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1.2 La tecnica di misurazione del rischio Value at Risk

1.2.1 L'origine del Value at Risk

La storia della nascita del Value at Risk è molto particolare. Si deve partire innanzi- tutto evidenziando il contesto di riferimento dove questa tecnica di misurazione del rischio ebbe i natali. Dopo aver preso coscienza che il rischio aveva una natura ben più complessa della semplice denizione data originariamente, tra la ne degli anni '50 e la ne degli anni '80 si svilupparono un numero crescente di metodologie per la gestione dei rischi nanziari. Inizialmente vi fu una particolare focalizzazione dell'attività del Risk Management pro- prio sul processo di misurazione del rischio. Vennero denite negli anni numerose tecniche per la quanticazione dei rischi nanziari, andando a creare, in questo modo, un labirinto intricato di indicatori tra loro eterogenei che però erano accomunati dallo stesso scopo: misurare, per ogni tipologia di strumento, il relativo rischio nanziario specico.

Per la misurazione del rischio del tasso di interesse, per esempio, si utilizzava principal- mente la duration, ovvero la durata media nanziaria: essa permette di quanticare, con un dato livello di precisione, la variazione del prezzo di un'obbligazione in relazione all'au- mento o alla diminuzione del tasso di interesse. La duration era, in sostanza, un indicatore che esprimeva la misura della reattività del prezzo di un'obbligazione a minime variazioni positive o negative del tasso.

Relativamente ai titoli azionari, invece, si utilizzava fondamentalmente il coeciente beta (β), il quale esprime la sensitività di un determinato titolo in relazione ai movimenti di un indice di mercato. Tale indicatore (β) si trova espresso specialmente all'interno del modello del Capital Asset Pricing Model (c.d. CAPM), che denisce il prezzo di un titolo azionario tenendo conto dei rischi e del rendimento atteso dello stesso.

Per quanto concerne le opzioni, gli operatori nanziari usufruiscono comunemente di un insieme di derivate parziali, chiamate greche37, che misurano la rischiosità di ogni singo-

lo fattore che impatta sul modello di pricing di Black e Scholes, ovvero determinano la reattività di un'opzione in seguito a piccole variazioni dei principali fattori o variabili in- dipendenti che inuenzano i movimenti del prezzo.

In ultima analisi, per misurare il rischio di credito si adoperavano essenzialmente i rating, ovvero giudizi sintetici, formulati in lettere da alcune agenzie specializzate in base al grado di solvibilità e al merito creditizio delle società oggetto di valutazione.

Come si è evidenziato, venne sviluppato un elevato numero di indicatori diversi e specici per ogni tipologia di rischio che però, presi insieme, possedevano un'evidente limitazione: erano misure assolutamente non comparabili (come si poteva associare un rating, ovvero un giudizio in lettere, con una greca, cioè una derivata parziale?). Il rischio veniva sì misurato attraverso molteplici metodologie, ma di fatto tutte a sé stanti, perché non confrontabili tra di loro, così da impedire qualsiasi quanticazione complessiva del rischio. Si possedevano tante grandezze relative a specici rischi, ma non si riusciva mai ad ottenere la percezione

37Per ulteriori informazioni sulle greche, si veda HULL, J. C. Opzioni, future e altri derivati [46], capitolo

completa del rischio che aiggeva un portafoglio o un'attività complessa, composta cioè da più tipologie di rischi specici: mancava una visione unitaria e complessiva del rischio. Tali misure, per di più, si contraddistinguevano per la mancanza di un'indicazione circa un'eventuale perdita inattesa, che poteva sorgere in caso di una variazione anomala dei fattori che le caratterizzavano e per l'assenza, al loro interno, di informazioni relative al- l'evoluzione corrente del mercato.

