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Sociologia della devianza e della criminalità

ALTRI APPROCCI TEORICI NELLO STUDIO DELLA DEVIANZA E DELLA CRIMINALITÀ

2. Sociologia della devianza e della criminalità

La sociologia della devianza e della criminalità si occupa dell’ana- lisi della relazione fra devianza, intesa come violazione degli asset- ti normativi sussistenti all’interno delle relazioni sociali, e ordine sociale. Dalle teorie conflittuali, critiche e interazioniste1, alle teo-

rie funzionaliste, del controllo sociale, dell’etichettamento e della disorganizzazione sociale, o dalla grande differenziazione fra scuo- la classica e scuola positiva quello che emerge nell’ambito degli ap- procci sociologici è una complessa e generale diversificazione di teorie e punti di vista sulla devianza e sulla criminalità, sia in rife- rimento agli studi che ne evidenziano il carattere deterministico ed eziologico, sia in riferimento agli studi che ne analizzano i rappor- ti di potere e l’essenza stessa delle società moderne. Se da un lato i fattori ambientali e culturali possono risultare fondamentali per

2 Sull’argomento si veda M. Barbagli, A. Colombo, E. Savona, Sociologia della

devianza, Il Mulino, Bologna 2003.

3 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1975.

alcune teorie, questi possono risultare addirittura marginali in al- tri approcci che considerano il comportamento deviante e crimi- nale come fattore costitutivo di coesione sociale, mentre in altre è la reazione normale ad una società ingiusta e diseguale sotto il pro- filo politico ed economico, per altre ancora esso sorgerebbe a cau- sa dell’adesione a subculture devianti2.

Secondo la scuola classica gli esseri umani sarebbero dotati di libero arbitrio e di ragione, dunque capaci di agire motivati dal proprio interesse e dalla propria personale ricerca del piacere e fu- ga dal dolore. L’azione deviante e criminale sarebbe, in tal modo, ma solo per alcuni, la via più semplice e naturale di realizzazione dei propri desideri.

La scuola positiva, al contrario, partendo da una visione deter- ministica del fenomeno, individua cause sociali e ambientali nella determinazione dei comportamenti devianti e criminali; i fattori che indurrebbero a tali reazioni devianti possono essere biologici, psicologici, materiali o sociali.

Da questa diversificazione emergono, comunque, delle costan- ti che vedono la devianza come una costruzione sociale che si mo- difica nelle diverse epoche storiche e nelle diverse aree geografi- che: quello che appariva deviante in passato potrebbe non essere più ritenuto tale, mentre comportamenti oggi ritenuti devianti po- tevano in altre epoche storiche essere inserite fra i comportamen- ti ritenuti normali degli individui, la stessa variabilità persiste nel- le diverse aree del pianeta. In Sorvegliare e punire3, classico di M.

Foucault, si individuano e si narrano i passaggi che hanno reso so- cialmente necessaria la creazione di un sistema di sorveglianza e di punizione, poi convogliato nella creazione della prigione, indi- spensabile alle società intese come relazioni di potere; oggi, infat- ti, il sistema penale è lo strumento che si occupa della gestione e del controllo della criminalità, tralasciando però l’ambito, ancora troppo scoperto, della prevenzione.

4 Cfr. E. Goffman, Stigma: l’identità negata, 1963, Laterza, Bari 1970. 5 Ivi, p. 15.

lico del sociologo statunitense George H. Mead, (1863-1931); se- condo il sociologo la realtà è costituita da un universo simbolico che l’uomo introietta e interiorizza attraverso il processo di socia- lizzazione. In questo quadro i concetti di ruolo e di identità, insie- me ai fenomeni legati all’emarginazione sociale e all’esclusione vengono ridefiniti proprio in base all’assetto sociale da cui origina- no. L’interazionismo non si interessa tanto delle cause della de- vianza, ma delle reazioni sociali di fronte ai fenomeni devianti e criminali e alla definizione sociale del concetto stesso di devianza. Secondo la teoria dell’etichettamento, dunque, il deviante non è tale per aver commesso determinati reati o per aver messo in atto determinati comportamenti, ma egli diventa deviante nel momen- to in cui la società lo etichetta come deviante, a cui seguono stig- matizzazione, sanzione legale e mantenimento dello stereotipo cri- minale. Da una devianza primaria, quella dell’azione deviante, si passa in tal modo a una devianza secondaria, in cui per reazione gli effetti dell’etichettamento sul piano psicologico determinano la cristallizzazione e una identificazione totale con l’identità devian- te attribuitagli, da qui l’estrinsecazione di vere e proprie carriere devianti effetto pigmalione.

