a disposizione dei dipendenti di abita- zioni in affitto, costruite a ridosso dello stabilimento. L’entrata nella vetreria assumeva così un valore simbolico decisivo: era l’ingresso nella civiltà industriale e urbana, l’iniziazione a un nuovo modo di vita, basato sull’ordine e la disciplina, l’obbe- dienza, l’interiorizzazione di regole di comportamento. Il duro lavoro di una vetreria era una vocazione, comportando l’assun- zione dell’etica del sacrificio. Da questo punto di vista, il figlio del contadino presentava l’identikit ideale del “bormiolino”4: le

sue caratteristiche psicologiche lo rendevano un lavoratore fa- cilmente plasmabilie alle esigenze della produzione industriale della vetreria, essendo egli, per educazione, docile e abituato all’obbedienza, ovvero l’opposto del tipo antropologico del pro- letario ribelle e anarcoide dell’Oltretorrente cittadino, tradizio- nale teatro di sommosse popolari e agitazioni socialistiche.

Nel lungo periodo l’esito di questa strategia è perfettamente tratteggiato da un documento del 1956 della segreteria della Ca- mera confederale del lavoro di Parma:

I profitti di Rocco Bormioli sono più che triplicati. Dal ’49 a oggi, i 1000 dipendenti si sono ridotti a non più di 640; tuttavia, la produzio- ne giornaliera pro capite è passata da 15 agli attuali 45 Kg. Alla base di questo incremento produttivo e di capitali v’è in primo luogo il be- stiale supersfruttamento dei lavoratori, che si esercita attraverso un servizio di vigilanza minuzioso ed opprimente. Per applicare rigida- mente la politica di limitazione delle libertà e dei diritti dei lavoratori è stato istituito un vero e proprio corpo di polizia5.

Eppure ascrivibile a tale quadro è anche l’apparente para- dosso che, nonostante il “supersfruttamento dei lavoratori”, sul

4.  In questo modo venivano definiti, e si definivano con orgoglio, i dipendenti della Bormioli Rocco. Ben evidenti tracce dell’identificazione con l’epopea dell’azienda si ritrovano ancora oggi nelle dichiarazioni rilasciate dai testimoni di quegli anni.

5.  La verità sulle vetrerie Bormioli, Parma, Step, 1956, pp. 8-9. Il libretto è con- sultabile presso la Biblioteca Umberto Balestrazzi di Parma.

piano delle relazioni industriali almeno fino al 1967 la situazio- ne rimanesse sostanzialmente tranquilla. È più di una possibi- lità che il tradizionale universo valoriale del lavoratore italiano della prima metà del secolo scorso spieghi anche l’anomalia del caso Bormioli, un universo che ruotava attorno a un’idea mes- sianico-sacrificale del lavoro, da cui anche il successo riscosso dal mito della classe operaia protagonista del proprio sviluppo civile e politico costruito da Pci e Cgil. Ed è sempre alla centra- lità narrativa dell’operaio come “militante della sublime causa” che bisogna riferire, inter alia, la strategia sindacale basata su centralismo e accordi di vertice in nome della difesa ideologica dell’unità della classe operaia contro i rischi di frammentazione impliciti nella negoziazione di fabbrica.

È questo, peraltro, a far sì che le ondate contestative pre-68, anche se motivate da ragioni oggettivamente valide, non avessero poi effetti duraturi sul piano delle conquiste operaie. Tale strategia, comunque, cominciò a subire i primi contraccolpi con la sconfitta alle elezioni per la Commissione interna alla Fiat (aprile 1955), a partire dalla quale la Cgil decise il “ritorno alla fabbrica”, ma occorse un settennio prima che la Cgil accogliesse ufficialmente la contrattazione di fabbrica e solo dopo averle ritagliato un ruolo di mero complemento a quella nazionale. Sarà, infatti, solo con le lotte operaie condotte dal 1968 in avanti che comincerà un percorso di maturazione dell’azione di fabbrica, capace di far diventare la contrattazione aziendale addirittura più importante di quella nazionale, con tutti gli effetti sindacali e politici che ciò comportava.

