Riflessioni su un grado di giudizio ancorato alla tradizione e assiologicamente necessario
2. La natura del giudizio d’appello.
Se si osservano le forme concrete del modulo processuale – ma l’alternativa fra le due concezioni funzionali dell’appello costituisce, è stato detto, anche il risultato che si offre agli studiosi nell’ambito di quella attività di comparazione diacronica in cui si estrinseca l’indagine storica sui diversi modelli processuali26
– ci si avvede che esso, riproponendo il giudizio di secondo grado seguendo pressoché in maniera pedissequa lo schema concettuale del codice del 193027,
mantiene l’appello nell’ambito funzionale della revisio prioris instantiae, in modo tale da esaltarne la tradizionale funzione di strumento di controllo della decisione impugnata28 – il giudizio penale di secondo grado, è stato infatti riba-
dito con efficacia, si «apprezz[a] come giudizio critico, in funzione di controllo della decisione già resa»29 – in luogo di quella di novum iudicium30.
26 Lo evidenzia perOni, Lineamenti del sistema probatorio nel giudizio penale di secondo gra-
do, in Riv. dir. proc., 1995, 433.
27 Tranchina, di chiara, Appello (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg. III, 201, i quali manifestano
una certa perplessità dinanzi «alla circostanza che il legislatore del codice di procedura pe- nale del 1988, pur con la sua pretesa di voler “attuare i caratteri del sistema accusatorio” […] abbia, poi, finito non solo col riproporre il giudizio d’appello, ma ricalcandolo, addirittura, con connotazioni sostanzialmente analoghe a quelle che lo caratterizzavano nell’abrogato impianto codici stico, a sfondo notoriamente inquisitorio».
28 spangher, Appello (Diritto processuale penale), in Enc. giur., II, 1. V., inoltre, id., Appello,
cit., 223, ove evidenzia, in relazione al sistema processuale previgente, come «[l]e variegate esigenze di politica processuale coniugandosi in modo articolato con lo sviluppo per gradi del processo hanno […] fatto perdere pure all’appello alcuni suoi tratti storici configurandolo in modo ibrido». Negli stessi termini v., poi, bargis, Impugnazioni, in Compendio di proce-
dura penale, a cura di cOnsO, grevi, Padova, 2001, 768. V., da ultimo, algeri, Il nuovo volto
dell’appello, cit., 388, il quale ribadisce che «il legislatore del 1988 ha optato per un modello tendenzialmente orientato verso la logica del controllo, nell’ambito di un giudizio essenzial- mente cartolare, a fronte di un giudizio di primo grado permeato dall’oralità e dal principio del contraddittorio per la formazione della prova».
29 spangher, Appello, cit., 7. Nonché de carO, MaFFeO, Appello, in Dig. disc. pen., Agg. X, 44.
Chinnici, Appello, cit., 2, in chiave critica rispetto ad una forma processuale disancorata dai principi del giusto processo, evidenzia come non vi è traccia di una qualificazione normativa dell’appello in termini di giudizio di controllo: «di contro, la clausola di salvezza di cui all’art. 598 c.p.p., che estende la disciplina del giudizio di primo grado in quanto applicabile, sem- brerebbe argomento dimostrativo in senso contrario»; id., Giudizio penale di seconda istanza
e giusto processo, Torino, 2009, 39. V., inoltre, FiOriO, L’appello, in Le impugnazioni penali,
diretto da gaiTO, I, Torino, 1998, 299; OliverO, Appello, in Enc. dir., II, 718; Tranchina, di chiara,
Appello, cit., 200, i quali segnalano l’incoerente soluzione legislativa di relazionare con un modulo processuale di ispirazione accusatoria un giudizio di appello la cui struttura ripercor- re i tratti tipici del modello disciplinato dal codice abrogato. V., su questo versante ed in senso egualmente critico, gaiTO, Verso una crisi evolutiva per il giudizio d’appello. L’Europa impone la
riassunzione delle prove dichiarative quanto il p.m. impugna l’assoluzione, in Arch. pen., 2012, 353. Più articolata, sotto questo profilo, l’analisi di gaeTa, Macchia, L’appello, cit., 272.
L’approdo di ogni considerazione relativa alla conservazione o meno dell’i- stituto, allora, finisce con il chiamare in causa, oltre che valutazioni di carattere strettamente tecnico31, un problema di politica legislativa, «ponendosi i suoi
termini essenziali nel vedere se sia più utile alle esigenze della giustizia, ed in particolare a quella del magistero penale, un solo, od un doppio, grado di giurisdizione, un solo esame della lite, o un doppio esame della medesima: se vi debba essere, o no, un giudizio sul giudizio, una decisione sulla decisione»32.
