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Logica del controllo, neutralità metodologica del giudice e immedia tezza.

Riflessioni su un grado di giudizio ancorato alla tradizione e assiologicamente necessario

3. Logica del controllo, neutralità metodologica del giudice e immedia tezza.

Il giudizio di appello si presenta come un meccanismo dinamico rispetto al quale l’ipotesi di una strutturazione sovrapponibile a quella del primo grado per quel che riguarda le regole di formazione della prova non solo non co- stituisce una necessità metodologica, ma appare incoerente rispetto alle sue premesse indefettibili.

Quando il legislatore, d’altro canto, ha intrapreso il cammino verso la ten- denziale omologazione delle forme acquisitive rispetto a determinate evenien- ze – si fa riferimento, ovviamente, all’ipotesi del giudizio di secondo grado introdotto dall’impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa – il sistema ne ha risentito su plurimi versanti63.

Sembra, innanzitutto, economicamente improponibile la strutturale vanifi- cazione dell’efficacia probatoria delle risultanze acquisite nel grado preceden- te – premessa la quale, unitamente alla predisposizione di innovate formalità acquisitive garantite sul versante della protezione della neutralità metodologica del giudice, è indispensabile per la configurazione di un meccanismo sgancia- to dalla logica del controllo64 – e, ancora prima, la perimetrazione del quadro

61 Come sostenuto da laTTanzi, Una legge improvvida, cit., 491, l’appello deve essere ristrut-

turato ma non soppresso, «perché una riconsiderazione nel merito della decisione di primo grado costituisce una garanzia contro gli errori del giudice che fa parte della nostra tradizione e alla quale non si può rinunciare, tanto nei casi di condanna quanto in quelli di prosciogli- mento».

62 siracusanO, Ragionevole durata del processo e giudizi di impugnazione, cit., 17. 63 V., a tale proposito, suraci, L’appello, in Impugnazioni penali, Milano, 2019, 209.

64 Anzi, le modifiche apportate dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 alla disciplina dei requisiti di

forma dell’impugnazione e della conformazione dell’obbligo di motivazione del giudice han- no determinato un’accentuazione severa della funzione di controllo del giudizio, imponendo una penetrante attività di confronto e raccordo tra sentenza impugnata, motivi di appello e determinazioni (e correlati obblighi motivazionali) del giudice di secondo grado. Ne è uscito rafforzato il requisito della specificità estrinseca dell’appello – come messo in rilievo da Cass.

conoscitivo entro i confini segnati da un riedizione del sistema del doppio fa- scicolo in grado di appello.

Come evidenziato dalla dottrina, poche regole come quella del “doppio fa- scicolo” rendono fisicamente l’idea dell’opzione epistemologica su cui si fonda l’attuale sistema processuale65, istituto che codifica una regola di non conosci-

bilità di atti in assenza della quale ha pochissimo senso delineare meccanismi formativi della prova ispirati alle logiche tipiche del giudizio di primo grado.

Ma anche le ulteriori regole di tutela del metodo dibattimentale66 – divieto di

lettura e divieto di utilizzazione probatoria – si presentano come incompatibili con il giudizio di appello, costituendo l’opzione che ad essi dovesse presta- re ossequio una inspiegabile quanto inattuabile trasfigurazione del processo, trattato alla stregua di un atto di cancellazione di una (dispendiosa e) oramai indelebile vicenda storica.

Tra l’altro, come è stato sottolineato dalla Corte costituzionale in relazione alla rinnovazione del dibattimento per effetto del mutamento della persona fisica del giudice67, sul versante dinamico e dell’efficacia giuridica i verbali del-

le dichiarazioni rese nella precedente fase dibattimentale fanno già parte del contenuto del fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo giudice, dal momento che tale contenuto non è cristallizzato in quello indicato nell’art. 431 c.p.p., ma è soggetto a notevoli variazioni, sia nella fase degli atti prelimi- nari al dibattimento sia, soprattutto, nel corso del dibattimento medesimo, e certamente si arricchisce del verbale delle prove assunte nella pregressa fase dibattimentale, la quale, pur soggetta a rinnovazione a cagione di evenienze che modificano la composizione dell’organo giudicante, conserva comunque il carattere di attività legittimamente compiuta68.