Chi lavorava in Bormioli per gran parte degli anni Sessanta proveniva da un milieu che non favoriva la politicizzazione attra- verso il lavoro, perciò o era “agnostico” o moderato in politica. Non bisogna tuttavia sottovalutare l’effetto delle grandi epura- zioni, che ebbero luogo anche all’interno della manodopera della Bormioli con l’allontanamento degli elementi più “estremistici”, di coloro che avevano partecipato alla guerra partigiana ed era- no di estrazione comunista: non per caso, i licenziamenti diedero luogo ai grandi scioperi del 1949 e degli anni Cinquanta.

Negli anni Sessanta, poi, la crescita del volume d’affari della Bormioli fu parallela a un ulteriore ampliamento della manodo- pera e, di qui, a una diversificazione della composizione antro- pologica e politica di cui sopra. Nel 1966, con la nomina a diret- tore generale di Pierluigi Bormioli, ultimo rampollo di famiglia, lo stabilimento del quartiere San Leonardo dava lavoro a circa 1.600 dipendenti. Con l’apertura ai mercati internazionali, assi- curatale dall’innovativa gestione del giovane manager, laureato in Economia e formatosi in diversi stages nelle migliori vetrerie del mondo, la Bormioli conobbe una fase di ulteriore sviluppo. Nel 1967, mentre venivano aperti i forni sei, sette e otto, la Bor- mioli, non trovando quantitativi di manodopera sufficienti in cit- tà, fu costretta a guardare al di là del suo bacino tradizionale di reclutamento, nell’Appennino, in Lunigiana.

È anche in questo aumento dimensionale della vetreria che si possono collocare le ragioni dell’inedito protagonismo operaio della fine del decennio, non solo nello stabilimento di via Genova ma in tutte le industrie cittadine che alla Bormioli guardavano come a un punto di riferimento nelle lotte. Al di là dei casi di lavoratori provenienti da contesti non molto dissimili da quelli degli anni precedenti (i lavoratori della montagna, per esempio, rimanevano nel cono d’ombra del lavoro come missione sacrificale), è un fatto che nel corso degli anni Sessanta in Bormioli e in San Leonardo cominciassero ad arrivare nuovi operai, persone più scolarizzate, più avvertite e meno abituate alle fatiche del lavoro dei campi e all’educazione severa del pater

familias di una volta, più vicine alla vita di città, con tutti i suoi

stimoli e margini di libertà. Questo elemento geografico/antro- pologico, il rapporto con lo spazio sociale e simbolico, rimane spesso sottostimato dagli studi sulle lotte operaie. In realtà s’in- treccia in modo decisivo con tante biografie operaie della Bor- mioli Rocco e non solo.

Arrivò così la grande “onda operaia”. Il suo inizio simbolico è stato individuato nei fatti di Valdagno (Vicenza) del 19 aprile 1968, quando gli operai tessili, esasperati dall’aumento dei rit-

mi di lavoro e dalla carenza di organici, abbatterono la statua del conte Gaetano Marzotto, fondatore dell’azienda. A Parma le statue non caddero, ma anche nelle fabbriche della città ducale cominciarono a susseguirsi scioperi, assemblee e rivendicazioni che prendevano le mosse dai problemi reali del lavoro. Tuttavia le forme di lotta non furono né innovative né particolarmente radicali, anche se va detto che a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta il territorio di Parma fu scosso da un movimento sindacale e di popolo “sempre più incalzante ed impetuoso, a volte con caratteristiche anarcoidi”, con le parole del segretario generale Giorgio Lindi all’VIII Congresso della Camera del La- voro di Parma6 (giugno 1969).

