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La legittimità della rappresaglia

I.I. 2 La fine del processo: la solennità dell’evento

II.3. Quale giustizia? La riflessione giuridica

II.3.2. La legittimità della rappresaglia

La questione della legittimità della rappresaglia è centrale in questi processi e costituisce uno degli argomenti principali della difesa. Nel caso di Kappler, questo era un aspetto delicato poiché la strage delle Fosse Ardeatine non si presentava come un massacro indiscriminato, come quello di Monte Sole, nel quale furono uccisi per la maggior parte donne e bambini, ma come una rappresaglia, o repressione collettiva, nella quale erano

396 Ermanno Belardinelli, Crimini di guerra. La relativa giurisdizione ed i procedimenti in Italia, in «La giustizia

penale», 1951, p. 117

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state selezionate alcune categorie di persone e erano stati uccisi solamente uomini. Rispetto a quest’ultima situazione il diritto internazionale non era esplicito nel vietare la rappresaglia che si verificasse rispettando alcune condizioni e potesse considerarsi un’uccisione di ostaggi. Il preteso diritto di rappresaglia si basava su un’interpretazione estensiva dell’articolo 43 della Convenzione dell’Aia del 1907, che affidava all’occupante il compito di ristabilire l’ordine pubblico. Questo articolo veniva posto a giustificazione della rappresaglia, in base a una presunta lacuna su tale punto, colmata quindi dal diritto consuetudinario. Tale interpretazione era formulata dal manuale di diritto di guerra scritto nel 1942 dal giurista Waltzog, che era incaricato delle questioni internazionali nella sezione giuridica del Comando supremo tedesco. Essa era comunque accettata anche da giuristi inglesi, americani e italiani, i quali ammettevano la liceità della rappresaglia ad alcune condizioni: la notificazione in anticipo, la proporzionalità e un ordine proveniente almeno da un comandante di divisione. Le difficoltà interpretative dipendevano comunque dal fatto che le convenzioni dell’Aia del 1899 e 1907 erano completamente inadatte a regolamentare le nuove forme della guerra totale del Novecento.398

A dimostrazione del fatto che questa interpretazione del diritto di rappresaglia fosse diffusa anche fra i giuristi statunitensi, Pezzino ha preso in considerazione il settimo dei 12 processi di Norimberga tenuti dagli americani dopo la fine del procedimento principale, noto come The Hostages Trial, dove furono giudicati dodici alti ufficiali tedeschi responsabili delle operazioni di guerra sul fronte sud-orientale (Grecia, Albania e Jugoslavia). Fra le accuse a questi ufficiali, vi era quella di aver ucciso ostaggi e partigiani per rappresaglia e di aver designato arbitrariamente i combattenti come “partigiani”. Il tribunale allora affrontò la questione se i partigiani potessero essere considerati legittimi belligeranti e riconosciuti come prigionieri di guerra, garantendo loro la protezione internazionale riservata a questi ultimi. Concluse però che secondo l’articolo 1 della Convenzione dell’Aia del 1907 ai partigiani non poteva essere riconosciuto lo status di prigionieri di guerra e dunque l’esecuzione di partigiani non rappresentava un atto illegittimo per il diritto internazionale. La corte statunitense stabilì che la fucilazione di ostaggi e prigionieri per rappresaglia poteva essere giustificata in alcune circostanze, come ultima risorsa per garantire pace e tranquillità in un territorio occupato: «il fatto che la pratica è stata stravolta e resa irriconoscibile da un’applicazione illegale e inumana non

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può giustificare il suo divieto giuridico»399. A questa interpretazione del diritto di rappresaglia, la quale era ammessa in alcune circostanze, si attenne anche la Corte che giudicò Kappler.