Orbene, già la natura ed i correlati limiti (cognitivi, soprattutto, ma non solo) del processo penale permettono di cogliere la dimensione funzionalistica dell’appello – che poi, chiaramente, è la dimensione funzionalistica di tutto il sistema delle impugnazioni – quale garanzia per l’esattezza e l’accettabilità sociale dell’accertamento finale del processo33, funzione che rende talmente
utile – e necessario, forse, assiologicamente parlando – l’istituto che «esso si è diffuso, sia pur con limiti diversi, dal diritto romano ai nostri giorni, in tutte le legislazioni moderne, e lo sarà ancora presso quelle che verranno»34.
La natura di accadimento “terribilmente umano”35 tipica di quella forma di
“esperienza giuridica”36 che è il processo – esso, infatti, non è un fenomeno
trascendentale ma il prodotto di una esperienza che coinvolge la dimensione della spiritualità – rende inaccettabile qualsiasi impostazione dogmatica che attribuisca ad esso una astratta capacità di conseguire conoscenze assolute ed incontestabili, determinandosi la necessità di un conseguente adeguamento delle tecniche e dei modelli di ricostruzione dei fatti.
La constatazione, che usufruisce delle acquisizioni oramai accreditate dell’e- pistemologia contemporanea, si salda e dà vita ad una premessa coordinata ed unitaria con la caratteristica del fenomeno processuale quale sequenza di atti che necessariamente si colloca in un frangente temporalmente successivo al fatto oggetto di accertamento37, riducendosi così ad uno schema tipicamente
31 Tranchina, di chiara, Appello, cit., 201. 32 bellavisTa, Appello, cit., 757.
33 Accertamento che, ai fini dell’ammissibilità dell’atto di gravame, deve essere contenuto in
un provvedimento giuridicamente “esistente”, essendo invece inammissibile l’impugnazione proposta avverso un provvedimento inesistente, ossia diverso anche dal provvedimento ab- norme, il quale conserva comunque l’attitudine a dare luogo a preclusioni. V., in questo sen- so, Cass. pen., Sez. V, 20 gennaio 2017, n. 8055. Per una definizione di inesistenza giuridica v., invece, Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 1975, n. 1224, per la quale l’atto inesistente è affetto da vizi talmente gravi, come la mancanza di elementi costitutivi e identificativi propri, che ne impediscono la nascita e ne giustificano l’idoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico.
34 bellavisTa, Appello, cit., 758.
35 TOnini, cOnTi, Il diritto delle prove penali, Milano, 2014, 2.
36 Come insegna OpOcher, Esperienza giuridica, in Enc. dir., XV, 736, la funzione culturale, e
quindi la più profonda giustificazione dell’espressione “esperienza giuridica”, «è, in definiti- va, quella di richiamare filosofi e giuristi ad una più immediata consapevolezza delle dimen- sioni “umane” e quindi del carattere essenzialmente problematico del fenomeno giuridico».
37 TOnini, cOnTi, Il diritto delle prove penali, cit., 1. Come osserva dinacci, La rinnovazione
comunicativo che impone la relativizzazione di qualsiasi “conclusione proces- suale”.
Se, come si dice, l’accertamento «non è indifferente al modo con cui si com- pie [in quanto] la verità giudiziale (e, perciò, la sentenza) esce diversa, a se- conda di come la si è perseguita e di come si è proceduto»38, l’attenzione si
sposta certamente (ed in primo luogo) sulla metodologia di costruzione delle informazioni rilevanti e, disquisendo di siffatto profilo, non v’è che ribadire come il convincimento giudiziale accresce tanto più il suo grado di fondatezza e di accettabilità sociale quanto più è fondato su asserzioni di fatti costruite seguendo il metodo dialettico.
Ma le premesse poste a sostegno dell’opzione metodologica che lega l’ac- certamento penale al contraddittorio nella formazione degli elementi conosciti- vi processualmente rilevanti – destabilizzanti allorché relazionate alle esigenze di certezza che il carattere pluralistico delle società moderne invoca a grande voce – si collocano coerentemente in una relazione di causalità logica con la predisposizione di meccanismi di garanzia strutturati sul modello delle proce- dure di verifica del giudizio a cui è pervenuta l’autorità giudicante (secondo un itinerario che, tra l’altro, deve essere esplicitato in maniera logica e compiuta nella parte motivazionale della sentenza) e ciò vale in modo particolare per uno strumento a struttura aperta e modulare quale è l’appello.