Di grande interesse appaiono anche gli studi del sociologo americano Erving Goffman (1922-1982) sul concetto di stigma4; “i

greci, […] dettero origine alla parola stigma per indicare quei se- gni fisici che caratterizzano quel tanto di insolito e criticabile del- la condizione morale di chi li ha. Questi segni venivano incisi col coltello i impressi a fuoco nel corpo e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore, o co- munque una persona segnata, una paria che doveva essere evitato specialmente nei luoghi pubblici”5.Dalla nascita del concetto di

stigma, esso ha significato nei tempi e nei diversi luoghi la condi- zione dei soggetti stigmatizzati dalla società di riferimento; le so- cietà tutte, stabiliscono criteri e strumenti di categorizzazione in cui includere le diverse tipologie di persone, per mezzo della cata- logazione degli attributi personali e sociali appartenenti a ciascu-

no, aspetto che caratterizza l’identità sociale di ogni soggetto. Ta- luni attributi o caratteristiche personali sono causa di discredito e di condanna, quelli, appunto, che comportano l’assegnazione di uno stigma sulla base di uno stereotipo sociale consolidato. Nella categoria stigmatizzati rientrano tutti quei soggetti che si sono di- scostati dalla norma e che vengono considerati diversi e anomali; essi sono soggetti che Goffman definisce screditati poiché di loro, a differenza degli screditabili, i cui attributi negativi non sono no- ti, si conoscono tutti quegli attributi che ne hanno determinato il discredito e la distanza sociale.

Goffman distingue tre tipologie di stigma: 1) stigma fisico (es. deformazioni fisiche); 2) stigma caratteriale (disonestà, crudeltà, criminalità, cattiveria e tutti quegli aspetti criticabili del carattere); 3) stigma etnico-razziale-religioso. Al di là delle differenze, Goff- man nota come per essi valgano le medesime caratteristiche socio- logiche rispetto agli individui considerati “normali”: “Un indivi- duo che potrebbe essere facilmente accolto in un ordinario rap- porto sociale possiede una caratteristica su cui si focalizza l’atten- zione di coloro che lo conoscono alienandoli da lui, spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi potevano avere. Ha uno stigma, una diversità non desiderata rispetto a quanto noi ave- vamo anticipato”6. E poi spiega: “Per definizione, crediamo natu-

ralmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana. Partendo da questa premessa, pratichiamo diverse specie di discri- minazioni, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia an- che se spesso inconsciamente, le possibilità di vita. Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che quella per- sona rappresenta talvolta razionalizzando un’animosità basata su altre differenze come quella di classe”7. Chiaramente questa con-

dizione riguarda moltissimi, se non tutti, i detenuti ed ex detenu- ti, il cui stigma permane o rischia di permanere per tutto l’arco di vita rendendo difficoltoso il reinserimento sociale, compresa l’in- tera opera di “rieducazione” svolta all’interno dei penitenziari.

6 Ivi, p. 20. 7 Ivi, pp. 20-21.

Reinserirsi e reintegrarsi nella società, infatti, comporterebbe la necessità di smontare e di contrastare la logica sociale dello stigma che può avvenire solo in rarissimi casi e a patto di talune condizio- ni, come ad esempio il cambio di identità o il trasferimento in una città o in un paese diverso; in tutti gli altri casi permane una diffi- coltà quasi incontrastabile nella reintegrazione sia sociale che pro- fessionale e lavorativa, questioni annose che presentano una inevi- tabile ricaduta critica sul piano della rieducazione e della sua in- trinseca possibilità.

