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La tradizione classica e la sua valenza etica

II.4 Lo stile dei testi e la traduzione

I.3.4 La tradizione classica e la sua valenza etica

L’alto valore letterario dei testi scelti da Carlo Prosperi per le proprie composizioni è indubbio. Oltre a Quasimodo si possono aggiungere i versi dell’amico e poeta contemporaneo Carlo Betocchi, assai spesso frequentati79, la poesia di Montale in Marezzo, per voce recitante,

coro e orchestra del 1961, la lirica di Hölderlin, in O Diotìma, per soprano, violino, viola e arpa del 1981 (un altro riferimento alla Grecia)80, nonché l’alta lirica del Petrarca, nelle Tre poesie dal

Canzoniere per soprano e viola del 1990. La scelta provocatoria di testi “futili”, come il prospetto di macchine agricole o l’elenco di ricette di cocktails intonati da Darius Milhaud, nel clima dissacrante della Francia anni Venti vòlto a épater le bourgeois, sarebbe stata impensabile per Prosperi, che mai avrebbe potuto o voluto sottrarsi al sentimento e al pathos. I testi letterari messi in musica dal compositore sono sempre pregni di significato; vi sono alcuni motivi ricorrenti: il timore della vecchiaia, nei Tre frammenti di Saffo e nell’ultimo sonetto delle Tre poesie dal Canzoniere, la tristezza per la vita che fugge, in talune poesie di Betocchi nei Canti dell’ansia e della gioia e, nel caso di Noi soldà, un argomento di natura morale e civile.

La scelta di testi che convoglino profonde tematiche esistenziali e sociali, insieme alla fiducia nel potere della musica di evocarne e metterne in risalto la forza espressiva, colloca, pertanto, Prosperi accanto ad un altro grande nome della tradizione musicale italiana, Luigi Dallapiccola. Curioso e attento come il suo maestro ai nuovi fermenti culturali, Prosperi è tra i primi compositori a rispondere alle sollecitazioni dei Lirici greci di Quasimodo. È significativo che fin dalla prima intonazione di questi testi, nei Tre frammenti di Saffo, una delle sue prime composizioni, il tema della Grecia antica non induca ad alcun ripiegamento neoclassico. Prosperi, infatti, come a rendersi conto del singolare connubio di antico e nuovo che anima le traduzioni,

79 Dai Tre canti di Betocchi, per coro misto e tre flauti, del 1969 ai Canti dell’ansia e della gioia prima e seconda serie del

1980-2, su sei testi del poeta fiorentino.

80 Il testo di O Diotìma gli fu suggerito dal direttore d’orchestra Piero Bellugi, amico di Prosperi e principale interprete

sperimenta procedimenti poliarmonici, pur restando in ambito tonale. Se dall’esile scrittura dei movimenti estremi e, in particolare, dalla polifonia a due voci che introduce il finale spira un soffio di arcana semplicità, il secondo movimento, violento e ricco di pathos, in cui trovano sfogo i sentimenti contrastanti di Saffo, dissipa l’immagine di una Grecia idilliaca, intesa come un regno incontaminato di equilibrio e perfezione.

La poesia classica, nella versione di Quasimodo, diviene nuovamente fonte di ispirazione sei anni dopo, nelle Cinque strofe dal greco; altri e fecondi stimoli, infatti, il compositore avrebbe tratto dalle traduzioni. Rispetto ai Tre frammenti di Saffo, nelle liriche del ’50 vi è una maggiore medietas espressiva, un’autonomia della costruzione musicale dal dato semantico, che si può mettere in relazione anche con quegli aspetti – assenza di elementi soggettivi, purezza descrittiva – che, come si è visto, distinguono i frammenti delle Cinque strofe dal greco dalla versione Tramontata è la luna. Nelle liriche per voce e strumenti, inoltre, Prosperi contempera il desiderio di rinnovarsi – l’impiego di temi costituiti dai dodici suoni del totale cromatico – con il senso classico della chiarezza formale, che gli è proprio, e il gusto per l’eufonia e la linea melodica semplice, che talvolta, per usare una sinestesia, si colora di una tinta crepuscolare rosa antico. Ancor di più nelle Cinque strofe dal greco pare avverarsi quell’incontro di modernità e tradizione che Quasimodo aveva realizzato nella propria interpretazione in chiave ermetica dei classici greci. Forse anche per questo il poeta riteneva che le liriche di Prosperi fossero tra le migliori intonazioni sui suoi testi81. Non solo: dall’equilibrio di queste miniature sonore, velato da oscuri