È stato osservato, già in sede di esame del progetto preliminare del codice del 1988, che «le nuove garanzie, proprie di un modello accusatorio, in tema di formazione della prova orale, avrebbero dovuto suggerire di valutare secondo una diversa ottica l’intero sistema dei mezzi di impugnazione [in ragione del fatto che] [i]l doppio grado di giudizio di merito può, entro certi limiti, esse- re ritenuto funzionale ad un modello processuale inquisitorio – al cui interno il giudizio si sostanzia, in ultima analisi, nella valutazione delle prove scritte raccolte nelle fasi istruttorie – ma è privo di coerenza logica se innestato in un sistema accusatorio, in cui le prove rilevanti per il giudizio si formano alla stregua di criteri effettivamente rispettosi dei principi dell’oralità, del contrad- dittorio e della “parità delle armi”»39.
In prospettiva comparativistica, poi, si è insistito sul significato da attribuire alla circostanza che «il sistema processuale nordamericano non conosca un secondo grado di giudizio di merito comparabile con il nostro appello, essendo tale grado in quel sistema riservato all’esame di specifiche questioni di diritto,
suo effetto finale in una decisione e questa è il risultato di una ricostruzione retrospettiva dei fatti contenuti nell’imputazione».
38 nObili, Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, 1998, 62.
39 grevi, neppi MOdOna, Introduzione, cit., 110. Di identico tenore sono le critiche ribadite, più
tardi, da laTTanzi, Una legge improvvida, cit., 490, il quale ritiene «di dubbia ragionevolezza
un sistema che consente al giudice di secondo grado di giungere a conclusioni diverse, addi- rittura opposte, limitandosi a leggere, quando lo fa, le trascrizioni delle dichiarazioni rese al giudice di primo grado, a volte di non facile comprensione»>.
con particolare riferimento alle istruzioni fornite dal togato ai giudici popola- ri»40.
A parte il fatto che il modello processuale statunitense funziona secondo strutture e dinamiche differenti, l’affinamento della metodologia impiegata per la formazione della prova nel primo grado di giudizio non elimina, né ridimen- siona, i limiti cognitivi tipici del processo penale e questo rende assiologica- mente (svuotando il sistema dal riferimento a valori, ovviamente, qualsiasi so- luzione diviene squisitamente tecnica e, dunque, politicamente e socialmente accettabile) giustificata la conservazione di un grado di giudizio deputato ad at- tuare un controllo tendenzialmente unitario e senza limiti sugli esiti incerti (per- ché, semplicemente, non ragionevolmente dubbi) della procedura già svolta41.
L’equazione, dunque, non deve svilupparsi lungo un percorso di contrap- posizione tra segmento garantito di metodologia accertativa (primo grado di giudizio) e segmento di verifica (secondo grado di giudizio)42, ma seguendo
uno schema di integrazione funzionale in cui il primo – complicatissimo nei congegni che ne scandiscono l’incedere e, quindi, a sua volta necessitante di autonomi controlli, appunto, sul metodo – muove da premesse epistemologiche che giustificano la seconda43.
Come è stato infatti sottolineato allorquando si è definito «l’intero evolversi del processo penale […] come una lotta continua ed incessante contro l’er- rore»44, «[l]’adozione di un metodo “dialogante” rispettoso delle istanze della
difesa esplica innanzitutto un’efficacia preventiva rispetto all’errore [rendendo] più attendibile il risultato finale, [ma il] metodo dialogico [stesso] postula il con- trollo successivo e la conseguente rimozione e/o riparazione dell’errore: poiché occorre sempre mettere nel conto che il mezzo preventivo, per le più svariate ragioni, potrebbe non impedire, in concreto, il verificarsi dell’errore o comun- que non funzionare correttamente, non v’è chi non veda come la possibilità di controllare e allo stesso tempo di rimediare, attraverso idonei strumenti pro-
40 grevi, neppi MOdOna, Introduzione, cit., 110,
41 FiOriO, Funzioni, caratteristiche ed ipotesi del giudizio d’appello, in Le impugnazioni penali,
diretto da gaiTO, Torino, 1998, 303.
42 Parla di “intrinseca contraddizione”, invece, cigliOni, La ragionevole durata del processo,
in Fisionomia costituzionale del processo penale, a cura di dean, Torino, 2007, 218.
