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Un nuovo movimento operaio

vimento operaio

2.  Un nuovo movimento operaio

Se il 1968 bergamasco è un anno scarno di avvenimenti e di do- cumenti che attestino una vitalità studentesca e operaia, il 1969 è invece l’anno che più si è sedimentato nella coscienza collettiva. De- scritto nello stesso tempo come “terribile ed entusiasmante” – per il prezzo pagato in ore di sciopero e per la partecipazione di massa agli scioperi stessi – il 1969 acquisisce nelle memorie sindacali un ruolo di “spartiacque”, quasi a segnare un prima e un dopo6.

In effetti, la Fiom bergamasca veniva allora da due episodi in cui erano parsi evidenti i suoi limiti. L’incapacità di gestire l’organizzazione del lavoro a fronte delle innovazioni tecnologi-

6.  Le espressioni tra virgolette si devono a Marcello Gibellini, ex funzio- nario e segretario della Fiom di Bergamo, la cui intervista è stata raccolta dallo scrivente il 20 luglio 2016 presso la Bib. “DV” Cgil BG.

che in atto, come fu evidente alla Dalmine, la più grande azien- da metalmeccanica bergamasca7; e la conclusione negativa della

vertenza sui 117 licenziamenti comunicati nel 1967 dalla direzio- ne aziendale alla Magrini, storica e sindacalizzata azienda ter- moelettromeccanica della città. Quelle due vicende profilarono un momento di pesante arretramento da parte del sindacato nei rapporti di forza con le associazioni padronali8. Più in genera-

le, si è arrivati a rappresentare il periodo tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta come una vera e propria “stasi”, un “dormitorio”9.

Un grosso sostegno alla “ribellione” o al risveglio del 1969 operaio venne dalla firma del rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici, caratterizzato da una forte spinta egualitaria. A determinare un cambiamento interno alla orga- nizzazione e a gettare le premesse per la costruzione di spon- tanei Comitati di lotta, poi trasformati nei Consigli di fabbrica, intervenne infatti l’ingresso nelle fabbriche bergamasche di una nuova generazione di operai a cui le porte delle fabbriche si spa- lancarono dopo la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore set- timanali, sancita appunto nel contratto collettivo nazionale del 196910.

Inoltre, se fino alla metà degli anni Sessanta la possibilità di ottenere “il pane a vita” era spesso condizionata alla raccoman- dazione del parroco del paese o alla presenza di un familiare

7.  Cfr. F. Ricciardi, Lavoro, conflitto, istituzioni, cit., 143-144.

8.  Cfr. ivi, pp. 151-160, e la documentazione in Archivio del Consiglio di fab- brica Magrini Galileo, b. 36, fasc. 4, conservata presso l’Archivio della Biblioteca “Di Vittorio” della Cgil di Bergamo (d’ora in poi ABDV-Cgil BG).

9.  Intervista a Silvestro Milani, allora delegato per la Fiom alla Dalmine, raccolta da Eugenia Valtulina il 29 aprile 1993 presso la Bib. “DV” Cgil BG.

10.  Per una ricostruzione del passaggio dalle Commissioni interne, spesso ritenute colluse con le direzioni aziendali, ai Consigli di fabbrica in terra berga- masca si veda Roberto Villa, Percorsi di classe. I militanti della FIOM di Bergamo

dai Consigli di fabbrica alla scala mobile, in E. Valtulina, Questa voglia di cambiare la condizione umana, cit., pp. 60-76.

nell’organico dell’azienda, il nuovo ciclo economico espansivo e il conseguente bisogno di nuova manodopera permisero a molte persone di trovare un impiego sicuro senza passare per questi canali11. Gli operai giovani, spesso poco più che adolescenti, era-

no depositari di una cultura meno legata a quell’ideologia tra- dizionale così fortemente mediata da retaggi contadini e da una spiccata etica del lavoro e del risparmio. In una lettera rivolta alla direzione aziendale, la Commissione interna della Magrini di Bergamo e Stezzano, pur difendendo un lavoratore a cui ve- niva imputato un comportamento scorretto perché impegnato in attività lavorative esterne allo stabilimento per conto proprio o di altri, rilevava che “la prestazione di lavoro dei dipendenti del- la nostra Azienda presso altre aziende, al termine della normale giornata lavorativa, era ed è norma abbastanza diffusa” e che “l’attuale Direzione Generale è al corrente che un certo numero di suoi dipendenti presta la sua opera presso piccole aziende”12.