turbamenti – il carattere inquietante che nella terza strofa assumono il violoncello e il contrabbasso nelle brevi imitazioni della linea del canto, o, a livello formale, il contrasto tra il breve agitato refrain e il più composto couplet – , traspare l’immagine di una Grecia orfica, la terza via prospettata dal mondo greco, intermediaria e allo stesso tempo alternativa ai due estremi del dionisiaco e dell’apollineo, in cui il lato cupo e orgiastico dei misteri di Dioniso viene trasceso e sublimato nel culto apollineo della luce vivificante, della musica82.

Le Cinque strofe dal greco rivelano la passione di Prosperi per le magiche e colorate combinazioni timbriche, il piacere per il suono rinnovato dai cangianti accoppiamenti strumentali, che sarà una costante della sua produzione – si pensi alle composizioni successive come il Concerto dell’Arcobaleno83. Il gusto per la melodia dolce e cantabile, per il timbro chiaro e cristallino, l’attenzione al “piacere” dell’orecchio, sono aspetti che denotano la volontà di Prosperi di comunicare con l’uomo posto umanisticamente al centro del cosmo. Ciò che vale è che

81 Cfr la lettera di Quasimodo a Prosperi dell’8 giugno 1953, conservata all’Archivio contemporaneo «Alessandro

Bonsanti» di Firenze.

82 R. S. Borello, Mito e storia in Salvatore Quasimodo, in Segni e sogni quasimodiani, a c. di Laura Di Nicola e Maria Luisi,

Pesaro, Metauro, 2004, pp. 147-68.

83 Prosperi, nel citato scritto inedito, spiega che il significato del titolo è legato anche al timbro, ottenuto dal

complesso formato dal pianoforte, dalla marimba e dagli archi, le cui sonorità mosse ora in maniera alternativa, ora amalgamata, conferisce all’insieme una particolare colorazione ispirata alla iridescenza dell’arco celeste.

l’impellente desiderio di farsi comprendere non degeneri mai in retorica; è la sua un’esigenza di trasparenza espressiva, dettata dal rispetto per l’essere umano. Il senso classico di ordine e chiarezza finisce col riversarsi nell’amore per la misteriosa organizzazione dell’universo, per l’incantevole fissità delle stelle, come suggeriscono Costellazioni per clavicembalo del ’71 o In nocte secunda, per chitarra, clavicembalo e sei violini del 1968, il cui primo movimento, Stellae inerrantes, diventerà autonomo nella versione per tre chitarre del 1970.

O Diotìma é una delle ultime composizioni di Prosperi che rinnova il mito della Grecia. Qui si accoglie l’interpretazione hölderliniana di un Ellade vergine, dove si conserva l’unione tra l’uomo, la natura e il divino, un’unione di cui Diotima diviene il simbolo.

Prosperi è giunto ormai ad un uso disinvolto e personalissimo della scrittura dodecafonica; la serie non diviene mai vincolante, né potrebbe in un’arte libera e sfuggente alle definizioni come quella di Prosperi: è solo una possibilità in più, un arricchimento espressivo84. In

O Diotìma convivono dolcezza ultraterrena e tensione spirituale, che richiedono all’ascoltatore una partecipazione attiva e al contempo intima, poiché sono bandite qualsiasi forma di enfasi e di esagerazione sentimentale: tutto diviene evocazione. Gli armonici dell’arpa illuminano frammenti sempre nuovi di melodia, così che il timbro, il suono particolare di ciascun strumento, si rivela un mezzo per sondare il mutevole, il perenne divenire.

La tradizione classica, la Grecia antica diventano un Leitmotiv della produzione di Prosperi; che senso dargli? Lontana dall’essere celebrata come un paradiso perduto, dove avevano regnato armonia e perfezione, l’Ellade, collocata in una dimensione metastorica, assume una valenza etica: rappresenta l’impegno morale e civile con cui l’essere umano affronta le difficoltà dell’esistenza. In riferimento alle tematiche, pure trattate dal compositore, del dolore della vecchiaia e della caducità della vita, si può scorgere nel richiamo al mondo classico una via per superare i limiti di tempo e spazio alla ricerca di valori eternamente validi, un modo per sconfiggere quel sentimento di impotenza che emerge dai versi del Petrarca, «la vita fugge e non s’arresta un’ora/e la morte vien dietro a gran giornate», intonati da Prosperi nella sua ultima composizione del 1990 e che sembrano l’eco del triste lamento di Saffo «ma a me non ape, non miele, e soffro e desidero», così intensamente cantato dal giovane Prosperi cinquant’anni prima.

