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L’“incertezza scientifica” e il progressivo adeguamento delle regole cautelari.

Nel documento La colpa nei reati omissivi impropi (pagine 136-142)

A D IMPOSSIBILIA NEMO TENETUR: LA “DOMINABILITÀ” NELL’OMISSIONE E LA “DOMINABILITÀ” NELLA COLPA

9. L’“incertezza scientifica” e il progressivo adeguamento delle regole cautelari.

L’esigenza di garantire un sufficiente grado di riconoscibilità della regola cautelare, nel senso di una sua preventiva determinazione rispetto alla condotta del soggetto agente, risulta particolarmente evidente nelle ipotesi di c.d. colpa generica, in cui la regola cautelare viene individuata a partire dal caso concreto o, rectius, dopo che l’evento dannoso o pericoloso si è verificato. Proprio perché la regola viene “plasmata” attorno al caso concreto è sempre presente il rischio di cedere, in sede di accertamento, alla seguente semplificazione: se l’evento si è verificato, significa che è stata violata una regola cautelare la cui osservanza avrebbe evitato il prodursi di quel risultato (post hoc, propter hoc!). Di qui alla “creazione” da parte del giudice di una regola ad hoc, indipendentemente dalla sua previa esistenza e riconoscibilità, il passo è breve228.

      

226 F.GIUNTA, Illecito e colpevolezza, cit., p. 240. Cfr. M.TRAPANI, La divergenza tra il “voluto” e il “realizzato”, cit., p. 91, il quale, individuando gli elementi di distinzione tra le ipotesi di colpa di cui

all’art. 43 c.p. e la aberratio delicti, rileva che tra i due criteri di imputazione esiste anzi tutto una diversa direzione finalistica del comportamento, che è penalmente lecita nell’art. 43 c.p. e diretta alla realizzazione di un reato nell’art. 83 c.p.; da ciò deriva anche che mentre nelle ipotesi prese in considerazione dall’art. 43 c.p. non è necessaria l’effettiva volizione della condotta da parte del soggetto, essendo sufficiente che la stessa sia evitabile (cioè materialmente non necessitata), la condotta rilevante ex art. 83 c.p., in quanto volontariamente rivolta alla realizzazione di un fatto di reato, deve essere, necessariamente voluta nel senso psicologico del termine. Da ciò sembrerebbe ricavarsi che le regole cautelari che vengono in considerazione nell’art. 43 c.p. sono solo quelle compatibili con una direzione “lecita” dell’attività posta in essere dall’agente.

227 Cass., 29 febbraio 1956, Di Giacomo, in Giust. pen., 1957, II, p. 42; Cass. 13 aprile 1951,

Cammarata, in Giust. pen., 1951, II, p. 1061.

228 Emblematico al riguardo il caso deciso da Cass. pen., Sez. IV, 3 luglio 1992, Zoccola, in Mass. Cass. pen., 1993, p. 75, citato da F.GIUNTA, La normatività della colpa penale, cit., p. 91, nota n. 10:

un datore di lavoro viene condannato per la morte occorsa ad un suo dipendente caduto da una scala priva di agganci o appoggi antisdrucciolevoli, senza attribuire rilevanza alcuna alla circostanza per cui una scala munita dei dispositivi di sicurezza richiesti non era disponibile in commercio.

La prassi, del resto, ha dimostrato il pieno fondamento delle preoccupazioni in questione. Soprattutto in settori caratterizzati dal costante sopravvenire di innovazioni scientifiche e tecnologiche, nei quali si rende necessario un progressivo adeguamento delle regole di diligenza in grado di neutralizzare, o quanto meno di minimizzare, i rischi che dalle stesse possono derivare, la tentazione è stata a volte quella di applicare una logica del “senno di poi”, ricostruendo la regola cautelare che si pretende sia stata violata sulla base delle conoscenze disponibili nel tempo del giudizio, anziché di quelle fruibili dal soggetto al momento della condotta penalmente rilevante: la logica in questione mira evidentemente ad evitare che, soprattutto quando si tratta di assicurare un’efficace tutela della salute e della vita umana, l’applicazione dei necessari coefficienti di soggettivizzazione della colpa la rendano di fatto inapplicabile.

