DI FORMAZIONE UMANA
3. Sogno e autoformazione
Quando Vitangelo Moscarda, noto protagonista di Uno, nessuno e centomila, si accorge di non essersi mai dato per suo conto un’identità69è ormai troppo tardi: senza nessun appiglio si perde
nelle interpretazioni che gli altri gli attribuiscono e finisce per di- sfarsi completamente. Rinunciando all’impegno di darsi una for- ma, ossia un punto fermo anche se non immortale sul quale sem-
pre ritornare, l’essere umano è per forza di cose in balia degli eventi, delle occasioni e dell’altrui sguardo soggettivo. La tragica vicenda di Vitangelo Moscarda assume dunque una valenza miti- ca e pone un accento inesorabile sull’umana necessità dell’autofor- mazione. Alla base di ogni sforzo autobiografico, strumento auto- formativo per eccellenza, c’è proprio l’esigenza, quasi inevitabile, di darsi un senso per presentarsi al mondo70e stabilire con esso un
dialogo alla pari, senza esserne schiacciati. Autoformazione non è un termine autoreferenziale, ma ha radici storiche e teoriche ben determinate che trovano espressione nel concetto di Bildung:
“[…] l’espressione “ich erziehe dich” (io ti educo) è cor- retta, non è possibile dire “ich bilde dich” (io ti formo) in quanto nella lingua tedesca il verbo bilden è del tutto au- to-referente. L’enunciato, cioè, ha un carattere riflessivo poiché il suo contenuto implica comunque un riferimento a se stessi e non ad altri. Questo perché la Bildung – con il suo carico di storia e teoresi – si riferisce esclusivamente a qualcosa (la “formazione”) che riguarda il o un singolo uo- mo. È l’uomo che si forma da se stesso e in se stesso. Men- tre nessuno può formare qualcun altro”71.
Si può essere educati, secondo un codice che trascende il sin- golo, ma è impossibile che qualcun altro ci dia una forma. Perché la forma che ci diamo è una complessa e mai conclusa sintesi che implica anche dimensioni sofferenti a una definizione oggettiva e delle quali, spesso, soltanto noi possiamo farne davvero esperien- za: i sogni e le altre esperienze immaginative, ad esempio, possia- mo sì raccontarle ad altri, ma soltanto noi ne sentiamo e conservia- mo lo spessore emotivo e dunque solo noi siamo capaci di interro- garli fino in fondo. Accadono a noi e non a un altro. Lo stesso va- le per le nostre esperienze “concrete”: soltanto noi possiamo inter-
70 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 60.
71 M. Gennari, Bildung e erziehung nel pensiero pedagogico di Hans-Georg Gada-
mer, Postfazione a H. G. Gadamer, Educare è educarsi, Il Nuovo Melangolo,
rogare in profondità il nostro approccio a esse, ossia l’intricato complesso di emozioni, sensazioni e pensieri che ne riceviamo e con il quale coloriamo, anche inconsapevolmente, il nostro modo di vedere i fatti. La stessa educazione che riceviamo è una di quel- le dimensioni coinvolte nella sintesi. Infatti, nel momento in cui il fine dell’autoformazione è un dar “forma alla propria originale pre- senza nel mondo”72, ne deriva che quei valori istituzionali e social-
mente condivisi che ci vengono trasmessi vadano sottoposti al no- stro particolare sguardo interrogante e solo successivamente inte- grati, in modo più o meno didascalico, nella personalità totale. La grande sfida, in questo caso, sta nel rendere il nostro sguardo si- mile a quello di Paul Klee quando dipingeva Il teatro di marionet- te, come se fosse la prima volta che si aprono gli occhi sul mondo, distaccandosi radicalmente dal già pensato e dalle categorie classi- che e consolidate con le quali si è soliti osservare la realtà. Il me- desimo approccio è quello raccomandato da Kierkegaard che, a proposito delle questioni poste dalla vita e dall’esistenza, suggeri- sce di partire da ciò che quel dato problema significa innanzitutto per me73, cancellando ciò che lo studio e la conoscenza umani han-
no prodotto e catalogato fino a quel momento. Presupposto diffi- cile ma inevitabile per sprigionare le innumerevoli potenzialità delle varie pratiche autoformative.