84 Nel manoscritto inedito più volte citato, Prosperi così si esprime «I dodici suoni appaiono soltanto come una

necessità di allargare lo spazio diatonico e trasportare i sette suoni diatonici della tradizione sui dodici suoni offerti dal temperamento. Il senso diatonico dei dodici suoni è quindi ottenuto attraverso una rigida disciplina dodecafonica di successione dei suoni stessi, che, pur senza essere obbligati ad una serie fondamentale creano ugualmente nitidezza sonora, quasi come un allargamento dello spazio tonale, privo delle attrazioni proprie alla tradizione storica».

Capitolo II

Luigi Dallapiccola: dalle

Liriche greche

ai

Cinque Canti

II.1 La “classicità” di Dallapiccola.

Luigi Dallapiccola ricevette dalla famiglia un’educazione prettamente umanistica e ciò spiega, in parte, il ricorso frequente alla poesia greca nelle sue composizioni (da Estate, Liriche greche e Cinque Canti a Ulisse e Marsia). Come lui stesso racconta, fin da bambino si era appassionato alla mitologia, prestando viva attenzione alle citazioni classiche che il padre, professore di latino e greco, soleva dispensare nelle conversazioni quotidiane in famiglia. Spinto dalla curiosità, s’informava sulle varie divinità mitologiche, tanto da acquisire col tempo una discreta dimestichezza1. Il padre, Pio Dallapiccola, insegnava al Realgymnasium di Pisino, scuola corrispondente ad un odierno liceo scientifico, ma nel 1916, dopo la chiusura del liceo, ritenuto un centro segreto dell’Irredentismo, fu confinato con la famiglia a Graz. Luigi, che nel 1914 si era iscritto al ginnasio di Pisino, continuò gli studi liceali nella nuova città2.

La vita creativa di Dallapiccola è caratterizzata dal continuo ritorno di alcuni poeti o di particolari motivi poetici; a volte si tratta di un singolo verso o addirittura di una singola parola. In Prime composizioni corali, il compositore si serve di una metafora naturalistica per descrivere questo aspetto di sé: «Come i fiumi del Carso, della mia terra natale, che ad un dato momento si inabissano e, dopo aver percorso sotto terra molti chilometri, riappaiono alla superficie con altro nome, con altro colore, così è accaduto in me per quanto riguarda certi motivi poetici»3.

La civiltà greca è una presenza costante, sia essa rappresentata da Ulisse, dai lirici o dall’eroe Marsia che osa sfidare il dio Apollo. A proposito di Ulisse, fu lo stesso Dallapiccola a sottolineare la strana coincidenza del ciclico riapparire, nella sua vita, dell’eroe omerico: «Non negherò come questo periodico apparire della figura di Ulisse sul mio cammino destasse in me curiosità, non disgiunta da una certa meraviglia. Cominciavo quasi a credere che non si trattasse di semplici coincidenze»4.

Il primo incontro con Ulisse avvenne al cinema, dove il piccolo Luigi vide con la famiglia L’Odissea di Omero di Giuseppe de Liguoro. In seguito ci furono l’offerta di Léonide Massine per un balletto sull’Odissea non andato in porto, l’incarico di una trascrizione per le scene moderne del

1 L. Dallapiccola, A proposito dei «Cinque Canti» per baritono e otto strumenti, in Parole e musica, a c. di F. Nicolodi, Milano,

Il Saggiatore, 1980, p. 489.

2 M. Ruffini, Cronologia di L. Dallapiccola, in L’opera di Luigi Dallapiccola. Catalogo ragionato, Milano, Suvini-Zerboni, 2002,

p. 25.

3 L. Dallapiccola, Prime composizioni corali, in Parole e musica cit., pp. 379-80.

4 L. Dallapiccola, Nascita di un libretto d’opera (1967), in Appunti Incontri Meditazioni, Milano, Suvini-Zerboni, 1970, p.