Ed allora, prospettare soluzioni strutturali che vanificano l’efficacia di pro- ve legittimamente acquisite in nome di un principio – il contraddittorio – già utilizzato e di un altro – l’immediatezza – già consumato e non più spendibile (pertanto inefficace quanto meno sul piano tendenziale), non appare fruttuoso.

pen., Sez. un., 22 febbraio 2017, n. 8825 – elemento che, aggrovigliando i fili che legano la valutazione del giudice all’atto introduttivo e quest’ultimo alla sentenza di primo grado, tra- scina il giudizio di gravame verso un’accentuazione senza precedenti della sua funzione di controllo.

65 brOnzO, Il fascicolo per il dibattimento. Poteri delle parti e ruolo del giudice, Milanofiori As-

sago, 2017, 1.

66 brOnzO, Il fascicolo per il dibattimento, cit., 2.

67 Questione la quale, pone nel dovuto rilievo spangher, Sentenza Bajrami, il nuovo dibat-

timento nel solco delle divisioni, in G dir., 2019, 47, 13, «al di là dei profili pratici e operativi, sottende significative e profonde questioni dogmatiche, con conseguenti diversificati approc- ci culturali e di sistema».

68 C. cost., 24 gennaio 1994, n. 17. La sentenza, il cui contenuto è stato più volte richiama-

to nella giurisprudenza di legittimità formatasi a seguito di Cass. pen., Sez. un., 15 gennaio 1999, Iannasso, è stata da ultimo richiamata in Cass. pen., Sez. un., 10 ottobre 2019, Bajrami.

L’immediatezza, come si sa, a differenza del principio del contraddittorio, costituisce un connotato tipico di un modello processuale di carattere accusato- rio che nell’ambito del nostro sistema non soltanto non è dotato di una esplicita copertura costituzionale69 ma soffre di svariate deroghe a livello di disciplina

processuale ordinaria già in riferimento al giudizio di primo grado.

Essa, come è noto, consente di valorizzare i “tratti prosodici del discorso”, ossia di fare vivere al giudice atteggiamenti, gestualità, opinioni, silenzi, incer- tezze che connotarono la deposizione70, ma «[i]l contraddittorio nella forma-

zione della prova» – si è fatto notare – «è meccanismo destinato a incepparsi se non si prevengono i danni che il passar del tempo infligge alla conoscenza, circoscritta e visiva, del testimone, basata su osservazioni personali e su di una serie di ricordi»71.

Dunque, la divaricazione tra il momento della narrazione e quello dell’os- servazione – ciò che accade in coincidenza con la progressione del processo – pregiudica già ex sé l’efficacia del contraddittorio e questo irrimediabilmente incide sulla funzionalità dell’immediatezza72.

Ma i contegni soggettivi del dichiarante sono per loro natura irripetibili, fenomenicamente esaurendosi nel momento stesso in cui si manifestano ed es- sendo percepibili esclusivamente dalle persone presenti in quel dato momento storico e successivamente suscettibili solamente di rappresentazione.

Il compimento di un nuovo atto istruttorio – a prescindere dal destino che si vorrebbe riservare agli atti già acquisiti – consentirebbe al giudice di percepire il contegno soggettivo che accompagna la nuova assunzione – peraltro ormai compromesso nella sua spontaneità – ma non quello che ha accompagnato la precedente.

69 V., tra gli altri, cesari, Prova (acquisizione della), in Dig. disc. pen., Agg. II, 721; buzzelli,

Giusto processo, in Dig. disc. pen., Agg. II, 357; Macchia, Le novità dell’appello: Rinnovazione

dell’appello, concordato sui motivi, in Dpc, 9 novembre 2017, 2.

70 Sottolinea l’importanza dei “tratti prosodici del discorso” in funzione epistemica, tra gli

altri, Ferrua, La prova nel processo penale: profili generali, in La prova penale, a cura di Ferrua,

Marzaduri, spangher, Torino, 2013, 35.

