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Oggetto di lotta e nuova risorsa dell’agire collettivo

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Le questioni dei trasporti e del pendolarismo appaiono mar- ginali durante l’Autunno caldo, nel corso del quale l’accento è stato posto maggiormente sulle condizioni di lavoro in fabbri- ca. Nel Veneto vengono soprattutto ricordate le grandi lotte dei chimici e dei metalmeccanici di Porto Marghera e, a partire da novembre e sotto la spinta dei sindacati, le lotte per le riforme (casa, fisco, sanità) che ebbero una forte risonanza anche a Vene- zia. Tuttavia, fu proprio durante questa stagione di rinnovamen- to dei contratti che emersero le prime rivendicazioni legate al costo e al tempo di trasporto dei lavoratori.

In questo saggio, dopo aver preso in considerazione le spe- cificità del modello industriale e della mano d’opera veneti, cer- cheremo di vedere, a partire dalle testimonianze dei lavoratori e dalla pubblicistica dell’epoca, come la questione del pendolari- smo si impose – anche se marginalmente – fra le rivendicazioni dell’Autunno caldo. Il tema fu anche oggetto di confronto fra i sindacati e i gruppi extraparlamentari sia per quanto riguarda le rivendicazioni che le forme di lotta. Analizzeremo in particola- re l’esempio delle lotte per i trasporti organizzate dal Comitato operai-studenti di Chioggia, che, dopo una prima vittoria ad ot- tobre, avrebbero dato avvio a maggiori richieste e mobilitazioni negli anni successivi. Dalle lotte sulla mobilità vedremo infine

come lo stesso pendolarismo sia diventato una risorsa dell’agire collettivo, uno degli elementi del repertorio d’azione dei militan- ti in quanto medium di diffusione delle lotte sul territorio.

1. Un territorio di pendolari

Negli anni Cinquanta l’economia del Veneto era principal- mente basata sull’agricoltura e su un tessuto di piccole e medie imprese sparse sul territorio – con le eccezioni dei poli di Por- to Marghera, Pordenone e del vicentino – che si svilupparono fortemente nel corso del decennio grazie ad una grande dispo- nibilità di manodopera a buon mercato e alla debolezza della conflittualità operaia1. Per quanto riguarda la mobilità, sin dalla

fine dell’Ottocento, la regione aveva conosciuto un forte fenome- no di emigrazione verso le zone più industrializzate dell’Italia, dell’Europa o del continente americano, che si prolungò negli anni Cinquanta e Sessanta. All’inizio degli anni Sessanta molti emigrati stavano tuttavia tornando nel Veneto e si assiste con- temporaneamente alla fine della migrazione stagionale. Inoltre, se nelle altre regioni industriali della penisola, la maggioranza della manodopera assunta durante il “miracolo economico” pro- veniva dal Mezzogiorno, nel Veneto si verificò una migrazione interna che corrispose, per i lavoratori, o a un cambiamento del settore di attività o all’alternanza tra il lavoro agricolo e il lavoro in fabbrica2. Contrariamente quindi al Triangolo industriale dove

i lavoratori sradicati vivevano nei numerosi quartieri operai del- le periferie, il Veneto fu investito da un “processo di industrializ-

1.  Giorgio Roverato, L’industria nel Veneto. Storia economica di un “ caso” re-

gionale, Padova, Esedra editrice, 1996, p. 245.

2.  Gianni Sbrogiò, Il lungo percorso delle lotte a Porto Marghera, in Devi Sac- chetto, Gianni Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio: autonomia e soggettività

zazione senza urbanizzazione”3 che delineava il profilo peculiare

del “contadino in fabbrica”4. Ne risultò un importante pendolari-

smo dei lavoratori della regione che si recavano ogni giorno nel- le fabbriche. Per quanto riguarda Porto Marghera, per esempio, fino al secondo dopoguerra i trasporti pubblici erano limitati e il loro costo induceva i pendolari a utilizzare la bicicletta, il che limitava i movimenti pendolari a un massimo di 30 chilometri5.