Ritorno di Ulisse in patria, e l’opera Ulisse, terminata nel 1968, il cui libretto era stato però già pensato nel 19435, considerata dall’autore «il risultato di tutta la mia vita»6.

Il balletto Marsia fu scritto in collaborazione con il coreografo Aurel M. Milloss nel 1942- 43, cioè dopo che Dallapiccola aveva già composto Volo di notte e i Canti di prigionia e stava lavorando al libretto del Prigioniero. Nel programma di sala, Massimo Mila negò che il balletto appartenesse, insieme al Piccolo Concerto per Muriel Couvreux, la Sonatina canonica e le Liriche greche, ad una stagione apollinea, poiché in esso si manifestava quella lotta dell’uomo contro una forza superiore che, idea centrale della poetica dallapiccoliana, l’accomunava ad opere come Volo di notte, o al futuro Prigioniero7. In effetti, la problematica del rapporto tra uomo e dio posta da

Marsia allontana il balletto da un insieme lavori che, non avendo come soggetto la negazione della libertà, è stato definito come meno impegnato. Lo stesso Dalla piccola, nel valutare la differenza di «atmosfera» tra le Liriche greche e l’opera il Prigioniero così si esprime: «l’equilibrio sovrano che emana dai lirici greci contribuì, almeno in certi istanti, a darmi sollievo di fronte ai continui squilibri cui la nostra vita era condizionata; a farmi sopportare tragici avvenimenti e forse a costituire il necessario contrasto con l’atmosfera dell’opera Il Prigioniero, alla quale stavo lavorando»8. Ma più avanti, nello stesso scritto, dopo aver constatato che l’apporto della poesia

greca non si sarebbe esaurito con le Liriche greche degli anni Quaranta, Dallapiccola ammette di averne compreso, in un secondo momento, il vero significato: «per me la civiltà greca non era stata – in un momento particolarissimo – un rifugio dello spirito soltanto; ma piuttosto una componente di me stesso. Vidi più tardi come essa comprendesse tutti i problemi (problemi eterni – quindi anche attuali) e mi sia concesso di aggiungere […] che il soggetto della nuova Opera alla quale lavoro è tratto dalla mitologia greca»9.

Il rapporto del compositore istriano con il mondo greco non conobbe mai pose estetizzanti o compiacimenti letterari, poiché la sua non fu una classicità retorica ed esteriore, ma appunto una componente di sé stesso, una parte fondamentale della sua sensibilità ricca di tensioni etiche e morali.

Il primo incontro con la poesia greca (Estate del 1932) avvenne attraverso la traduzione di Romagnoli di un solo frammento; molto più prolifico si sarebbe rivelato l’incontro con le

5 Lettera di Dallapiccola a Biagio Marin, 2 novembre 1961, in Luigi Dallapiccola. Saggi, testimonianze, carteggio, biografia e

bibliografia, a c. di F. Nicolodi, Milano, Suvini-Zerboni, 1975, pp. 96-97.

6 Lettera di Dallapiccola alle ESZ del 22 maggio 1959, cit. da D. Kämper, Gefangenschaft und Freiheit. Leben und Werk des

Komponisten Luigi Dallapiccola, Köln, Gitarre&Laute, 1984, trad. it. Luigi Dallapiccola: la vita e l’opera, a c. di L. Dallapiccola e S. Sablich, Firenze, Sansoni, 1985, p. 228. In una lettera a Petrassi, inoltre, in riferimento alla richiesta di Hartmann di ricevere musiche di compositori italiani per alcuni concerti, Dallapiccola scrive: «Che gli mandi? Le Otto invenzioni, le Liriche di Saffo? Scrivimi. Io probabilmente spedirò le Laudi: non so se sia il caso che mandi le cose più recenti, ma credo di no. Dopo tanti anni di barbarie il clima dei Sex Carmina Alcaei sarebbe fuori luogo». Lettera del 29 aprile 1946, conservata all’Istituto di Studi musicali «Goffredo Petrassi» di Latina.