71 buzzelli, Giusto processo, cit., 361. Come ha messo in evidenza, di recente, C. cost., 20

maggio 2019, n. 132, nell’impianto del vigente codice di procedura penale, il principio di immediatezza della prova è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continu- ità. Solo a tale condizione, infatti, l’immediatezza risulta funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali: e cioè, da un lato, quello di consentire la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi; e, dall’altro, quello di assicurare che il giudice che decide non sia passivo fruitore di prove dichiarative già da altri acquisite, ma possa – ai sensi dell’art. 506 c.p.p. – attivamente intervenire nella formazione della prova stessa, ponendo direttamente domande ai dichiaranti e persino indicando alle parti “nuovi o più ampi temi di prova, utili per la completezza dell’esame”.

Non sembrano nemmeno adeguabili, a fronte di una prospettiva di radicale ristrutturazione del processo di appello, i meccanismi di salvaguardia (premes- se, si potrebbe ben dire) del corretto esplicarsi delle funzioni cognitive dell’im- mediatezza e del contraddittorio.

Il legislatore, come è noto, nel dare vita ad un sistema processuale ispirato al principio della separazione tra fase investigativa e fase formativa della prova, si era posto il problema di predisporre meccanismi che, impedendo l’aggira- mento sostanziale dei congegni finalizzati ad assicurare una rigida preclusio- ne rispetto alla percezione dei dati conoscitivi di provenienza investigativa da parte del giudice chiamato a pronunciarsi sull’imputazione, assicurassero la corretta formazione del convincimento giudiziale, secondo una logica tesa a salvaguardarne la neutralità mediante l’allontanamento dalla previa conoscen- za – suscettibile di realizzarsi per mezzo di una pluralità di canali – di atti non utilizzabili formalmente ai fini della decisione73.

Ma, ancora prima, il nuovo codice tendeva a realizzare una rigorosa limita- zione del patrimonio conoscitivo in possesso del giudice nella fase immedia- tamente antecedente al dibattimento anche rispetto alla possibile conoscenza di elementi di carattere semplicemente argomentativo – magari, però, capaci di veicolare surrettiziamente dati contenutistici di atti preclusi – al fine di evi- tare che questi potesse arrivare alla fase di giudizio con un convincimento già formato – ossia, adeguato alle argomentazioni già esposte – e ricercare in sede processuale soltanto la conferma della sua plausibilità74.

Così, dunque, si è optato per la soluzione di dare veste formale di decreto al provvedimento che dispone il giudizio, atto asettico rispetto a qualsiasi dovere motivazionale che, veicolato necessariamente insieme al fascicolo per il dibat- timento (art. 432 c.p.p.), non comporta la cognizione di precedenti valutazioni. Infatti, proprio in ragione della caratteristica delineata dall’art. 125 c.p.p., il decreto esprime una decisione non motivata ad una precedente prospettazione e tale deve essere perché il legislatore vuole evitare il pregiudizio che derive- rebbe all’imputato ove un giudice prima del dibattimento affermasse l’attendi- bilità degli elementi di prova a carico75.

Si tratta di un sistema di protezione molto complesso ed articolato che non può operare rispetto al giudizio di appello – esso ha, dietro di sé, un giudizio pubblico molte volte particolarmente indulgente sul versante mediatico e ecce- zionalmente assorbente delle relative contaminazioni – e tanto basta per fare uscire enormemente pregiudicata (ed a priori) la funzione di arricchimento co- gnitivo che si usa ricondurre al principio di immediatezza.

73 uberTis, Sistema di procedura penale, I, I principi generali, Torino, 2007, 118. Nonché, suc-

cessivamente, id., Neutralità metodologica del giudice e principio di acquisizione processuale, in

Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 16.

74 rivellO, Il dibattimento nel processo penale, Torino, 1997, 42. V., inoltre, dalia, Processo

penale e informazione giudiziaria, in Dig. disc. pen., Agg. X, 576.

L’esigenza di garantire l’effettività del principio del libero convincimento ha ispirato, come è noto, anche l’introduzione del divieto – abbondantemente neutralizzato alle soglie del giudizio di appello – di pubblicazione degli atti d’indagine76.