Con il concetto di «accettazione» Goffman spiega la condizio- ne in cui viene a trovarsi il soggetto stigmatizzato all’interno della società; egli non riceve dagli altri la considerazione e il rispetto at- tesi e cerca o di correggere la sua alterità, cambiando e divenendo più apprezzabile dagli altri, può cadere in una sorta di vittimismo, o ancora può cercare di superare se stesso e i propri limiti cercan- do una qualche forma di unicità positiva. Altre volte, invece, il soggetto stigmatizzato può decidere per una forma di isolamento autonomo ma indotto, o può mostrare al contrario una forma di «ostilità provocatoria» al posto di una più adattabile forma di «ti- morosa sottomissione» agli altri, come se con la sottomissione po- tesse pagare la sua minorità sociale. Si tratta in sostanza della rela- zione dello stigmatizzato con la realtà sociale che vengono defini- ti «contatti misti», i momenti in cui la persona stigmatizzata e quella normale vengono a trovarsi nella stessa «situazione sociale».

Più spesso accade che i soggetti con il medesimo stigma formi- no delle vere e proprie reti di assistenza reciproca (es. ex detenu- ti, portatoti di handicap, ecc.), dove è consentito solo a pochi “normali” di entrare; è il caso di quelli che Goffman definisce i “saggi”, persone normali, membri onorari della comunità, parteci- pi della vita e delle problematiche relative allo stigma di cui il gruppo sociale è portatore. Spesso si tratta di persone che offrono un servizio di volontariato all’interno di specifici contesti e che si adoperano anche a sostenere e a farsi portavoce dei bisogni e del- le necessità delle categorie stigmatizzate rappresentate anche di fronte agli organi istituzionali, presenza preziosa e fondamentale per un necessario lavoro di sgretolamento dello stigma. “I membri onorari di una categoria stigmatizzata offrono un modello di «nor- malizzazione», dimostrando fino a che punto i normali possono

arrivare nel trattare le persone stigmatizzate come se queste non lo fossero”8. Questo punto è di estrema importanza ai fini del pre-

sente lavoro, mosso proprio all’interno di una zona franca, quella del volontariato appunto, che appare come strumento che opera a favore della distruzione dello stigma e della imposizione della per- sona sullo stigma.

Goffman ricorda poi, che i ruoli di “persona normale” e “per- sona stigmatizzata” non sono fissi in una società e non per tutta la durata di un’intera esistenza e più che rappresentare persone essi rappresentano prospettive che possono mutare negli anni e nei di- versi contesti, anche in riferimento alle forme di controllo sociale vigenti, compresa l’utilità o meno della stigmatizzazione9.

Sul concetto di devianza Goffman precisa come per “soggetto deviante” debba intendersi un qualsiasi individuo che non aderi- sce, si ribella o decide volontariamente di non aderire alle norme sociali condivise e accettate sia sul piano sociale, morale e cultura- le, sia su quello più specificatamente normativo e legale. “Comin- ciando dal concetto generale di un gruppo di individui che condi- vidono certi valori e aderiscono a tutta una serie di norme sociali riguardanti la condotta e gli attributi personali, possiamo definire qualsiasi individuo che non aderisce a tali norme come un devian- te e la sua caratteristica come una deviazione”10. L’aspetto peculia-

re della devianza per scelta rappresenta il focus che consente l’ana- lisi di un gruppo di soggetti, distinti in devianti sociali, quelli che si riuniscono in sotto-comunità devianti, i disaffiliati, che prendo- no una posizione netta e alternativa alle regole sociali condivise in riferimento ai ruoli sociali e alle attese familiari, spesso si tratta di individui che scambiano la devianza con una ricercatezza identita- ria di tipo creativo, divenendo “personaggi” o “soggetti eccentri- ci”. In particolare, la categoria dei devianti sociali, costituita da prostitute, drogati, delinquenti, criminali, bohémiens, zingari, straccioni, poveri, dovrebbe essere quella maggiormente investiga- ta dalle scienze sociali secondo Goffman, in quanto “si tratta di

8 Ivi, p. 57.

9 Cfr. Ivi, pp. 211-213. 10 Ivi, p. 215.

gente che viene considerata parte di un gruppo che nega global- mente l’ordine sociale. Vengono percepiti come persone che non vogliono servirsi di opportunità reali per migliorare la propria condizione in settori approvati dalla società, di gente che fa aper- ta mostra di disprezzo per le classi sociali superiori, che non ha pietà e che incarna il simbolo del fallimento rispetto agli schemi tradizionali della società”11.

