• Non ci sono risultati.

Riflessioni su un grado di giudizio ancorato alla tradizione e assiologicamente necessario

1. Introduzione: i lavori preparatori.

L’appello, è stato scritto da chi ha studiato in maniera approfondita il siste- ma delle impugnazioni anche in prospettiva riformistica, «può essere definito un mezzo di impugnazione ordinario […], tipico, diretto, sospensivo […], esten- sivo […] e devolutivo che si propone mediante una dichiarazione di volontà con cui viene impugnato, in tutto o in parte, per motivi di fatto o di diritto, un provvedimento del giudice ed è richiesto un nuovo giudizio, totale o parziale, ad un giudice di secondo grado»1.

Esso, come è noto, costituisce uno degli istituti più controversi della pro- cedura penale2, essendo state poste in discussione talvolta la conformazione

strutturale3, altre volte finanche la necessità sistematica del mantenimento di

«un mezzo di impugnazione ordinario, attraverso il quale ciascuna delle parti

1 spangher, Appello nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., I, 196. V., inoltre, TOnini,

Manuale di procedura penale, Ed. XIX, Milano, 2018, 935, nonché, tra gli studiosi del processo penale previgente, leOne, Impugnazioni (Diritto processuale penale: profili generali), in Enc.

giur., XVI, 1; Manzini, Istituzioni di diritto processuale penale, Padova, 1967, 273; bellavisTa, Le-

zioni di diritto processuale penale, Milano, 1973, 407. In id., Appello (Diritto processuale penale),

in Enc. dir., II, 758, definisce gli effetti delle impugnazioni (in generale) come «le conseguenze giuridico processuali nascenti dal fatto della semplice proposizione delle impugnazioni stes- se e queste non vanno, pertanto, confuse con gli effetti dei provvedimenti che l’impugnazione proposta, quando si è deciso su di essa, provoca».

2 Come fa notare spangher, Riforma in appello (proscioglimento vs condanna) e principio di

immediatezza, in Giur. it., 2014, 11, 2590, «[l]’appello è da sempre oggetto di contrapposte visioni: per un verso, se ne esalta la funzione; per un altro gli si imputa la disfunzione del sistema processuale; da un lato, viene percepito come uno strumento di garanzia; dall’altro, se ne evidenzia la finalità dilatoria».

3 chinnici, Appello (evoluzione), in Dig. disc. pen., Agg. VIII, 5, definisce l’appello un istituto

«in crisi di identità» che appare «come arroccata città turrita, inespugnabile tanto dagli inter- venti legislativi quanto dalle sollecitazioni della dottrina»>.

che vi abbia interesse e nei limiti dell’appellabilità oggettiva, qualora ritenga errata – per ragioni di merito o di diritto – la decisione del giudice di primo gra- do, può chiedere, in riferimento a uno o più capi o punti della pronuncia, una nuova decisione al giudice competente»4.

Nell’ambito di un sistema, quale è quello delineato dal codice, in cui è stato spesso considerato una ingombrante eredità dei sistemi misti, dove mirava a compensare le scarse garanzie attribuite alla difesa in primo grado5, l’appello

costituisce l’anello più debole di una catena frutto di una impostazione com- plessiva che, sommando garanzie di tipo verticale a garanzie di tipo orizzon- tale, è da più parti stata ritenuta incongrua e, anche alla luce del canone della ragionevole durata, da rimeditare6.