Entro tale onda un ruolo fondamentale, tanto a livello simbo- lico quanto politico, fu quello rivestito da lotte operaie caratteriz- zate da forme di inaspettata radicalità. L’elemento più significati- vo e meritevole di approfondimento è l’intreccio stabilito da lotte operaie e nuovi e vecchi attori sociali e istituzionali. All’interno della molteplicità di vertenze che si svilupparono nelle aziende parmensi, l’occupazione della fabbrica metalmeccanica Salamini fu quella che segnò una cesura, sia per durata sia per risonanza nazionale. Un’altra grande azienda, lo zuccherificio Eridania, fu teatro di iniziative che andarono ben al di là delle tradizionali rappresentazioni del conflitto sindacale. In conseguenza del pia- no di ristrutturazioni, dopo uno sciopero nazionale di 24 ore dei dipendenti delle aziende del gruppo, l’8 novembre 1968 anche le maestranze degli zuccherifici di Parma e provincia si attivaro- no, decidendo di occupare le fabbriche. Il dato straordinario fu il protagonismo assunto dalla giunta socialcomunista guidata dal sindaco Enzo Baldassi, che arrivò addirittura a requisire lo sta-

6.  Diego Melegari, I lavoratori della Salamini in lotta. Nuove pratiche contestati-

ve e organizzazioni tradizionali in un conflitto operaio, in Margherita Becchetti, Nico-

la Brugnoli, William Gambetta et alia, Parma dentro la rivolta. Tradizione e radicalità

nelle lotte sociali e politiche di una città dell’Emilia “rossa” 1968/1969, Milano, Punto

bilimento di Parma in sostegno della lotta dei lavoratori. Dopo la fine dell’occupazione, i lavoratori dell’Eridania allestirono in piazza Garibaldi, baricentro cittadino, una tenda per raccogliere solidarietà materiale e politica. La tenda divenne in breve il luo- go di una socialità estesa a tutta la città, luogo simbolico di un movimento operaio che aveva saputo generalizzare la propria lotta e far dialogare esperienze politiche nuove e vecchie7.

In Bormioli l’Autunno caldo arriverà tardi, nel 1973. Anche se i dirigenti continuavano a proibire il consumo di cibo durante l’orario di lavoro, a partire dall’estate del 1969 cominciavano a intravedersi confortanti segnali di novità. Il 17 giugno 1969 l’as- semblea degli operai respinse l’accordo sul premio di produzio- ne firmato dalle tre organizzazioni sindacali e chiese aumenti più alti del premio e della quattordicesima mensilità, come stabilito dalle assemblee di turno. Inoltre, gli operai non erano soli. C’era anche un gruppo di fabbrica delle Associazioni cristiane lavora- tori italiani (ACLI) che reagì con un volantino che chiedeva agli operai di non dare tregua a chi “pretende e non dà niente, a chi impone di non mangiare e di non pensare (forse un giorno appa- rirà anche questo cartello!), e al sistema che ti aumenta il salario, ma poi questi aumenti li ruba attraverso il caro-vita e gli affitti”.

Ma perché in Bormioli non si riusciva a far partire la grande on- data operaia? Secondo alcune testimonianze, a frenare era la Com- missione interna. Giovanni Covati, giovane macchinista assunto nel 1967, considerava intollerabili le condizioni di lavoro: “Si la- vorava a 60-70 gradi, le macchine andavano parecchio e c’era solo un addetto per macchina; si mangiava il panino portato da casa rimanendo sul posto di lavoro perché non c’era la mensa”; questo rendeva impossibile non provare a ribellarsi e, quindi, a organiz- zarsi in proprio, facendo assemblee di reparto, perché “avevamo capito che la Commissione interna era molto lenta”8.

7.  Ivi, pp. 135-139.

8.  Marco Adorni, Voci di vetro. Testimonianze di vita alla Bormioli Rocco di Par-

È probabile che la lentezza della Commissione a recepire i problemi dei macchinisti fosse figlia di una oggettiva difficoltà a esercitare un effettivo controllo delle condizioni reali di lavoro in alcuni reparti della vetreria. Anche in Bormioli, infatti, la Commissione era numericamente esigua e, cosa ancor più grave, non assicurava una rappresentanza adeguata dei vari reparti: i candidati non venivano scelti da assemblee di reparto bensì dalle correnti sindacali. D’altronde, è anche possibile che la frustrazione di Covati fosse dovuta al fatto che la Commissione interna instaurasse rapporti di tipo personale con i lavoratori (cosa confermata da altri testimoni), con il risultato di generare una sperequazione in termini di sostegno sindacale: quelli più forti sul piano contrattuale disponevano di un potere di negoziazione sicuramente superiore a quello dell’operaio comune medio, il quale, perciò, finiva per non sentirsi ascoltato o difeso.