Se tra queste ultime ci sono il dialogo interiore, la scrittura dei propri pensieri ed emozioni per una critica disamina di sé, la me- ditazione sul proprio passato74e altre modalità sempre di caratte-
re colloquiale, come si possono porre nuove domande e trovare inaspettate risposte senza sospendere il già dato? Questo, però, vuol anche dire che l’autoformazione, per estendersi e farsi via via più radicale, oltre alla sospensione ha bisogno anche di una ampli- ficazione. Più sono le voci e più sono differenti, maggiormente ric- ca e completa sarà la sintesi. Ogni esperienza educativa e formati- va, infatti, si contraddistingue per l’ineliminabile dimensione dia- logica che, in ambito autoformativo, è anche e forse soprattutto
72 L. Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carrocci, Roma 2014, p. 141.
73 S. Kierkegaard, Diario, Bur, Milano 2000, p. 209. 74 Ibidem.
l’incontro, lo scambio e quindi il dialogo con l’alterità che avver- tiamo dentro di noi75. In questo incontro, quindi, non bisogna
escludere nulla di ciò che ci capita e ci riguarda e soprattutto que- gli ambiti che, di primo acchito, avvertiamo come distanti, insen- sati o addirittura vani. Uno di questi sono appunto i nostri sogni. Quante volte ci capita di dimenticare i nostri sogni? E quanti sogni vengono gettati consapevolmente nell’oblio e relegati al ran- go di mere illusioni? E quanti, invece, non vengono presi con al- cuna serietà? Eppure, come insegna Nietzsche, sono proprio quei minuti processi interiori ritenuti insignificanti che più di ogni al- tro ci dicono qualcosa di preciso sul nostro carattere76. Chi fa au-
toformazione non può escludere nulla e men che meno la propria attività onirica. Ma il sogno, oltre ad essere un interlocutore sor- prendente e necessario all’interno del globale processo di autofor- mazione, ha altresì la forza bastevole per inaugurare una partico- lare tecnica autoformativa. Un modello significativo sono I miei sogni del filosofo francofortese Theodor Adorno, un lungo diario che copre ben 35 anni di attività onirica. In un pensiero del 1956, Adorno scrive:
“I nostri sogni sono collegati tra loro non solo come nostri ma formano anche un continuum, fanno parte di un mon- do unitario, così come tutti i racconti di Kafka ruotano at- torno allo stesso motivo. Ma quanto più strettamente i so- gni sono connessi tra loro o si ripetono, tanto maggiore di- venta il pericolo di non riuscire a distinguerli dalla realtà”77. Questo ci suggerisce che, accogliendo i propri sogni, senza commentarli o interpretarli come fa Adorno, cioè senza pregiudi- zi, è possibile disegnare il tracciato delle nostre particolari moda- lità di immaginare, ossia di concepire la realtà se fossimo noi a do- verla creare. Il diario onirico sarebbe allora una buona pratica per tracciare la storia personale di quella facoltà che prende il nome di immaginazione. Una simile ricerca, di riflesso, ci direbbe molto sul
75 D. Demetrio, Educare è narrare, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012, p. 73. 76 F. Nietzsche, Come si diventa ciò che si è, cit., p. 75.
modo particolare in cui reagiamo spontaneamente alla realtà che subiamo e con cui significhiamo quella stessa realtà prima di espe- rirla. Molteplici sarebbero le vie che si potrebbero aprire, anche perché ogni percorso autoformativo ha necessariamente delle sue particolarità e questo vale soprattutto quando si ha a che fare con la nebulosità caratteristica dei sogni.
Il movimento evolutivo della vita non è, infatti, il lancio di una palla di cannone: esso non segue una direzione lineare per rag- giungere una meta altrettanto prevedibile. Piuttosto, l’evoluzione della vita assomiglia a una granata che, esplodendo, si frantuma in migliaia di schegge le quali, a loro volta, seguitano senza sosta ad esplodere78. Nessun attimo è uguale al precedente, nessun en-
te è mai uguale all’altro e nessuno è sempre uguale a se stesso. Perché Henri Bergson sceglie la similitudine della granata per de- scrivere l’evoluzione dei viventi? Perché la vita è innanzitutto ten- denza e, in quanto tale, essa non può che aprirsi verso molteplici strade79.