Consolidatasi, oramai, una posizione giurisprudenziale che propugna l’as- senza di una previsione costituzionale che assicuri copertura (a livello di nor- mazione primaria) al principio del doppio grado di giurisdizione di merito – il quale consiste nella possibilità di ottenere, sul merito di una determinata vi- cenda contenziosa (un diritto controverso o una pretesa punitiva) una seconda pronuncia, da parte di un giudice diverso, destinata a prevalere sulla prima7 – e,

dunque, imponga la conservazione del giudizio di appello quale indefettibile dato di sistema8, intorno ad esso si sono da sempre intersecate riflessioni va-

riamente articolate, oscillanti nel loro fondamentale compendio di valore tra la necessità di assicurare la ragionevole durata del processo – per cui, in fin dei

4 gaeTa, Macchia, L’appello, in Trattato di procedura penale, a cura di spangher, V, Impugna-

zioni, Milanofiori Assago, 2009, 273. Come fa notare spangher, Riformare il sistema delle impu-

gnazioni?, in La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della giustizia penale, a cura di Kostoris, Torino, 2005, 108, il giudizio d’appello costituisce una garanzia importantis- sima, la cui eliminazione verrebbe percepita come un segnale all’insegna della repressione.

5 Lo rileva, richiamando una ricorrente opinione, Kostoris, Le impugnazioni penali, trava-

gliato terreno alla ricerca di nuovi equilibri, in Riv. dir. proc., 2008, 916, non senza rimarcare che «c’è qualcosa di profondo che, nonostante tutte le possibili critiche, lega i tre gradi di giurisdizione ad una nostra particolare identità, ad un nostro background culturale, al modo che abbiamo di concepire e di percepire l’amministrazione della giustizia».

6 KOsTOris, Le modifiche al codice di procedura penale in tema di appello e di ricorso per cas-

sazione introdotte dalla c.d. «legge Pecorella», in Riv. dir. proc., 2006, 633.

7 La definizione si rinviene in spangher, Il doppio grado di giurisdizione, in Presunzione di

non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, 2000, 104. Essa è ripresa, fra i tanti, da padOvani, Il doppio grado di giurisdizione. Appello dell’imputato, appello del P.M., principio

del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 4023. Oltre che, da ultimo, da algeri, Il nuovo volto

dell’appello tra obbligo di rinnovazione istruttoria e dovere di motivazione “rafforzata”, in Dir. pen. proc., 2019, 388. Come rileva, con chiarezza cristallina, C. cost., 15 giugno 1995, n. 280, il doppio grado di giurisdizione, così diffuso e tradizionale nell’ordinamento italiano, non è oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, sì che ogni scelta circa l’adozione o meno dell’appello nel processo penale non può che essere riservata al legislatore. V., inoltre, C. cost. (ord.), 4 luglio 2002, n. 316. Quindi, il principio è stato ulteriormente ribadito in C. cost., 6 febbraio 2007, n. 26.

8 Ma v., in senso contrario, la posizione di De carO, Impugnazioni (dopo la riforma Orlando),

conti, il giudizio di appello altro non sarebbe che una lungaggine (si aggiunge: il più delle volte strumentalmente utilizzata) collocata a valle rispetto ad una fase modulata seguendo criteri di accertamento accreditati dalle acquisizioni dell’epistemologia contemporanea e, oggi, consolidati in regole costituzionali9

– e l’opportunità (o necessità, se si spostano le considerazioni sul terreno delle opzioni politiche) di una verifica successiva di un esito processuale in ogni caso incidente su valori fondamentali della persona.

Come fa notare, d’altra parte, attenta dottrina, è fin troppo ovvio rammenta- re che «la previsione di precise preclusioni nei confronti di un secondo giudizio di merito e la predisposizione di rigorosi limiti in relazione alla regiudicanda davanti alla Corte di cassazione incidono sui tempi del processo, in quanto comprimono gli itinerari della vicenda giudiziaria e rendono più spedita la via verso il giudicato»10.

L’ovvietà dell’osservazione rende banale qualsiasi riflessione sull’istituto dell’appello che abbia come punto di riferimento l’esigenza di contenere i tem- pi del processo, soprattutto se si tiene conto del fatto che la Corte costituziona- le ha chiarito che il principio di ragionevole durata del processo deve essere contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali rilevanti nel processo penale11.