Si tratta del resto di una problematica comune anche a talune ipotesi di colpa specifica, anche perché, come è noto, il confine tra le due “forme” di colpa non sempre è così netto come potrebbe prima facie sembrare. Sono infatti assai numerose quelle regole cautelari che, sebbene di fonte giuridica, presentino in realtà un carattere “elastico”, richiedendo pur sempre il riferimento anche a regole non scritte per una compiuta individuazione della condotta diligente229. Può per esempio

accadere che il legislatore preveda fattispecie di tipo aperto, soprattutto, si diceva, quando si tratti di tener conto dell’evoluzione scientifico-tecnologica in determinati settori. La questione è stata di recente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità in una delle pronunce relative al caso del petrolchimico di Porto Marghera230, che si

presenta, anche sotto il profilo formale, come una vera e propria trattazione in materia di colpa, con non dissimulate pretese di esaustività sugli argomenti maggiormente problematici. Per quel che qui interessa, i ricorrenti avevano contestato il difetto di determinatezza della regola cautelare che si assumeva violata, costituita dagli artt. 20 e 21 del d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 […] : l’espressione «per quanto è possibile» non consentirebbe di individuare il modello di comportamento rispetto al quale valutare la conformità della condotta tenuta dagli imputati. La Corte non ritiene tuttavia condivisibile una simile argomentazione: è infatti frequente che in materia di prevenzione del rischio di infortuni o di malattie professionali il legislatore scelga di costruire la regola cautelare di riferimento mediante «criteri generici», che devono poi essere «di volta in volta specificati con il richiamo alle cautele che la scienza, l’esperienza e l’evoluzione tecnologica dell’epoca sono in grado di suggerire […]. La tipicità della norma incriminatrice e la

      

229 Per la distinzione tra regole “rigide” e regole “elastiche” G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Giuffrè, 1965, p. 236 ss. e F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 332-333.

230 Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, Bartalini, cit., cc. 564-565. Per i precedenti gradi di

giudizio Trib. Venezia, 2 novembre 2001, Cefis e altri e Corte App. Venezia, 15 dicembre 2004, in Riv.

it .dir .proc. pen., 2005, 1670 ss., con nota di C. PIERGALLINI, Il paradigma della colpa nell’età del

determinatezza della fattispecie sono dunque garantite da questo criterio: la formula “per quanto è possibile” utilizzata dagli art. 20 e 21 significa che l’agente deve far riferimento alle misure idonee in base alla miglior scienza ed esperienza, conosciute all’epoca della condotta, per ridurre il più possibile le esposizioni; e ciò indipendentemente dal loro costo»231. La Corte, in realtà, va poi ben oltre i limiti

dell’argomentazione appena ricordata, affermando che il principio di determinatezza e quello di tassatività non si riferirebbero anche all’elemento soggettivo del reato e, quindi, non impedirebbero di ritenere che l’evento in concreto verificatosi debba rientrare nel “tipo” di eventi che la norma mirava ad evitare, non essendo per contro necessario il riferimento ad una categoria specifica di eventi232. Queste ultime

affermazioni meriterebbero per la verità un approfondimento ulteriore se, come nella stessa pronuncia non si manca di rilevare, le regolare cautelari svolgono un ruolo decisivo nella descrizione della condotta tipica, specie nelle fattispecie causalmente orientate233.

Limitandosi tuttavia alla verifica di legittimità di regole cautelari strutturate mediante “criteri generici” è evidente che, nei suoi termini generali, il problema risulta esattamente equivalente a quello che si pone per ogni regola “elastica”, per le quali si impone il necessario completamento della regola scritta mediante i criteri tipici della colpa c.d. generica: nel caso in questione, per esempio, si tratterà di verificare cosa doveva e poteva fare il datore di lavoro-modello che si trova ad operare nella situazione-modello, ovvero in un contesto produttivo in cui i lavoratori si trovano esposti a sostanze tossiche quali il cvm (cloruro di vinile monomero).