Il documento, datato 26 giugno 1969, è la prova che il doppio lavoro, assai frequente sin dall’immediato dopoguerra e in par-

11.  Con l’espressione “il pane a vita”, impiegata soprattutto dai lavoratori delle industrie tessili della Valle Seriana, si designa la prolungata sicurezza sala- riale garantita da un impiego presso i grandi stabilimenti della zona. Si veda in proposito Paolo Barcella, Bergamo, in “Il Mulino”, 2017, 6, pp. 154-157. Le favore- voli circostanze di accesso al lavoro operaio attorno alla metà degli anni Sessanta tornano in tre testimonianze riferite ad altrettanti contesti. Per la Dalmine si veda l’intervista a Tarcisio Mafessoni, allora delegato della Fiom di Bergamo, raccol- ta da Eugenia Valtulina e lo scrivente il 2 agosto 2016 presso la Bib. “DV” Cgil BG. Mafessoni racconta anche che una volta assunti dalla Dalmine si riceveva automaticamente la tessera della Fim Cisl; per la Magrini si faccia riferimento all’intervista a Bruno Maffioletti, anch’egli delegato della Fiom, raccolta da chi scrive il 10 agosto 2016 presso l’abitazione dell’intervistato; per la nascente area urbana di Zingonia, nella bassa pianura bergamasca, si consulti invece l’intervi- sta a Giovanna Roncelli e Carmela Borino, da me raccolta il 13 luglio 2016 presso l’abitazione di Roncelli. Per un interessante approfondimento sulle vicende di un’azienda di Zingonia, si veda B. Curtarelli, Cititalia-Zingonia: una storia di lavo-

ratori e della loro fabbrica, 1967-1983, s.l., s.n., s.d.

12.  Lettera della CI della Magrini MSM alla direzione aziendale, 26 giugno 1969, in Archivio Fiom-Cgil di Bergamo, in fase di riordino, conservato presso AB- DV-Cgil BG.

ticolare negli stabilimenti dove la composizione operaia aveva provenienze mezzadrili, fu una realtà almeno fino al tramonto degli anni Sessanta, quando cominciava a essere un tema da af- frontare con più decisione che in passato13.

Si tratta di un quadro a cui era poco abituata questa nuova generazione di lavoratori che entrava in fabbrica a partire da presupposti diversi rispetto a quella che l’aveva preceduta. La trasformazione delle strutture organizzative del sindacato rap- presentava per loro il primo passo per porre poi questioni legate non più soltanto alla difesa occupazionale o ai salari, ma all’in- tervento sui tempi di lavoro e sulla salute14. Respirando fuori

dall’azienda gli afflati antiautoritari dei movimenti giovanili, i lavoratori più giovani avevano così messo in discussione l’or- ganizzazione verticistica dell’organizzazione sindacale, indivi- duando nelle Commissioni interne l’anello debole della catena. La trasformazione non fu però scevra di conflitti. Tanta era la diffidenza che gli operai e soprattutto i delegati più anziani pro- vavano nei confronti dei giovani più scolarizzati15. Le assemblee

13.  Il doppio lavoro faceva allora il paio con il lavoro a domicilio, l’emigra- zione dalle valli e un intenso pendolarismo, tutti elementi distintivi del sistema produttivo del territorio orobico ancora negli anni Sessanta e Settanta. Cfr. Emilio Mentasti, Bergamo 1967-1980. Lotte, movimenti, organizzazioni, Paderno Dugnano, Colibrì, 2002, pp. 5-11. Si potrebbe aggiungere che il bisogno di implementare il proprio salario scoraggiava molti lavoratori dall’aderire agli scioperi.

14.  Cfr. M.G. Meriggi, Gli operai della Dalmine, cit., pp. 82-84. Meriggi ricorda la non trascurabile importanza dell’esperienza del Manifesto a Bergamo, dove erano presenti varie figure che seppero interpretare quel bisogno di cambiamen- to sia teoricamente sia nella pratica dell’azione sindacale in fabbrica e soprattutto alla Dalmine.

15.  «Quando noi abbiamo visto un’assunzione eccessiva di intellettuali, di gente uscita dalle scuole, che noi ci faceva comodo, però la preoccupazione era di provarli, sperimentare sul piano politico per vedere se questa gente aveva nell’animo la difesa della classe lavoratrice, o erano lì come arrivismo o…allora la nostra preoccupazione era questa perché l’avevamo già sperimentata in qualcu- no». In questo frammento della sua intervista, Ernesto Martini, funzionario della Fiom di Milano e prima delegato all’Ilva di Lovere, illustra il bisogno di testare il

che condussero prima alla convivenza tra Commissioni interne e Consigli di Fabbrica e poi alla scomparsa delle prime in favo- re dei secondi vengono raccontate però come autentici “calvari” per i vecchi dirigenti della Fiom16. L’attacco alle gerarchie par-

tì dunque proprio all’interno del sindacato dei metalmeccanici, presto rinnovato nelle sue forme organizzative.