Evidenzia criticamente la dottrina, infatti, come l’approccio deflazionistico – peraltro, si tratta di una visione che ha sorretto i recenti interventi riformisti- ci del sistema delle impugnazioni – sia radicalmente errato e fuorviante, nel senso che «partire dall’idea che il controllo attuato mediante l’impugnazione di merito e di legittimità sia un ambito da ridimensionare numericamente non sembra oggettivamente una premessa condivisibile, posto che le peculiarità garantiste interconnesse alle impugnazioni ne consigliano un uso “proporzio- nale” alle esigenze concrete ed in particolare alla necessità di rimozione dell’er- rore giudiziario»12.

9 Sottolinea il rilievo che rispetto al rinnovato interesse per la rivisitazione della disciplina

delle impugnazioni determina «l’intreccio dell’uso strumentale dei rimedi con la previsione costituzionale di tempi ragionevoli», in particolare, presuTTi, L’inappellabilità delle sentenze di

proscioglimento tra regola ed eccezione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1195. Come posto in evidenza da ceresa-casTaldO, La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflative,

in Dpc, 2017, 3, 164, «[g]ià all’indomani del varo del codice Vassalli si erano avanzati dubbi sulla opportunità della scelta operata dal legislatore di mantenere l’assetto del mezzo so- stanzialmente invariato rispetto al precedente, sottolineandosi come, con il passaggio ad un sistema accusatorio […] non solo avrebbe perso valore la logica del doppio grado di merito (tipica della “cattiva coscienza” del codificatore inquisitorio), ma avrebbe finito per risultare incoerente con il nuovo impianto la stessa strutturazione di un secondo grado come giudizio critico, fondato (tendenzialmente in via esclusiva) sulla verifica degli atti del primo».

10 siracusanO, Ragionevole durata del processo e giudizi di impugnazione, in Riv. it. dir. proc.

pen., 2006, 16.

11 C. cost., 30 luglio 2008, n. 318.

12 de caro, Impugnazioni, cit., 336. D’altra parte, rileva pisani, Durata ragionevole del pro-

Appare invece metodologicamente corretto collocare il parametro (per così dire) “economico” – e, soprattutto, le soluzioni attuative di esso – all’interno di un sistema di impugnazioni la cui conservazione (o meno) in ogni sua compo- nente strutturale ha già costituito l’oggetto delle pertinenti valutazioni di ma- trice politica13.

D’altra parte, l’assenza di una norma che offrisse copertura costituzionale all’istituto ed esigenze di semplificazione connesse alla necessità di contenere i tempi processuali, unitamente a valutazioni di afferenza di un secondo grado di merito ai modelli processuali di tipo inquisitorio, hanno sospinto giudizi di in- sufficienza della riforma delle impugnazioni attuata dal legislatore della nuova codificazione, accusato di avere conservato, nell’impostazione scaturente dalla legge di delega, praticamente inalterata l’architettura del vecchio codice14.

Quella delle impugnazioni, è stato difatti rimarcato in diverse occasioni, è materia che «avrebbe meritato una maggiore attenzione da parte del nuovo codice di procedura penale»15, il quale, sia pure nell’ambito di un disegno com-

plessivo non privo di tratti innovativi sotto diversi profili, non ha invece posto in discussione le direttrici di fondo del modello16.

Emblematico, sotto questo aspetto, il passaggio della relazione al progetto preliminare del codice del 1988 in cui si rimarca come le direttive della nuova legge di delega riguardanti le impugnazioni «ricalcano in linea generale quelle della delega del 1974, che già lasciava inalterata l’impostazione tradizionale del nostro sistema processuale mediante la previsione di tre gradi di giudizio ordinario, due di merito ed uno di legittimità, e della impugnazione straordina- ria della revisione»17.

processo non è, né può essere, neanche a livello costituzionale, un valore assoluto e autore- ferenziato».