43 Come non manca di osservare ceresa-casTaldO, La riforma dell’appello, cit., 164, «è difficile
negare che – al di là della disputa sul significato da attribuire al silenzio mantenuto dal nostro costituente sull’appello – la previsione di un riesame di merito della sentenza, potenzialmente errata per ragioni che sfuggono ad un controllo (per quanto esteso) di sola legittimità, resti la scelta più efficace, oltre che coerente con le previsioni pattizie internazionali, per garantire il raggiungimento di un obiettivo irrinunciabile della giurisdizione, vale a dire la giustizia sostanziale del provvedimento, ossia la riduzione al minimo livello possibile del tasso di errore giudiziario. La disponibilità, in primo grado, di affidabili strumenti gnoseologici non garan- tisce affatto, di per sé, la bontà del risultato, non foss’altro perché nessuno assicura che quei protocolli siano stati effettivamente seguiti nel caso concreto: occorre comunque una verifica sulla corretta ricostruzione del fatto».
cessuali, si traduca in una proiezione in senso “verticale” del diritto di difesa e del contraddittorio, i quali, stando al dettato costituzionale, non soffrono alcuna costrizione spazio-temporale»45.
Senza che per il secondo grado di giudizio, necessariamente, si debba aspi- rare ad attuare i principi regolatori di quello di primo grado sulla base del- la premessa secondo cui in un processo nel quale la valutazione del giudice consegue all’assunzione di prove secondo una metodologia ispirata ai criteri dell’oralità e del contraddittorio apparirebbe illogico un secondo grado basato sugli atti del processo, ossia su prove precostituite46.
Proprio la conformazione strutturale del giudizio di appello, tendenzialmen- te ma non assolutamente impermeabile alle regole probatorie del grado prece- dente sulla base di una valutazione legata a sopravvenienze sul terreno delle esigenze di verifica, rafforza la tipica funzione della sua (sempre meno, si au- spica) ingombrante presenza all’interno di una dinamica accertativo-cognitiva coordinata che la diversificazione modellistica rende intimamente coerente47.
In altri termini, se è vero che, secondo l’ideologia oggi accreditata anche a livello normativo, «[s]olo l’esito del processo scaturito dal rapporto diretto e im- mediato tra giudice e prove nel contraddittorio delle parti è da accettare come corrispondente al vero e “giusto”»48, non meno vero è che la dinamica proces-
suale non può essere spezzettata in compartimenti rigidamente stagni di modo che quanto accade nell’uno (id est: principi e regole di gestione del fenomeno probatorio) deve necessariamente verificarsi nell’altro, ragione per la quale, si dice, «il giudizio d’appello in quanto giudizio allo stato degli atti vanifica il contraddittorio nel momento di formazione della prova e, quindi, contrasta con l’art. 111 comma 4° Cost.»49.
45 carini, Errore e rimedi, cit., 259.
46 Questa considerazione critica, diffusa in dottrina, si rinviene anche in nappi, Guida al
codice di procedura penale, Ed. VIII, Milano, 2001, 751. Ma v., in passato, bellavisTa, Appello,
cit., 758, il quale faceva affidamento al progresso tecnologico al fine di coniare un giudizio d’appello interamente orale.
47 V., in relazione a siffatto profilo, ceresa-casTaldO, La riforma dell’appello, cit., 164, per il
quale «non è affatto scontato che un “giusto processo d’appello” debba essere necessaria- mente configurato quale ripetizione del primo grado, o comunque quale giudizio nel cui ambito debba trovare la massima possibile espansione il principio di immediatezza. È un luo- go comune, un’ipotesi retorica mai dimostrata, il preteso conflitto con i canoni del processo accusatorio della strutturazione dell’appello come giudizio critico, ossia come mezzo di con- trollo ex actis della prima decisione, nel quale la rinnovazione istruttoria viene ammessa solo in deroga alla generale regola della completezza dell’indagine istruttoria compiuta in primo grado. Al contrario: è proprio per assicurare coerenza con i canoni accusatori del contraddit- torio, dell’oralità e dell’immediatezza realizzati in primo grado, che il giudizio di appello non va dedicato alla replica delle attività di formazione della prova, ma alla critica della decisione impugnata, anche sotto il profilo del rigoroso rispetto delle regole dell’accertamento».
48 chinnici, Appello, cit., 5.
49 V., in questi termini, lOzzi, Reformatio in peius del giudice di appello e cognitio facti ex actis
Processo di primo grado e processo d’appello non costituiscono distinti iti- nerari di merito, ma singole partizioni di un itinerario unitario che ragioni di garanzia vogliono sia articolato in gradi50 e, pertanto, contraddittorio, oralità ed
immediatezza sono principi essenziali che, dispensati abbondantemente – o, nelle ipotesi costituzionalmente consentite alla luce della previsione deroga- toria contenuta nell’art. 111, co. 5 Cost., magari non dispensati per nulla – nel primo segmento dell’itinerario processuale, non è assiologicamente né episte- mologicamente necessario – né, verrebbe da dire, possibile – che vengano rei- terati nel segmento successivo al fine di caratterizzare in termini di generale accettabilità la procedura seguita e la decisione adottata51 e secondo una logica
di simmetria strutturale tra i diversi gradi di giudizio che anche la Corte di cas- sazione sembra rifiutare52.