In effetti andrebbero indagati i motivi personali e sociali che portano una quota sempre presente di individui a staccarsi dalla società, subendone il pesante stigma sia sul piano sociale che su quello mentale e psicologico, pur di non adeguarsi ad essa. Freud ci ricorda ne Il disagio della civiltà di come il processo di civilizza- zione degli impulsi sia sempre risultato imperfetto, come ampia- mente dimostrato dalle guerre e dalle continue barbarie, eppure l’interpretazione freudiana basata sul sacrificio e sul controllo im- perfetto degli istinti non spiega ancora ampiamente le cause della devianza e della marginalità sociale. Come ripetuto più volte le va- riabili che intercorrono sono molteplici e non tutte di chiara estrinsecazione, quello che resta è una fotografia della nostra so- cietà, spesso profondamente ingiusta nella sua divisione in classi, dove il potere economico è concentrato in pochi, dove l’ingiusti- zia sociale imperversa, dove non vengono date a tutti le medesime opportunità, nemmeno il lusso-non lusso di conoscere se stessi e di lavorare sulle parti di sé meno evolute, quelle questioni interio- ri irrisolte che spesso si trovano dietro ad ogni storia di devianza, come purtroppo constatato attraverso la conoscenza dei detenuti, portatori il più delle volte di storie di dolore, di privazione e di ne- cessità, come di storie di adolescenze difficili che deragliano pri- ma che si riesca a riportarle sui corretti binari, colpa e prerogativa di tutte le istituzioni formative ed educative formali, informali e non formali chiamate a svolgere un’azione educativa anche nel- l’ambito della prevenzione e del sostegno alla crescita e alla forma- zione personale e sociale di ciascun individuo.

3. Criminologia

“Con il termine «criminologia» si intende lo studio scientifico del- la criminalità, del delinquente e del comportamento criminale. Più in particolare i criminologi studiano la natura e la dimensione del crimine, i tipi di criminalità, cercano di individuare e spiegare le cause del reato e del comportamento antisociale, nonché la con- nessa reazione sociale. […]. In termini più attuali si parla di una disciplina integrata che trae le sue conoscenze da molti campi, da una «costellazione» di altre discipline: sociologia, psicologia, psi- chiatria, antropologia, biologia, giurisprudenza e diritto penale, scienza politica, storia e scienza della pubblica amministrazio- ne”12.

Anche nel settore criminologico lo studio dell’eziologia del fe- nomeno deviante e criminoso appare uno degli argomenti di mag- giore rilievo, tuttavia, come per la pedagogia e per la sociologia, un approccio deterministico in grado di rilevare i nessi di causa-effet- to sono alquanto dubbi e impraticabili. Nessuna scienza e nessun approccio disciplinare è pervenuto, sino a ora, ad analisi di tipo deterministico tali da avvalorare un nesso di causa-effetto fra i fe- nomeni; la complessità della società e la sua variabilità interna in- duce a dover considerare il fenomeno deviante e criminale analiz- zando tutti quei fattori sociali e individuali che possano, in qual- che modo, contribuire al suo determinarsi, pur senza trovare nes- si causali certi. Di fatto l’incertezza nelle cause scatenanti il feno- meno, unitamente all’eterogeneità degli approcci teorici, impedi- scono una corretta azione preventiva che, necessariamente, do- vrebbe fondarsi sull’evitamento delle cause stesse; proprio per questo il lavoro di prevenzione è altamente differenziato in quan- to diverse e molteplici sono le possibili cause dei fenomeni devian- ti e criminali, cause e risposte preventive che andrebbero valutate singolarmente agendo sui diversi fattori umani e sociali.

I fattori che vanno analizzati nella comprensione del fenomeno possono distinguersi in sociali e individuali; da un lato sono i fat-

12 G. Marotta, Teorie criminologiche. Da Beccaria al Postmoderno, LED, Milano 2004, p. 15.

tori insiti nella struttura sociale di riferimento e nei valori domi- nanti di una data cultura, dall’altro tutti quei fattori individuali che riguardano il singolo soggetto deviante: personalità, carattere, eventuali patologie mentali, condizione socio-economica, condi- zione familiare, livello di scolarizzazione, ambito relazionale, affet- tivo e professionale, etc.