13 Sottolinea l’importanza ed il senso di interrogarsi sulle ragioni della previsione di un

istituto, entrambi rilevanti sul “piano politico”, siracusanO, Ragionevole durata del processo,

cit., 17. Ma v., ancora prima, le riflessioni di Manzini, Istituzioni, cit., 262, per il quale l’attività

di controllo o di rinnovazione della fase processuale anteriore «risponde ad una evidente ne- cessità di buona amministrazione della giustizia […] mentre, sotto l’aspetto politico-giuridico, rimane soltanto discutibile l’opportunità di concedere l’uno o l’altro, o uno o più, dei mezzi di impugnazione».

14 cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il nuovo cpp. Dalle leggi delega ai decreti delegati, IV, Il progetto

preliminare del 1988, Padova, 1990, 1235.

15 spangher, Impugnazioni penali, in Dig. disc. pen., VI, 218.

16 Come fa notare laTTanzi, Una legge improvvida, in Impugnazioni e regole di giudizio nel-

la legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di bargis, capriOli, Torino, 2007, 490, la delega ha fissato per le impugnazioni pochi principi e

pochi criteri direttivi, riproducendo sostanzialmente il modello del codice abrogato, come se – aggiunge criticamente l’Autore – «su un processo di tipo accusatorio potesse innestarsi un sistema di impugnazioni pensato per un processo di tipo inquisitorio».

17 cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il nuovo cpp, cit., 1235. Come non mancano di osservare grevi,

neppi MOdOna, Introduzione al progetto preliminare del 1988, in cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il

Alla stregua delle predette direttive, dunque, la nuova disciplina «si [è] li- mita[ta], più che altro, a compiere un’opera di razionalizzazione e di sempli- ficazione del sistema già sperimentato [obiettivo perseguito, si aggiunge] sia risolvendo incertezze interpretative derivanti da contrastanti posizioni giuri- sprudenziali, sia meglio articolando istituti eccessivamente macchinosi, così da evitare un inutile dispendio di atti e di iniziative da parte degli appellanti e dei ricorrenti»18.

L’approccio del legislatore delegante al tema delle impugnazioni è stato, dunque, ispirato al pragmatismo e, per certi versi, è stato pervaso da un con- sapevole self restraint, anche se non del tutto sbagliato, dal momento che, al netto di eventuali ripensamenti sul piano dei valori, i margini di manovra si presentavano abbastanza ristretti.

La prassi italiana – faceva invece notare, in chiave evidentemente critica rispetto alle scelte conservatrici del legislatore, la Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Firenze al fine di giustificare la proposta di pre- vedere significativi ridimensionamenti del sistema e meccanismi di deterrenza contro le impugnazioni pretestuose e dilatorie – costituisce una autentica de- generazione dell’uso delle impugnazioni, dato che la stragrande maggioranza delle sentenze in qualche modo sfavorevoli percorre i tre gradi di giudizio, fino cioè alla Corte di cassazione, con la triplice deleteria conseguenza:

a) di snaturare la finalità garantista del diritto di impugnare, che è dato per rimediare alle reali ingiustizie e che invece è utilizzato per finalità distorte (attesa delle periodiche amnistie, della prescrizione); in realtà la maggior parte delle sentenze impugnate viene sostanzialmente confermata;

b) di concorrere come rilevante causa alla lentezza della giustizia, sia per l’inci- denza, in percentuale consistente, dei gradi di impugnazione sui tempi della giustizia, sia per l’inutile sottrazione di troppi magistrati ed ausiliari al più proficuo lavoro presso i tribunali e le (allora esistenti) preture;

c) di prolungare i tempi della carcerazione cautelare, la cui durata diventa poi oggetto di lamentazione senza però tenersi presente che un’alta percentuale di detenuti ha già subito la condanna in primo grado, che sarà sostanzial- mente confermata nei gradi successivi19.