Con il potenziamento dei trasporti – treni e corriere –, la zona di provenienza degli operai si estese progressivamente dalla zona di San Donà di Piave a nord fino a quella di Chioggia a sud e a quella di Bassano a ovest6.

I disagi della pendolarità sono ricordati in numerose intervi- ste rilasciate da ex lavoratori di Porto Marghera. Guido F., ope- raio della Breda nato nel 1953 che abitava a Meolo, un comune a circa 30 km da Porto Marghera, afferma per esempio:

Il lavoro in sé stesso, non era quello che rendeva pesante la giornata. Quello che pesava era fare il pendolare: la tua vita era legata al tre- no, tu dipendi dal treno, la tua vita comincia ogni mattina dal treno. Delle mattine c’era, altre mattine era in ritardo, o te la facevi in piedi, carrozze maleodoranti, sporche: brutta esperienza con la quale co-

3.  Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Roma, Edizioni Alegre, 2008, p. 149.

4.  Francesco Piva, Contadini in fabbrica: Marghera 1920-1945, Roma, Edizioni Lavoro, 1991.

5.  Gilda Zazzara, I cento anni di Porto Marghera (1917-2017), in “Italia contem- poranea”, 2017, 284, p. 214.

6.  Nel 1979, uno studio di Pietro Trevisan, operaio e sindacalista della Cgil a Porto Marghera, riportava una tabella sulla pendolarità dei lavoratori del polo industriale nella quale identifica una provenienza operaia fino alle province di Ferrara e di Udine. Non è tuttavia riportato il modo in cui è stata condotta l’inda- gine, né il periodo di riferimento. Pietro Trevisan, Montedison e piano chimico. Lotte

operaie e ristrutturazione a Marghera, Venezia, Arsenale, 1979, pp. 129-130. L’arti-

colo di “Il Progresso veneto” dedicato al “problema dei trasporti” evoca invece, per il 1962, un bacino di reclutamento che va da Portogruaro a nord, fino a Piove di Sacco a sud e Bassano a ovest. Antonio Negri, Inchiesta sui trasporti: per Porto

minciavi la tua giornata. […] Ma ho conosciuto gente che veniva in treno da Portogruaro. Se io mi alzavo alle sei, loro si alzavano alle quattro e mezza per venire alla Fincantieri7.

Anche Lamberto Barina, operaio della Montedison originario di Cessalto, ricorda questo disagio della pendolarità, che signi- ficava

alzarsi alle 5 e mezzo per rientrare alle sette meno un quarto, […] per trent’anni e trenta giorni questa è stata la mia vita. La famiglia natu- ralmente viveva per conto suo, nel senso che l’incontro era alla sera, poco anche nei giorni festivi perché c’erano delle cose da sbrigare che non era possibile sbrigare durante la settimana, i figli naturalmente non potevano essere seguiti per uno che praticamente non viveva, se non qualche ora della notte, a casa per cui problemi che sono sorti successivamente, probabilmente anche adesso, sono nati da questo modello di produzione capitalistica il quale pretende che tu debba essere disponibile per lavorare per tutto il tempo della giornata per- ché 8 ore di lavoro, 2 ore e mezza di viaggio e poi tenendo presente che anche il poco tempo che passi a casa lo devi dedicare al riposo perché, non tanto la fatica, ma lo stress del pendolare è quello che ti fa star male…8

Da queste testimonianze emergono quindi le difficoltà legate alle condizioni di trasporto, allo stress e alla stanchezza indotti da questo pendolarismo quotidiano che ha anche delle ripercus- sioni sulla vita personale dei lavoratori.

7.  Interviste condotte da Piero Brunello e Mario Davanzo all’inizio del 2009 nel Centro di documentazione “Giuseppe Pavanello” di Meolo a una dozzina di operai che lavoravano a Porto Marghera negli anni Cinquanta e Sessanta. Vedi: https://storiamestre.it/2017/04/turnisti-pendolari-raccontano/.

8.  Intervista a Lamberto Barina realizzata da Devi Sacchetto il 27 aprile 2007, in Archivio operaio Augusto Finzi (AOF), fondo “Audiovisivi”, sezione “Videointerviste”.