La peculiarità di casi quali quello in esame risiede piuttosto altrove e consiste nell’“incertezza scientifica” relativa alla nocività di certe sostanze o, il che è lo stesso, nella progressiva acquisizione di conoscenze in merito agli effetti dannosi che possono derivare alla salute umana a seguito dell’esposizione a materiali tossici. L’aspetto cruciale della questione, quindi, più che la pretesa carenza di determinatezza della regola di condotta, riguarda l’individuazione del momento a partire dal quale si può pretendere che l’agente riconosca i rischi connessi ad una certa attività e, quindi, si attivi per impedirne i possibili sviluppi lesivi. Pienamente condivisibile è la premessa per cui “diligente” non è il comportamento usualmente tenuto nello svolgimento di una certa attività, in quanto anche una pratica

      

231 Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, Bartalini, cit., c. 565.

232 Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, Bartalini, cit., cc. 572 e ss.. Sul punto più diffusamente infra, § successivo.

233 Cass. pen., Sez. IV, 17 maggio 2006, Bartalini, cit., c. 562. La Corte ritiene anche che dalla

accentuata normativizzazione della fattispecie, ancor più evidente in caso di reati omissivi impropri, deriverebbe un necessario ampliamento dei poteri del giudice, che si vedrebbe attribuito il compito di delimitare la fattispecie in questione. Per la verità, come si è cercato di evidenziare più volte, una delle “sfide” cui l’interprete è chiamato in tema di reato omissivo colposo è propria quella di individuare dei criteri che consentano di ridurre il più possibile i margini di arbitrarietà nell’individuazione della fattispecie penalmente rilevante.

ampiamente diffusa può rivelarsi contraria alle regole cautelari di riferimento: in caso contrario si finirebbe in sostanza per legalizzare «il solito, comune andazzo»234.

La diligenza esigibile, quindi, non va ricavata da quello che si usa fare in contesti analoghi a quello di riferimento, ma da ciò che si poteva pretendere dall’homo

eiusdem professionis et condicionis, anche in termini di sopportazione dei costi

economici relativi, fino ad arrivare alla rinuncia all’attività rischiosa quando si tratti del solo mezzo in grado di eliminare o anche solo di minimizzare i pericoli, specie se viene in considerazione la tutela di interessi quali la vita e l’incolumità pubblica235.

L’individuazione della regola cautelare, come già anticipato, richiede però che venga fissato un momento a partire dal quale in capo all’agente-modello cui è riconducibile l’agente concreto sorge il potere-dovere di prevedere i possibili sviluppi dannosi o pericolosi della propria attività e di evitarli mediante l’adozione delle misure adeguate. Nel tentativo di fornire una risposta equilibrata al quesito in esame si è detto che le conoscenze rilevanti sono quelle che da conoscenze specialistiche, note solo ad una ristretta cerchia di individui, divengono diffuse, e che ciò avviene nel momento in cui l’agente-modello è in grado di acquisire le informazioni relative236.

Si ripropone evidentemente, anche in casi di questo tipo, la questione relativa delle maggiori conoscenze possedute dall’agente concreto: qualora risulti che, per esempio a seguito di ricerche commissionate dallo stesso datore di lavoro, quest’ultimo era a conoscenza di rischi cancerogeni derivanti da certe sostanze, sarà a questa situazione-modello che occorrerà far riferimento, indipendentemente dal

      

234 EXNER, Das Wesen der Fahrlässigkeit, 1910, pp. 196 e ss., come citato da G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche, cit., p. 33, al quale si rinvia anche per ulteriori

indicazioni bibliografiche sul punto. In senso contrario, con una posizione rimasta tuttavia isolata, si era pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza 25 luglio 1996, n. 312, in Giur. Cost., 1996, pp. 2575 e ss.: la questione rimessa all’attenzione della Consulta era analoga a quella riferita nel testo, in quanto si discuteva della legittimità costituzionale dell’art. 41, primo comma del d. lgs. 15 agosto 1991, n. 277, relativo alle misure tecniche che il datore di lavoro dovrebbe adottare per la protezione dei lavoratori dai rumori. La Corte ha ritenuto che «il modo per restringere, nel caso in esame, la discrezionalità dell'interprete è ritenere che, là dove parla di misure “concretamente attuabili”, il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l'accertamento del giudice: ci si dovrà chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o specificamente prescritta». In senso critico, per tutti, D. PULITANÒ, voce Igiene e

sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. disc. pen., Aggiornamento, Torino, Utet, 2000, pp. 396 e ss.. 235 G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche, cit., pp. 46-47.