La vita non segue un fine fissato a priori e neppure una rigida e determinata concatenazione tra causa ed effetto, ma è un flusso, un continuum, un divenire molteplice, inarrestabile e sempre ori- ginale80. Se la vita in generale può contenere e sviluppare questa
molteplicità, il singolo essere umano, di natura finita, non può far altro che operare delle scelte: così, per ragioni di ordine pratico, alcune direzioni possibili vengono chiuse a favore di altre ma, no- nostante ciò,
“la strada che percorriamo nel tempo è cosparsa dei resti di tutto quello che cominciavamo a essere, di tutto quello che saremmo potuti diventare”81.
Per cui, le inclinazioni perdute, abbandonate e mai sviluppate possono nuovamente riapparire e reclamare attenzione. E posso- no farlo solo se i presupposti e le risposte imposte dalla vita prati-
78 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Bur, Milano 2013, p. 101. 79 Ivi, p. 102.
80 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 198. 81 H. Bergson, Op. cit., p. 206.
ca, ciò che abbiamo ereditato e le necessità di sopravvivere e di agire, sono momentaneamente sospesi: questo è appunto il terre- no nel quale germogliano i nostri sogni. Intuiamo che non tutte le strade sono definitivamente chiuse e non tutti gli edifici abilmen- te costruiti ed ereditati sono incrollabili: l’orizzonte della possibi- lità, inaspettato e imprevedibile, è sempre pronto a pararcisi da- vanti agli occhi. Perché, se nel frattempo, in mezzo al magma con- vulso della vita, siamo costretti a darci una forma e dunque una personalità e un punto di vista:
“dentro di noi, in ciò che comunemente chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, per comporci una coscienza, per costruirci una personalità. E in certi mo- menti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente”82.
Per semplificare, due possono essere le reazioni dell’uomo da- vanti a una tale condizione: da una parte c’è la tragica impossibili- tà di ritrovare una qualsivoglia identità, come nel caso del Vitan- gelo Moscarda di Pirandello; dall’altra ci sono il coraggio, la forza e l’ardore di avviare la ricerca di una nuova forma, rinnovata, più completa e adatta rispetto alla precedente. Anzi, a maggior ragio- ne quando tutto sembra essere irresolubilmente stabilito e il peso delle colpe e degli errori ci schiaccia inesorabilmente, è proprio la capacità di sprigionare la nostra molteplicità che va ricercata e ri- trovata83. Si sciolgono le incrostazioni e le carte del destino vengo-
no nuovamente rimescolate.
Una stessa funzione rigenerante la attribuisce Kierkegaard alla possibilità: grazie ad essa,
82 L. Pirandello, “Non conclude”, in L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., pp. 200-201.
83 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, cit., p. 32: “la de- pressione grave è sintomo di una resa all’unicità, che diventa nullità; è la crisi più drammatica di una vita adulta che si arrende, che non tollera più di esse- re tanti e dinamici”.
“il disperato riprende lena, si rianima, perché se l’uomo ri- mane senza possibilità è come se gli mancasse l’aria”84.
La vera tragedia si realizza quando, rinfrancato dalla possibili- tà, l’essere umano si lascia ingenuamente andare ad essa, perden- do ogni contatto con la realtà e con i limiti del proprio essere85.
Uno di questi limiti sta proprio nel doversi dare una forma, quin- di un fine e una fine86, che però non può e non deve mai conser-
vare la sua staticità e mirare a una coerenza e a una longevità im- possibili.
Gli uomini tutti d’un pezzo non esistono e mai esisteranno. Anzi, l’ambizione alla solidità non è neppure conveniente, se au- todisciplina non vuol dire altro che limitare, invece di lasciarle cantare, le molteplici e spesso incoerenti tendenze ed energie che nuotano dentro di noi: solo in tal modo, guardando sempre più a fondo nel caleidoscopio della nostra anima, possiamo stupirci e rafforzarci alla luce della nostra molteplicità87.