«Le impugnazioni» – è stato detto – «esprimono “gradi” del giudizio, ma evo- cano, anche, altrettanti “atti”, connotati da requisiti cristallizzati e “staticizzati” dall’ordinamento [il che vuole dire che] l’appello – come ogni istituto del pro- cesso – non vive soltanto di “luce propria”, ma respira e si alimenta di ciò che lo precede, e che ne costituisce “l’oggetto”, e di ciò che lo “segue” come sviluppo del relativo epilogo»53.
E, si badi, non si tratta di postulare, sostenendo la permanente utilità di un grado di giudizio concepito quale strumento di controllo54, una sorta di legge
della gradualità nell’apprensione del vero55, ma di predisporre e, all’occorrenza,
difendere meccanismi funzionali alla verifica di esiti processuali che, per quan-
giurisdizione, cit., 4032, giudizio d’appello e principio del contraddittorio si presentano in rotta di collisione.
50 Come precisava leOne, Impugnazioni, cit., 5, «[n]el rapporto processuale d’impugnazione
si rinviene una continuazione del rapporto processuale svoltosi in prima istanza». Ma v., an- che, ranieri, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 1956, 364, per il quale la propo-
sizione dell’impugnazione «dà luogo a una nuova fase processuale, distinta dall’antecedente, nella quale ha ulteriore svolgimento il rapporto giuridico processuale già costituito».
51 In senso contrario v., tra gli altri, chinnici, Appello, cit., 5; Macchia, I “nuovi” limiti all’ap-
pello. Un problematico ritorno all’antico, in Processo penale: nuove norme sulla sicurezza dei cittadini (legge 26 marzo 2001, n. 128), a cura di gaeTa, Padova, 2001, 283.
52 V., infatti, Cass. pen., Sez. un., 14 aprile 2017, paTalanO, in tema di rinnovazione dell’istru-
zione dibattimentale in appello ex art. 603, co. 3-bis c.p.p.
53 Macchia, L’assetto del giudizio di appello alla luce delle recenti riforme, in Dpc, 2018, 11, 24. 54 Una funzione, questa, che la Suprema Corte ha di recente ritenuto fortemente accresciu-
ta, alla luce della riforma del sistema realizzata con la l. 23 giugno 2017, n. 103. V., difatti, Cass. pen., Sez. V, 20 luglio 2018, n. 34504, per la quale il requisito della specificità compor- ta che «l’appello viene a configurarsi come giudizio critico su punti specificamente dedotti, rappresentando una fase eventuale destinata alla individuazione di un errore della sentenza di primo grado, se esistente, con la conseguenza per cui ove i motivi non siano idonei a rap- presentare l’esistenza e l’incidenza dell’errore, l’atto di appello è destinato alla declaratoria di inammissibilità».
55 chinnici, Appello, cit., 3, la quale definisce la “legge della gradualità” una categoria di
matrice teleologica per la quale l’apprensione del vero è possibile solo per approssimazione graduale.
to avvenuti in conformità di astratte modellistiche rispondenti a sicuri approdi epistemologici, sono comunque esposti al rischio di erronei funzionamenti del complessivo meccanismo processuale penale.
Ogni giudizio di superfluità o sovrabbondanza (se non, addirittura, inco- erenza e incompatibilità logica) rispetto ad una fase pregressa diversamente strutturata finisce con il trascurare l’essenzialità – messa bene in luce dalla dottrina – dei momenti “persuasivo” e “confutatorio” i quali, inscindibilmente legati alla prova come strumento di argomentazione, «possono consentire, nel passaggio dalla prima alla seconda fase del giudizio di merito, un’adeguata rivalutazione ex actis della questio facti»56.
Infatti, in chiave correttamente critica rispetto alle impostazioni che esaltano i principi ispiratori della disciplina del primo grado di giudizio (soprattutto in tema di prova) per motivare rilievi di superfluità e antieconomicità rispetto ad un giudizio di secondo grado ex actis57, è stato sostenuto che «[è] lo stesso coef-
ficiente “argomentativo” della prova ad essere trascurato nelle sistemazioni che non danno il giusto risalto al “riesame” delle acquisizioni probatorie pregresse