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L'errato utilizzo del modello di calcolo del VaR

2.9 I pregi e le limitazionii attribuibili al Value at Risk

2.9.3 L'errato utilizzo del modello di calcolo del VaR

Come chiarito inizialmente, al Value at Risk vengono attribuite molte limitazioni che però non possono essere considerati come tali, poiché essi non riguardano la misura del VaR, ma piuttosto, l'impiego e l'implementazione scorretta di tale misura.

Una prima critica che viene erroneamente imputata al Value at Risk riguarda le ipotesi su cui si fondano i diversi approcci per il calcolo del VaR: si ritiene che esse non siano attinenti alla realtà e quindi, se tali ipotesi non vengono condivise in modo universale, la computazione del rischio sarà inciata dall'inadabilità della misura.

A questa critica si risponde semplicemente sottolineando che le ipotesi alla base del VaR, seppur alle volte ritenute discutibili, permettono al soggetto che utilizza tale tecnica di calcolo di operare secondo una linea ben precisa e non in maniera del tutto discrezionale ed oscura, come nel caso di chi non adopera alcun modello di riferimento.

È da evidenziare, inoltre, che una volta che si conoscono minuziosamente le ipotesi alla base delle metodologie del VaR ed esse sono esplicite e quindi condivisibili, è possibile apportare alcune modiche che rendano queste metodologie più appropriate, in relazione

agli andamenti del mercato o comunque, variazioni che riettano in modo più adeguato e realistico alcune particolarità osservate dal management in funzione dei rischi da quanti- care.

In sostanza, si ritiene preferibile essere a conoscenza dei limiti e delle particolarità attinenti ad un modello per poterlo così modicare in base alle necessità riscontrate, piuttosto che non essere consapevoli degli strumenti che si utilizzano e delle loro caratteristiche.

Una seconda critica promossa contro i diversi metodi di calcolo del Value at Risk, at- tiene al fatto che queste, rispetto ad uno stesso portafoglio oggetto di analisi, producano risultati divergenti.

A tale aermazione si obbietta rispondendo che risulta normale tale circostanza, poiché essendo state proposte dierenti metodologie di calcolo del VaR, che sono basate su pre- supposti diversi, prendono in considerazione un intervallo di osservazioni dierente come campione, un arco temporale dierente, come anche il numero e la tipologia di fattori di rischio individuati e la modalità di mapping, oltre ad altri fattori o considerazioni diversi, risulta perciò intuibile che i risultati prodotti da queste siano divergenti tra loro. Ma ciò non implica l'inadeguatezza di una o più delle varianti sviluppate per il calcolo del VaR, perché ogni metodologia è preferibilmente applicabile in situazioni dove emergono deter- minate caratteristiche.

Non essendo tutti i portafogli uguali e neanche i contesti in cui si deniscono tali strumenti o in generale tali rischi, omogenei, risulta importante avere la possibilità di scegliere l'ap- proccio per il calcolo del Value at Risk più idoneo alle necessità che un ente ha, senza per questo incorrere nell'errore di pensare che gli altri approcci siano sbagliati perché produ- cono risultati diversi. Tale diormità di risultato non deve essere presa in considerazione ne a sé stessa, ma portata ad un livello più ampio: se tra le diverse unità di business di una banca, l'approccio utilizzato per il calcolo del VaR è sempre lo stesso, allora, la coe- renza nell'impiego dello strumento porterà a risultati confacenti, se invece, in ogni unità di business si utilizza un diverso approccio per la quanticazione del VaR, in questo caso, la coerenza dell'impiego dello strumento verrebbe meno, comportando valutazioni inidonee e scorrette.

In denitiva, ciò che assume rilievo in questo tema è il fatto che appare evidente come l'e- lemento essenziale riguardi l'impiego di criteri uniformi per la quanticazione del rischio in ogni singola unità della banca e non tanto i risultati dierenti prodotti dai diversi approcci di misurazione.

Una terza critica concerne il fatto che tale misura manifesta gli eventuali shock di mercato in ritardo, comportando, di conseguenza, una certa inecienza per ciò che riguarda l'azione di prevenzione delle perdite.

In primo luogo si deve sottolineare che il ritardo di cui si parla è una conseguenza naturale della quanticazione del Value at Risk, perché essa si basa essenzialmente sulla stima della volatilità storica, da cui poi si ricava la volatilità futura ipotetica.