7 M. Mila, Marsia, nel programma di sala del Teatro alla Scala, 30 dicembre 1951. 8 L. Dallapiccola, A proposito dei «Cinque Canti» cit., p. 491.

traduzioni di Salvatore Quasimodo. Il compositore, informato sul dibattito incorso intorno alle versioni del poeta, avrebbe colto in esse un nuovo concetto di grecità classica, più vicina alla sensibilità dell’uomo contemporaneo. In Estate, peraltro, per coro maschile a cappella, Dallapiccola impiegò per la prima volta i versi di Alceo, che sarebbero stati ripresi dieci anni più tardi nei Sex Carmina Alcaei, terza parte del ciclo delle Liriche greche, su traduzioni di Quasimodo.

Nello scritto già segnalato, Prime composizioni corali, paragonando certi motivi poetici ai fiumi del Carso – che dopo essersi inabissati «riappaiono alla superficie con altro nome, con altro colore»10 – Dallapiccola pone l’accento sull’«incontro rinnovato» di poemi e poeti. Nel caso del

ritorno della poesia di Alceo assume grande importanza il passaggio dalla traduzione di Romagnoli (Estate) alla traduzione di Quasimodo (Sex Carmina Alcaei): il secondo incontro con il poeta greco, cioè, fu più fecondo perché non avvenne più «nella modesta traduzione del Romagnoli, bensì nella alata versione di Salvatore Quasimodo»11. Dallapiccola riteneva, infatti,

che il poeta siciliano, «permeato di spirito greco», fosse riuscito a rendere in italiano lo spirito originario della lirica greca, da cui invece si erano allontanate, per un tipo di linguaggio troppo aulico, le traduzioni precedenti12. Anche l’incontro con la Chanson de Roland, avvenuto dapprima

nella Rapsodia, per voce e orchestra da camera (1932-33), si rinnovò in Rencesvals del 1946 per baritono e pianoforte, non più nella versione di Giovanni Pascoli, ma nella lingua originale. Sia Estate sia la Rapsodia furono terminate nel 1932, mentre le Liriche greche e Rencesvals comparvero entrambe negli anni Quaranta, dopo essere state concluse rispettivamente nel ’44 e nel ’46.

Nel periodo di mezzo, tra il 1933 e il 1936, Dallapiccola scrisse i Sei Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane, su versi del nipote del celebre pittore. Di sovente apprezzato per la scelta raffinata dei testi, Dallapiccola, con questo affresco corale, favorì la conoscenza di alcuni dei «momenti degni di nota della poesia italiana»13, in particolare il Coro degli zitti, dalla veglia Le

Mascherate, primo dei cori delle terza serie.

In occasione del festival internazionale di musica, svoltosi a Venezia nel 1961, il compilatore del programma fece notare al compositore che, a differenza di altri motivi ricorrenti, egli non aveva più ripreso «il motivo gaio, sereno e spensierato»14 dei Sei Cori di Michelangelo

Buonarroti il giovane. La risposta di Dallapiccola fu significativa: la terza serie dei Sei Cori di Michelangelo Buonarroti il giovane era già completamente abbozzata nel 1935, anno in cui l’Italia invadeva l’Etiopia senza dichiarazione di guerra; inoltre, il 9 luglio dell’anno seguente, Mussolini avrebbe proclamato la fondazione dell’Impero e il 24 ottobre si sarebbe costituito l’Asse Roma- Berlino. Erano eventi che avevano reso drammaticamente chiara la rottura dell’equilibrio

10 L. Dallapiccola, Prime composizioni corali cit., pp. 379-80. 11 Ivi, p. 374.

12 L. Dallapiccola, A proposito dei «Cinque Canti» cit., p. 490. 13 L. Dallapiccola, Prime composizioni corali cit., p. 378. 14 Ivi, p. 380.

europeo. Dallapiccola aveva vissuto questo periodo cruciale della storia come uno di quei processi bio-fisiologici che trasformano l’essere da adolescente a giovane, o da giovane a uomo maturo: «Si chiudeva per me, e senza possibilità di ritorni, il mondo della colorita gaia aneddotica, della serena spensieratezza; forse anche il periodo della giovinezza e con ciò il primo periodo della mia attività creativa. Bisognava trovare altra legna in altri boschi»15.

La svolta decisiva cui allude Dallapiccola fu l’incontro, negli anni Quaranta, con alcuni poeti già apparsi nel decennio precedente e con uno stile compositivo profondamente mutato, in un periodo drammatico della storia: fu il riflesso di un desiderio vivo, forte in ogni campo dell’arte, di cambiare, di tagliare i ponti con un passato compromesso.