L’elemento su cui le memorie si fanno ancora più unanimi è la corrispondenza tra la nascita di un nuovo modo di concepire il sindacato e l’approvazione dello Statuto dei lavoratori: c’è una sorta di rapporto diretto tra i Consigli di fabbrica e le garanzie ottenute pochi mesi dopo, quando il sindacato poté finalmente tornare in fabbrica e farlo con un diritto diverso e una più incisi- va possibilità di spostare i rapporti di forza17.

La nuova generazione di giovani operai chiede anche l’unità sindacale. Ed è qui che le memorie si addensano nell’identificare un’ulteriore equazione: al 1969 dei Consigli seguì quasi in auto- matico la nascita della Flm, le cui prime attività si avvertono a Bergamo nel 1970, anno in cui – con 24 mesi di anticipo rispetto all’accordo nazionale – si stabilisce una prima piattaforma unita- ria tra Fiom, Fim e Uilm18.

I CdF, lo Statuto dei lavoratori e la Flm sono stati, nelle me- morie dei delegati di allora, l’esito di un protagonismo operaio grado di adesione ideologica dei nuovi delegati, considerati “intellettuali”. L’in- tervista è stata raccolta da Eugenia Valtulina il 19 marzo 1993 a Castro, presso l’abitazione di Martini.

16.  Intervista a Pasquale Poma, allora delegato alla Dalmine per la Fiom di Bergamo, raccolta da Eugenia Valtulina il 28 luglio 1994 presso la sede della Cgil di Dalmine.

17.  “Essere pagato dal padrone per parlare male del padrone era una con- quista incredibile”, dichiara Gibellini nella sua già citata intervista.

18.  “Dalle lotte, dalla democrazia di base, l’unità dei metalmeccanici per l’unità

di tutti i lavoratori” – 2a conferenza unitaria dei metalmeccanici, Roma 6/7/8/9 marzo 1971, p. 14, in Archivio Fiom-Cgil di Bergamo, b. “Fiom-Flm. Organizzazione,

strutture, organismi, documenti. 75-86”, in fase di riordino (conservato presso ABDV-Cgil BG).

che le gerarchie sindacali hanno dapprima tollerato e poi piano piano accettato19. Emerge in tal senso una sorta di “generational

we-sense”, un senso di appartenenza generazionale che si riflette anche in scelte lessicali analoghe (ricorrono i termini “svolta epo- cale” e “salto di qualità” per riferirsi ai cambiamenti apportati dall’introduzione dei Consigli in poi)20. Si rivendica una centrali-

tà individuale, come accade in tutte le belle storie che le intervi- ste autobiografiche inevitabilmente costruiscono, ma lo si fa con un linguaggio che riproduce l’appartenenza comunitaria di quel tempo. A cambiare, di fatto, fu soprattutto il ruolo del delegato sindacale, che da quel momento diventò effettivamente la figura centrale del nuovo sindacato dei Consigli: aveva una responsa- bilità maggiore rispetto al passato e rispondeva delle sue azioni direttamente ai più stretti compagni di lavoro:

Il Consiglio di fabbrica era la traduzione di tutte queste spinte che avvenivano dentro l’impresa, quindi c’era il gruppo omogeneo […]. È chiaro che è stato un cambiamento, perché rispondevano a dei la- voratori in carne e ossa. […] Eri obbligato a parlare di quello che suc- cedeva in fabbrica, perché tu eri eletto da quelli che ci lavoravano, eri l’espressione dei vari reparti. È stata epocale questa trasformazione ed è stato uno dei pilastri che ha tenuto insieme [il sindacato, anche nella fase unitaria]21.

19.  “Chi l’ha fatto nascere il sindacato nuovo? I dirigenti? I dirigenti l’han tollerato, ma è nato dalla fabbrica, [dal]le lotte dure del 1969, dove si inventano gli scioperi a singhiozzo, gli scioperi a scacchiera…” (intervista a M. Gibellini, cit.).

20.  Michael Corsten, The time of generations, in “Time and Society”, 1999, 8, 2, pp. 249-272. L’espressione, mutuata dalla sociologia (Corsten in effetti recupe- ra il termine dal lavoro del sociologo tedesco Heinz Bude), viene spesso usata nell’ambito della storia dei media.

21. Intervista a Evaristo Agnelli, allora delegato della Fiom di Bergamo alla Same di Treviglio, raccolta dallo scrivente il 2 settembre 2016 presso la sede della Cgil di Bergamo. Il cenno al “gruppo omogeneo” fa riferimento alla divisione la- voratori in insiemi di lavoratori sottoposti alle medesime condizioni di nocività. I delegati dei Consigli di fabbrica venivano eletti non per reparto, ma proprio per gruppo omogeneo, venendosi così a creare un rapporto ancora più stretto tra lavoratori e delegati.