Risalente al legislatore ottocentesco ed introdotto al fine di preservare i giu- rati da possibili condizionamenti operati dalla stampa, l’istituto venne mante- nuto dal codice precedente come limite alla divulgazione di atti o notizie riguar- danti fasi processuali segrete al fine di evitare compromissioni della serenità del giudice e tutelare la riservatezza delle persone coinvolte nella procedura.

«Abbandonato un modello processuale in cui il giudice andava in udienza avendo maturato un preconvincimento di massima sulla base di quella specie di brogliaccio del dibattimento che era costituito dal fascicolo istruttorio» – tut- tavia – «si è profilata la necessità di un giudice libero dal condizionamento di conoscenze che non nascano nel corso del dibattimento»77.

Conformemente a quanto disposto dalla direttiva n. 71 della legge di dele- ga, la disciplina compendiata nell’art. 114 c.p.p. si fa carico di contemperare la tutela di due beni giuridici contrapposti78.

Innanzitutto, la libera e serena formazione del convincimento giudiziale, ossia l’esigenza che gli atti delle indagini preliminari inseriti nel fascicolo del pubblico ministero siano conosciuti dal giudice del dibattimento solo attraverso i meccanismi tipizzati dal codice di rito poiché, qualora se ne fosse consentita la pubblicazione prima del momento della legittima apprensione, si sarebbe determinata una distorsione della regola processuale ed una anticipata e non corretta formazione del convincimento del giudice79.

In secondo luogo, i diritti conoscitivi dei privati interessati e della generalità dei consociati, questi ultimi meritevoli di tutela in un ordinamento nel quale la giustizia è amministrata in nome del popolo80.

La ricerca di un punto di equilibrio tra i su menzionati e contrapposti va- lori sorregge la disciplina contenuta nell’art. 114, co. 2 e 3 c.p.p., i quali, nella

76 Sul quale v., in generale, Farinelli, Art. 114, in Cpp commentato, a cura di gaiTO, I, Milano-

fiori Assago, 2012, 602.

77 giOsTra, Segreto processuale (dir. proc. pen.), in Enc. giur., XXVIII, 7. 78 dean, Gli atti, in Procedura penale, Torino, 2010, 163.

79 Aderendo alla chiara intenzione del legislatore, Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 1994, Le-

onelli, ha individuato la ratio del divieto di pubblicazione nel fine di assicurare il corretto, equilibrato e sereno giudizio del giudice del dibattimento attuato anche attraverso le norme che gli consentono di venire legittimamente a conoscenza del testo degli atti d’indagine nei limiti e secondo le regole previsti in un processo tipicamente accusatorio. V., invece, in am- bito dottrinale, casTellucci, L’atto processuale penale: profili strutturali e modalità realizzative,

in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, I, t. 2, Torino, 2008, 24; dalia, Processo

penale e informazione giudiziaria, cit., 576.

versione corretta da C. cost., 24 febbraio 1995, n. 5981 impongono il divieto

di pubblicazione degli atti82 – non del loro contenuto83 – fino a che non siano

emessi provvedimenti che escludono l’instaurazione del processo – decreto di archiviazione – o lo concludono anticipatamente – sentenza di non luogo a pro- cedere, sentenza che applica la pena su richiesta, sentenza di merito nell’udien- za preliminare – o fino a che non sia divenuto esecutivo il decreto di condanna, ovvero, in caso di emissione di provvedimenti che determinano il passaggio al dibattimento – giudizio direttissimo, giudizio immediato o rinvio a giudizio – fino a che gli atti medesimi non siano utilizzati.

L’esigenza medesima – salvaguardare la corretta formazione del convinci- mento giudiziale rispetto alla possibile fonte di turbamento costituita dall’ir- rituale conoscenza del contenuto di atti investigativi – ha ispirato, altresì, la modifica dei meccanismi di formazione del fascicolo per il dibattimento.

Come è noto, la versione originaria dell’art. 431 c.p.p. prevedeva che alla formazione del fascicolo provvedesse la cancelleria del giudice che aveva cele- brato l’udienza preliminare, secondo una procedura interna all’ufficio rispetto alla quale era estranea qualsiasi forma di contraddittorio.