La criminologia, come vuole la parola stessa, si occupa in par- ticolare del “crimine”, ritenuta la forma più grave del comporta- mento deviante che comporta una sanzione dal punto di vista giu- ridico. La violazione delle norme costituite, garanzia della stabili- tà e dell’ordine sociale, sono il riferimento della criminologia, che analizza proprio le ragioni del comportamento deviante e crimino- so, inteso come non conformità alle regole sociali formali e infor- mali. Tutto il processo di socializzazione consiste, sin dalla nascita, nell’interiorizzazione di norme, valori, credenze, religioni e visioni del mondo strutturate intorno a culture e società determinate nel- le quali si è inseriti; dalla socializzazione primaria che avviene in fa- miglia attraverso l’educazione, si procede verso una socializzazione secondaria contraddistinta dall’ingresso nel mondo sociale di rife- rimento con l’adeguamento a leggi, norme, valori, usi e costumi.

La nascita della scienza criminale nel mondo moderno si fa ri- salire a Cesare Beccaria (1738-1794) che, insieme al britannico Je- remy Bentham (1748-1832), fonda la Scuola Classica di diritto pe- nale e criminologia in contrapposizione al sistema europeo di giu- stizia arretrato e crudele prima della Rivoluzione francese. Il pen- siero criminologico di Beccaria, contenuto nella sua opera fonda- mentale, Dei delitti e delle pene, (1764), si muove all’interno di un pensiero illuminista che consolida le basi della ragione a vantaggio del miglioramento globale delle condizioni di vita degli individui, comprese quelle degli individui macchiati da colpe e reati. Egli contestava i metodi dell’ancien régime e rivendicava un sistema pe- nale maggiormente oggettivo, non soggetto dunque agli aspetti personali e soggettivi insiti nelle decisioni dei giudici; auspicava, infatti, che il giudice venisse affiancato da una giuria sorteggiata, garanzia di maggior libertà di giudizio. Di estremo rilievo nel pen- siero del filosofo è il tema della prevenzione dei delitti; il fine di ogni buona legislazione dovrebbe essere, dunque, quello di forti- ficare le virtù e l’educazione dei singoli, per mezzo di leggi sempli-

ci e chiare e per mezzo della conoscenza. Il discorso sulla pena è ovviamente il tema centrale; oltre a dover essere esercitata da un’istituzione pubblica deputata, onde evitare forme estreme di giustizialismo, le pene dovevano essere uguali per tutti e già deter- minate nelle leggi, ovvero le pene non potevano essere retroattive e dovevano essere proporzionate al reato commesso (certezza del diritto e pena retributiva). Le pene dovevano, altresì, essere note e conosciute, come le leggi, incentivando in tal modo il valore di de- terrenza, riducendo le possibilità che il reo commetta nuovi reati e aumentando la possibilità che tutti gli altri desistano dal com- metterne, ovvero la funzione intimidativa o deterrente della pena mediante la minaccia della sanzione.

L’utilitarismo di Bentham, anch’esso filosofo e giurista, sostie- ne la generale convinzione circa la capacità degli esseri umani di discernere fra il giusto e l’ingiusto, fra il bene e il male; in base a ciò, il comportamento criminale sarebbe dettato da esigenze edo- nistiche correttamente calcolate e preventivate. La costituzione stessa delle società si sarebbe basata sul principio dell’utile, in con- seguenza del fatto che le società portavano un vantaggio soggetti- vo ai singoli. Egli fa poi riferimento al concetto di “calcolo mora- le”, ovvero il calcolo delle probabilità connesse alla messa in atto di comportamenti in base alla valutazione del piacere o della sof- ferenza, presente o futura, che ne scaturirebbe. “Partendo da que- sta considerazione Bentham sostiene che un individuo commette un crimine perché il piacere anticipato, provato per l’atto com- messo, è notevolmente superiore alla sofferenza che ne potrebbe derivare”13. Sia in Cesare Beccaria che in Jeremy Bentham la pena

doveva essere inflitta non per vendetta, ma come deterrente al fi- ne di ridurre le azioni criminali e devianti; questa posizione libera- le avrà diffusione nel XIX secolo all’interno della Scuola Classica del Diritto Penale, facente capo al giurista Francesco Carrara (1805-1888). Questa impostazione teorica viene racchiusa all’in-