Centrale, da questo punto di vista, divenne il ricambio gene- razionale e la politicizzazione dei giovani operai; strategico, per- ciò, il rapporto con la città e i gruppi politici, anche di quartiere, come quello del Collettivo politico del quartiere San Leonardo, entrato in contatto con i lavoratori della vetreria soprattutto gra- zie all’istituzione del Doposcuola per i figli degli operai (febbraio 1970), in un locale di via Genova, dove si trovava proprio la ve- treria. Il Collettivo, costituito da dissidenti del Centro documen- tazione ricerche politiche e da studenti che avevano partecipato al 1968, era animato dalla volontà di creare un collegamento tra l’impegno di base e la presenza nelle numerose fabbriche del quartiere industriale della città.

Sicuramente i primi cambiamenti vennero dall’ingresso di giovani operai comuni alla metà degli anni Sessanta, che non avevano alcuna intenzione d’immolarsi per la vetreria come ave- vano fatto i loro padri. Non dovettero essere preponderanti né sul piano numerico né della capacità egemonica, tuttavia ebbero dei validi compagni di strada nei lavoratori più politicamente e sindacalmente impegnati del reparto officina. Infatti a fare la differenza e a unire fu più l’elemento generazionale, insieme alla

disponibilità e alla circuitazione delle idee garantita dal contesto cittadino e di quartiere: a portare tecnici, impiegati, disegnatori e addetti alle macchine del reparto officina, mediamente sotto i trent’anni, dalla stessa parte, cioè a svolgere un ruolo per così dire di avanguardia, assicurando un orizzonte di politicità a lotte che altrimenti avrebbero rischiato di finire nella solita logica del riconoscimento individuale e dell’indennità di reparto. Pur non implicando la guerra al sindacato, quei giovani seppero metterne in discussione i suoi schemi di riferimento.

Furono mesi di assemblee di reparto e di riunioni generali, di ebbrezza, spontaneità e di una certa organizzazione dal basso. E, per gli operai più determinati, di una formazione alla politica che poi sfocerà nell’impegno militante all’interno del Consiglio di fabbrica. Uno degli operai più vicini al Collettivo e tra i più at- tivi nel futuro Consiglio era Giancarlo Merlini, entrato diciotten- ne in fabbrica nel 1967 con in mano il diploma di istituto profes- sionale. Egli, oggi, afferma che fu uno shock ritrovarsi di colpo «in mezzo a dei comunisti»9. Anche se privo di precedenti espe-

rienze politiche o sindacali, in breve tempo mutò radicalmente i propri valori e convinzioni, diventando uno dei più convinti fautori del passaggio all’atto: «La maggior parte dei comunisti andava in Bormioli. Alla Bormioli ci andava la gente che aveva le palle. Nel giro di pochi anni sono cambiato»10. Tra le ragioni

della conversione di Merlini era stato proprio l’incontro con gli studenti universitari del Collettivo. Il Collettivo fu estremamente importante per collegare le lotte alla Bormioli con la questione della salute sul lavoro e dell’ambiente – la vetreria era fonte d’in- fortuni e malattie professionali, nonché d’inquinamento acustico e atmosferico per tutto il quartiere11 –, per amplificare sul piano

9.  Ivi, p. 157.

10.  Ibidem.

11.  “Su sollecitazione di un gruppo di abitanti di via Genova, è stata convo- cata, a fine luglio 1972, un’assemblea di quartiere San Leonardo sul problema del disagio creato a questi abitanti dalla Bormioli Rocco. In particolare, essi lamenta-

politico le azioni di protesta e di contestazione dei lavoratori del- la vetreria, e infine per costruire un ponte tra intellettuali e classe operaia, con risultati fondamentali per entrambi: i primi appren-