Si deve inoltre tener presente che se si implementassero le metodologie di misurazione del VaR mediante previsioni più ranate, sarebbe possibile ottenere delle misure di rischio idonee a prevedere e anticipare eventuali crisi.

A tal proposito, si deve ricordare che esistono dei metodi statistici di stima fondati su basi storiche che riescono a prevedere e anticipare in modo sucientemente idoneo probabili fenomeni di crisi.

In secondo luogo, nonostante l'esistenza di tecniche che riescono a prevedere eventi di crisi in maniera abbastanza reattiva, è generalmente riconosciuta l'incapacità di qualsiasi tecnica previsionale di anticipare, o comunque prevedere, le variazioni dovute a fenomeni estremi di crisi dei mercati. Le variazioni rare ed estreme, infatti, sono impossibili da prevedere.

Inne, si deve sottolineare che lo scopo del VaR non è la previsione delle perdite che si possono manifestare in casi estremi, ma la misurazione delle perdite che possono presentarsi in condizioni normali di attività.

Una quarta critica, connessa alla precedente, riguarda l'impossibilità del Value at Risk di ricoprire tutti i possibili eventi di perdita, ricompresi quelli estremali.

Com'è noto, il Value at Risk è denito comunemente come la massima perdita potenziale derivante dalla detenzione di una particolare attività, in relazione ad un certo intervallo di condenza e ad un determinato orizzonte temporale futuro: poiché esso è riferito ad un prestabilito livello di condenza (può essere il 95%, oppure il 99%, ecc.) ma non alla totalità dell'intervallo (non verrà mai calcolato un VaR con un livello del 100%), vi saranno sempre degli eventi di perdita che non verranno considerati all'interno del calcolo del VaR, eventi che corrisponderanno a quelli estremi e rari, ovvero gli eventi che giacciono sulle code della distribuzione di probabilità dell'attività o del portafoglio in esame.

Il VaR, infatti, è una misura potenziale, non assoluta, poiché, come visto nel paragra- fo 2.1, se si dovesse utilizzare una misura di rischio assoluta, nel caso si detenesse uno o più strumenti e si volesse quanticare la loro massima perdita assoluta, risulta evidente che questa coinciderebbe esattamente con l'esposizione complessiva, ovvero, l'ammontare di capitale impiegato in tali strumenti. Ovviamente, in questo modo, detenere 100 azioni o detenere 100 obbligazioni in portafoglio comporterebbe lo stesso livello di rischio, ovvero, una perdita massima assoluta di 1000e, ma è comunemente noto che il rischio associato alle azioni è più elevato di quello associato alle obbligazioni, perciò l'utilizzo di una tipo- logia di misurazione basata sulla perdita assoluta non sarebbe idonea, proprio perché si incorrerebbe in un'evidente contraddizione.

Date le circostanze, è preferibile adottare una misura di rischio basata sulla massima perdi- ta potenziale, la quale avrà luogo, perciò, solo in un determinato set di casistiche possibili: si dovrà, di conseguenza, delineare un insieme ampio di situazioni sfavorevoli che, però, non vada mai a coincidere con la totalità delle situazioni possibili (sennò si determinerebbe la perdita assoluta e non quella potenziale).

La percentuale delle situazioni sfavorevoli prese in considerazione potrebbe essere pari, ad esempio, al 99% di tutti gli scenari possibili, così da non coincidere con la totalità delle si- tuazioni avverse, ma, allo stesso tempo, comprenderne un numero sucientemente elevato: solo nel remoto caso in cui si vericasse il rimanente 1% di scenari sfavorevoli la perdita che si registrerebbe sarebbe superiore a quella stimata dalla misura di rischio.

Risulta evidente a questo punto che tale criticità obiettata è legata alla mancata conoscenza delle nalità e delle caratteristiche del Value at Risk, il quale non ha come obiettivo quello di rendere inattaccabile e quindi, comportare l'impossibilità del fallimento per una banca, ma di determinare un ammontare di capitale che sia suciente per limitare e coprire le perdite che potrebbe subire in un determinato arco temporale futuro e quindi, diminuire il più possibile la possibilità che essa fallisca, ma di certo non renderla completamente immune da rischi e dalle perdite connesse ad essi.