Questi limiti emersero in modo sempre più evidente sul nire degli anni '80: come si è ricordato nel primo capitolo di questa tesi, in quegli anni emerse la necessità di denire un patrimonio di vigilanza a livello internazionale e questo bisogno sfociò proprio nella sottoscrizione del Primo Accordo di Basilea (1988), che richiedeva un certo livello di ade- guatezza patrimoniale delle banche, ossia venne introdotto un requisito minimo di capitale di cui le banche dovevano obbligatoriamente dotarsi al ne di fronteggiare eventuali perdite inattese derivanti dai rischi prodotti dalla stessa attività bancaria. Si decise così, di porre l'accento sui rischi che una banca deve arontare e quindi sul patrimonio minimo di cui essa deve dotarsi per evitare che tali rischi la mettano in crisi. Ovviamente, per poter gestire il rischio in modo adeguato bisogna innanzitutto saperlo misurare, e come evidenziato, le tecniche di misurazione abbondavano, ma non riuscivano a quanticare in modo univoco il rischio che un istituto complesso come una banca aronta quotidianamente.

Il "4.15' p.m. report"

Nello stesso periodo in cui venne introdotta Basilea 1, Dennis Weatherstone, che al tempo era l'amministratore delegato della società nanziaria J.P. Morgan (ora leader nei servizi nanziari globali), durante una riunione chiese ai propri direttori a quale rischio era soggetta la società e ognuno di essi fornì al Presidente (c.d. Chairman) una diversa misura di rischio: il direttore dell'area credito, ad esempio, espose il rischio del suo settore tramite la comunicazione di una serie di rating, il direttore dell'area nanza riferì il rischio degli investimenti in obbligazioni tramite la duration dei portafogli delle stesse e così per ogni area della società. Il presidente Weatherstone però, voleva conoscere il rischio complessivo della società e non i rischi specici di ogni singolo segmento della J.P. Morgan, così inca- ricò i suoi migliori analisti, esperti in nanza e statistica, di trovare una misura di rischio che esprimesse in modo intuitivo e immediato il rischio complessivo cui era soggetta la società. A seguito di questa richiesta, gli analisti si misero all'opera e denirono una nuova tecnica di misurazione del rischio: nacque il Value at Risk (c.d. VaR). Ogni giorno veniva elaborato all'interno della banca d'aari J.P. Morgan un documento che doveva essere poi consegnato al Chairman Weatherstone entro le quattro e un quarto del pomeriggio (c.d. 4.15' p.m. report) in cui veniva riportato l'ammontare monetario dei dollari che la società rischiava di perdere in relazione a tutte le attività correnti che possedeva, limitatamente ad un determinato periodo di tempo (solitamente un giorno oppure dieci giorni) e con uno specico grado di probabilità (per esempio 95% o 99%). Questo documento, in sostanza,

racchiudeva il Value at Risk, che si dimostrò come l'idea più semplice ma rivoluzionaria nell'ambito delle tecniche di misurazione del rischio: in un unico numero, viene riassunto l'importo nella moneta di riferimento che denisce la potenziale perdita inattesa, determi- nata con una certa probabilità, a cui qualsiasi banca o società nanziaria può incorrere. Si deve tener conto, oltretutto, che tale numero include la quanticazione del rischio com- plessivo delle diverse attività o posizioni e dei dierenti elementi di rischio, andando così a raggruppare in un unico indicatore tutte le diverse tipologie di rischio che sono tipi- che di un portafoglio (ad esempio il rischio di tasso, il rischio di cambio, ecc.). Questa straordinaria tecnica di misurazione era stata prodotta internamente da J.P. Morgan che nel 1994 decise di renderla nota al mondo attraverso la pubblicazione del RiskMetrics38,

un documento di carattere tecnico in cui veniva esposta questa innovativa metodologia di misurazione che rispondeva al nome di Value at Risk39. La sua pubblicazione beneciò di

una tempistica eccellente: negli ultimi anni i giornali avevano pubblicato numerosi articoli riguardanti eclatanti perdite nanziarie40che avevano scosso tutto il mondo. Da quel mo-

mento iniziò un periodo che si caratterizzò per l'espansione e il miglioramento dei modelli e delle metodologie per la misurazione dei rischi.