Soltanto dallo stupore suscitato dalla consapevolezza della no- stra variegata, irripetibile e contraddittoria composizione possiamo ricevere la forza necessaria per riattivare un percorso di autoforma- zione che, pur sempre tendente alla conquista più o meno estem- poranea di una nuova forma, ci consente di esercitare quella nostra libertà di esseri inevitabilmente votati alla trasformazione.
Il riconoscimento della molteplicità e la sospensione dell’unici- tà sono i presupposti irrinunciabili per l’esercizio di quella libertà. Se ciò è vero, il sogno non può che svolgere una funzione fonda- mentale.
Infatti:
“Il soggetto del sogno o la prima persona onirica, è il so- gno stesso, è il sogno tutto intero. Nel sogno, tutto dice “io”, anche gli oggetti e le bestie, anche lo spazio vuoto,
84 S. Kierkegaard, La malattia mortale, Mondadori, Milano 1991, p. 43 85 Ivi, p. 39 e segg.
86 L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Einaudi, Torino 2014, nota a p. 89. 87 F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in F.
anche le cose lontane e strane, che ne popolano la fanta- smagoria. Il sogno è l’esistenza che si scava in spazio deser- to, che si frantuma in caos, che esplode in baccano, impi- gliandosi, bestia che respira ormai solo a stento, nelle reti della morte”88.
Questa frantumazione è la stessa vissuta da Vitangelo Moscar- da, nel momento in cui si perde nelle centomila interpretazioni che gli altri gli attribuiscono. E Vitangelo Moscarda finisce per perdersi irrimediabilmente. Lo stesso, in maniera differente, acca- de a Nietzsche che, uccidendo costantemente se stesso, finisce per annullarsi definitivamente. Il sogno, però, è innanzitutto un’espe- rienza immaginaria, vissuta nella più assoluta intimità della nostra anima, per cui non interviene automaticamente nella realtà con- creta modificandola e non ha perciò lo stesso valore che può ave- re un’azione. Attraverso di esso sperimentiamo non concretamen- te ma virtualmente la nostra frantumazione, come se fossimo gli spettatori di un film dell’orrore che, pur terrorizzandoci, prima o poi finisce e ci mette nella condizione, a posteriori, di giudicarne lo spessore: non a caso, qualcuno ha individuato un legame tra il sognatore e lo spettatore cinematografico89.
In virtù di questo distacco, siamo in grado di interrogare i no- stri sogni, comprimendo il carico tragico che ogni frantumazione di sé potrebbe comportare. Abbiamo la rara opportunità di ritor- nare a vivere dopo essere morti e di osservare e indagare la nostra stessa morte, vissuta in maniera virtuale, immaginaria e ipotetica ma non per questo meno reale. Se il viatico per la conoscenza e la formazione personali è la separazione tra “io” e “me”90e cioè tra
noi stessi e i nostri pensieri, atti e contenuti interiori, nel sogno possiamo non solo trovare un interlocutore fondamentale e del tutto particolare, ma addirittura una possibilità di rinnovare anche quell’io che giudica. Nella convinzione che la nostra irripetibilità
88 M. Foucault, Op. cit., p. 60.
89 C. Metz, Cinema e psicoanalisi: il significante immaginario, Marsilio, Venezia 1980, p. 124. C. Musatti, Scritti sul cinema, Testo & Immagine, Torino 2000, p. 34.
non sta soltanto nel risultato, ma anche nella via che scegliamo di intraprendere per costruire la nostra personalità. Nessuno schema e nessuna tipizzazione psicologica potranno mai esaurire la com- plessità umana e il sogno ce lo ricorda, quasi ogni notte…
1 Questo paragrafo è stato scritto dalla dott.ssa Stefania Basilisco, funzionario giuridico-pedagogico, responsabile dell’area trattamentale e rieducativa della Casa Circondariale di Chieti.
1. Le attività trattamentali ed il trattamento rieducativo durante