A fronte di questa modalità di formazione del fascicolo, i rimedi ad eventuali errori commessi dalla cancelleria erano congegnati in modo tale da vanificare il fine sotteso dal principio di separazione delle fasi, dal momento che «non es- sendo stata prevista alcuna forma di contraddittorio anticipato, la verifica della regolare composizione del fascicolo poteva avvenire esclusivamente in sede di questioni preliminari al dibattimento (art. 491, co. 2 c.p.p.), e cioè nell’ambito

81 La quale, come è noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del co. 3 dell’articolo in

questione limitatamente alle parole “del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronun- cia della sentenza di primo grado, e di quelli”.

82 Divieto che spangher, La pratica del processo penale, II, Indagini preliminari e udienza preli-

minare. Il giudizio. Il procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, Milanofiori Assago, 2012, 245, definisce “relativo”, per distinguerlo da quello “assoluto”, cioè esteso al contenuto dell’atto. Ma v., anche, TOnini, Manuale, cit., 525, il quale distingue un divieto di

tipo “assoluto” da un divieto di tipo “attenuato”. Secondo casTellucci, L’atto processuale pe-

nale, cit., 24, per pubblicazione deve intendersi non la comunicazione ad uno o più soggetti determinati di notizie coperte dal segreto, bensì la rivelazione delle stesse con modalità tali da metterne al corrente un numero indefinibile di persone.

83 Ma v., per una deroga al principio generale stabilito dall’art. 114, co. 7 c.p.p., l’art. 329,

co. 1 lett. b) c.p.p. Sul significato da attribuire all’espressione “contenuto degli atti” v., tra gli altri, spangher, La pratica del processo penale, cit., 246, il quale non manca di rilevare come «[i]

l contenuto della distinzione, il valore della stessa, la sua efficacia, le problematiche connesse al mancato rispetto dei divieti sono oggetto – non da oggi – di un dibattito teso alla ricerca di soluzioni che tengono conto sia delle esigenze di tutelare il giudice dibattimentale (nella logi- ca del sistema bifasico), sia del diritto di cronaca, sullo sfondo di comportamenti, omissioni, interessi molto aggrovigliati». Secondo giOsTra, Segreto processuale, cit., 19, «[d]istinguere tra

un divieto di pubblicazione degli atti (segreti) che si estende al contenuto dei medesimi e un divieto di pubblicazione degli atti che non riguarda anche il loro contenuto appare soluzione inidonea a garantire uno stabile punto di equilibrio tra le opposte esigenze di tutela del pro- cesso, da un lato, e tutela del diritto all’informazione, dall’altro».

di un procedimento incidentale affidato a quello stesso giudice che si sarebbe voluto mantenere all’oscuro del materiale probatorio di parte»84.

La previsione di uno spazio di contraddittorio preventivo, introdotta dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, vale a sottolineare l’attenzione che il legislatore ha posto sul versante della predisposizione di strumenti che, assicurando l’estra- neità cognitiva del giudice rispetto al contenuto degli atti investigativi di parte, tutelino in maniera effettiva il principio del libero convincimento.

Se le norme sopra richiamate sono suscettibili di arginare il pericolo di at- tivazione di percorsi conoscitivi impropri e, quindi, turbativi del requisito es- senziale di giudizio costituito dalla neutralità metodologica in vista dell’avvio di meccanismi formativi della prova qualitativamente caratterizzati, non v’è chi non veda come gli sbarramenti sono destinati (tutti) a crollare in vista della celebrazione del giudizio di appello, in cui il giudice conosce – id est.: deve conoscere, non essendo pensabile né tollerabile che atti formati nel contesto processuale maggiormente in vista di tutto il modello siano posti nel nulla da astratte modellistiche a cui adeguare un giudizio del quale si postula un radi- cale cambiamento di fisionomia – gli atti della fase pregressa e, addirittura, la valutazione che di essi il giudice ha dato nella sentenza conclusiva del grado pregresso.

Si tratta di fattispecie base di un giudizio che, permanendo siffatte premes- se, non può sfuggire alla rigida logica del controllo basato su prove già assunte e già valutate.

Un giudizio in cui, tra l’altro, al divieto di cui all’art. 493, co. 4 c.p.p. si sosti- tuisce niente meno che la relazione della causa (art. 602 c.p.p.).