236 G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche, cit., 49-51, il quale precisa anche che il livello di

conoscenze esigibili può variare a seconda della dimensione dell’impresa, nel senso che è ragionevole pretendere conoscenze particolarmente elevate soprattutto quando si tratti di imprese di grandi dimensione, mentre per il piccolo imprenditore la conoscenza esigibile sarebbe solo quella talmente diffusa da divenire patrimonio dell’intero comparto industriale al quale appartiene.

grado di diffusione raggiunto dall’informazioni di cui il singolo soggetto dispone. Ferma restando, in ogni caso, la verifica relativa alla sussistenza anche della misura soggettiva della colpa.

In altri termini, sembra che lo schema tradizionale del reato colposo, qualora applicato rigorosamente, fornisca già gli strumenti per arginare le spinte verso una pericolosa “volatilizzazione” dell’elemento soggettivo del reato che, analogamente a quanto avviene in sede di individuazione dell’obbligo giuridico di impedimento dell’evento, porti a sconfinare in autentiche responsabilità “di posizione”: il datore di lavoro, solo in ragione del ruolo che ricopre, “deve” prevedere ed evitare le conseguenze lesive derivanti dall’attività svolta, con una completa svalutazione delle tre dimensioni della “dominabilità” nella colpa, a partire dalla possibilità di riconoscere il comportamento diligente e, quindi, di adeguare ad esso la propria condotta.

In senso contrario si è ritenuto che il criterio della prevedibilità non sia in grado di svolgere quel ruolo di orientamento comportamentale che si pretende di attribuirgli; dal canto suo l’agente-modello sarebbe una figura troppo evanescente per rappresentare un valido punto di riferimento nella formulazione della regola cautelare: «l’agente modello non preesiste alla condotta pericolosa, non è consultabile da parte dell’agente reale; questa singolare figura, che si presenta come condensato di umane virtù entra in scena ex post, nel ruolo di consulente dello stesso giudice, che lo ha creato in funzione del giudizio che deve emettere». E, visto che “la prudenza non è mai troppa”, nella maggior parte dei casi l’agente-modello si asterrà dallo svolgimento di attività rivelatesi poi pericolose: «in breve: il parametro dell’agente modello produce una notevole semplificazione del problema e consente l’agevole motivazione di una sentenza di condanna decisa, nella migliore delle ipotesi, in base a altri parametri destinati a restare nell’ombra. In effetti, il giudice che consulta l’agente modello ricorda il soliloquio di un ventriloquo che anima un fantoccio, la cui saggezza – nel dubbio – sconsiglia ogni assunzione di rischio»237.

Considerazioni certo condivisibili, che tuttavia rappresentano un’efficace sintesi critica della prassi sviluppatasi in tema di responsabilità per colpa e non anche le conseguenze necessariamente derivanti da una ricostruzione del reato colposo sulla base dei principi generali offerti dal nostro ordinamento. Il compito dell’interprete, pare quasi superfluo ricordarlo, non è solo quello di prendere atto delle “distorsioni” cui può condurre la prassi, al fine, come assai spesso succede, di garantire una tutela sufficientemente incisiva a beni ritenuti fondamentali, quali la vita, la salute pubblica o l’ambiente; si tratta invece di verificare se l’“impatto della modernità” possa essere utilmente fronteggiato, de iure condito, mediante gli

      

237 F.GIUNTA, I tormentati rapporti fra colpa e regola cautelare, in Dir. pen. e proc., 1999, fasc. 10,

pp. 1295-1297. Analoghe considerazioni in F.GIUNTA, Il diritto penale e le suggestioni del principio di

precauzione, cit., pp. 243-244. Sulla “crisi” dell’agente-modello anche V.ATTILI, L’agente-modello

strumenti messi a disposizione dal diritto positivo e, in caso contrario, di elaborare de

iure condendo soluzioni normative che siano in grado di colmare lacune sostanziali

eventualmente ravvisabili.

Proprio il riferimento alla vicenda del Petrolchimico di Porto Marghera costituisce un spunto appropriato per introdurre il discorso sull’effettivo contenuto del nesso che deve intercorrere tra la violazione di una regola cautelare e l’evento che ne è derivato.

CAPITOLO III

IL NESSO TRA LA VIOLAZIONE DELLA REGOLA CAUTELARE E L’EVENTO: LA

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