Le considerazioni appena richiamate sono sufficienti a fare comprendere quanto il dibattito intorno alla macro-struttura del sistema delle impugnazioni sia stato ispirato da esigenze di tipo diverso, da pulsioni molto spesso con- trapposte perché attente a privilegiare ora esigenze connesse alle emergenze

la volontà politica, o la fantasia, di operare scelte volte a ridimensionare drasticamente il tradizionale sistema delle impugnazioni: soprattutto non si è tenuto presente, da un lato, che la Costituzione non attribuisce rilevanza costituzionale all’appello, e, dall’altro, che il proces- so penale italiano, secondo dati di comune esperienza, è caratterizzato da una utilizzazione assolutamente eccessiva dei mezzi di impugnazione».

18 grevi, neppi MOdOna, Introduzione, cit., 111. 19 cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il nuovo cpp, cit., 1241.

(spesso, è innegabile, devianti) della prassi, ora istanze di adesione ad archetipi dotati di (una almeno apparente) coerenza organica.

Inoltre, una restrizione dell’area delle impugnazioni veniva correlata alla modificazione del modello di accertamento tipico del primo grado di giudizio, sulla base dell’assunto che la prima deve necessariamente conseguire alla rea- lizzata piena tutela dei diritti dell’imputato nell’ambito del secondo20.

Il tratto scarsamente evolutivo della riforma è stato ribadito, poi, laddove la relazione lasciava emergere che mancavano, nella legge di delega, innovative e radicali enunciazioni di principio e, con riguardo ai lavori preparatori, evi- denziava l’assenza di un dibattito «volto a chiarire la scelta politica tra le due possibili configurazioni, pure a volte presente in talune legislazioni, della impu- gnazione come rimedio per riparare possibili errori della decisione impugna- ta o, invece, come mezzo di controllo dell’operato del giudice del precedente grado»21.

Al di là dell’errore di prospettiva che il passaggio della relazione consegna – quasi che l’accertamento degli errori della sentenza impugnata non possa (e non debba) avvenire attraverso un controllo sull’operato del giudice – viene sottilmente denunciato un atteggiamento rinunciatario, dunque, il quale viene desunto anche dalla scelta del legislatore delegante di non porsi in maniera consistente il problema dell’opportunità politica di mantenere il generale cri- terio dell’appellabilità delle decisioni, «anche se è stato talvolta ricordato che, alla stregua della costante interpretazione della Corte costituzionale, il princi- pio del doppio grado di giudizio […] può ritenersi soddisfatto mediante la sola previsione del ricorso per cassazione, dettata dall’art. 111 della Costituzione»22.

Un decalogo di scelte non compiute, dunque, sembra essere la legge di delega, alla quale il legislatore delegato ha adattato meccanismi e dinamiche collaudate, gli uni e le altre privi di profili marcatamente innovativi i quali, si riconosce, avrebbero dovuto coinvolgere «la revisione dell’ordinamento giudi- ziario del 1941»23.

Anche se, come non si è mancato da ogni parte di sottolineare, il progetto ha rispettato l’opzione sistematica di includere in un unico libro tutta la materia delle impugnazioni, opzione che si è detto costituire la più importante novità in tema24 e che, fatta propria dal progetto del 1978, riducendo i rinvii ad altre

norme, «offre l’evidente vantaggio di una più agevole lettura delle disposizioni in merito e di una più apprezzabile valutazione del quadro complessivo»25.

20 Si è già richiamato, sul tema, laTTanzi, Una legge improvvida, cit., 490. 21 cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il nuovo cpp, cit., 1235.

22 cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il nuovo cpp, cit., 1235. 23 cOnsO, grevi, neppi MOdOna, Il nuovo cpp, cit., 1235.

24 grevi, neppi MOdOna, Introduzione, cit., 108, i quali sottolineano come la novità fa sì che

risultino agevolate l’interpretazione e la valutazione globale della disciplina, sia sul piano operativo che su quello sistematico.