Nel processo a Kappler vediamo infatti come la tesi della difesa abbia cercato di presentare la strage come una legittima rappresaglia, in risposta all’attentato avvenuto a Roma in via Rasella il 23 marzo 1944 ad opera di una squadra di partigiani dei GAP romani, in cui morirono 33 soldati tedeschi. La Corte quindi per giudicare la tesi difensiva cercò di stabilire quali fossero le condizioni di legittimità della rappresaglia. Una di queste condizioni era – secondo la Corte – il fatto che solo in conseguenza di un atto illegittimo da parte di uno Stato, sorgesse nello Stato danneggiato il diritto di rappresaglia. Ci si doveva domandare quindi se la formazione partigiana che aveva compiuto l’attentato in via Rasella potesse essere considerata come legittimo belligerante, così da riportare l’operazione all’attività di uno Stato. Secondo la Corte, il movimento partigiano, sebbene avesse assunto proporzioni di rilievo e un’organizzazione notevole, non poteva essere considerato un legittimo belligerante. Gli attentatori di via Rasella non rispondevano infatti ai requisiti necessari, secondo l’articolo 1 della Convenzione dell’Aja, per essere equiparato a un esercito regolare: non avevano una chiara struttura gerarchica interna né un segno distintivo riconoscibile; non portavano apertamente le armi, né osservavano il diritto di guerra. Dal momento che l’attentato di via Rasella rappresentava un atto illegittimo di guerra per il quale lo Stato italiano non aveva responsabilità, non si poteva far discendere il diritto di rappresaglia all’avversario. Nonostante ciò, la Corte non escludeva il diritto di rappresaglia per i tedeschi. Secondo i principi giuridici sopra citati, infatti, lo stato occupante aveva il diritto di agire in via di rappresaglia. Tale non poteva essere giudicata comunque la fucilazione delle Fosse Ardeatine per un altro motivo che chiariremo più avanti.

Questa è una delle principali contraddizioni che il giurista Roberto Ago ha notato a proposito del processo a Kappler in un articolo pubblicato sulla «Rivista italiana di diritto penale» nel 1949400. Egli ha evidenziato alcuni errori che la Corte avrebbe commesso nel

formulare le proprie argomentazioni durante il processo. Per prima cosa, la Corte, affermando che per rappresaglia debba essere intesa un’azione finalizzata a far cessare una

399 Cit. in De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 56.

400 Roberto Ago, L’eccidio delle Fosse Ardeatine alla luce del diritto internazionale di guerra, in «Rivista

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violazione del diritto internazionale da parte dello Stato a cui è diretta, avrebbe dimostrato di non aver chiaro un aspetto importante: «la natura vera e propria della rappresaglia quale “sanzione” di un torto, avente quindi carattere eminentemente repressivo e come tale fine a se stesso»401. Il vizio principale dell’argomentazione della Corte riguardava comunque la questione se l’attentato di via Rasella potesse essere considerato un illecito imputabile allo Stato italiano e quindi tale da legittimare una rappresaglia dello Stato tedesco. Su questo punto, il giurista criticava il modo di ragionare della Corte riguardo all’articolo 1 della Convenzione di Ginevra: egli riteneva infatti «assurdo pensare che ad uno Stato possa venire imputato un illecito internazionale […] quando tolleri l’esistenza e l’azione di corpi volontari che non adempiano alle condizioni richieste per essere riconosciuti come “belligeranti” legittimi. […] Ed è quindi assurdo altresì parlare, per un simile fatto, del sorgere nello Stato nemico di un titolo giuridico per il ricorso a una legittima rappresaglia»402. Se la violazione è stata compiuta da formazioni irregolari, lo Stato a cui appartengono queste formazioni non può dirsi responsabile né della loro esistenza né degli atti da esse compiuti, perciò lo Stato offeso non ha alcun diritto di rappresaglia.

La Corte ha comunque ammesso che esistesse un forte legame fra gli attentatori di via Rasella e lo Stato italiano e ha concluso infine che lo Stato tedesco, predisponendo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, abbia agito in conformità delle leggi internazionali. Nonostante ciò, tale rappresaglia ha perso il suo carattere di legittimità per un altro motivo, ovvero la sproporzione enorme fra la violazione subita e quella causata, sia in numero di vittime e che in relazione al danno provocato. Solamente per non aver rispettato il criterio della proporzionalità, l’eccidio delle Cave Ardeatine è stato considerato un atto illegittimo e non una lecita rappresaglia. La Corte ha inoltre specificato che un limite generale per la rappresaglia consistesse nel non violare con essa quei diritti che sanzionano fondamentali esigenze. Come ha sottolineato Pezzino, quest’ultima considerazione «poteva portare il Tribunale militare di Roma a valutare determinati atti alla luce di quella nuova categoria di “crimini contro l’umanità” che era stata abbozzata nel corso del processo tenutosi a Norimberga»403. Tale categoria era compresa infatti nei tre principali capi d’imputazione previsti dall’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, i quali – come abbiamo visto – comprendevano: crimini di guerra, crimini contro la pace e crimini contro l’umanità. I principi di Norimberga furono confermati dalla risoluzione delle Nazioni Unite n. 95 del

401Ago, L’eccidio delle Fosse Ardeatine cit., p. 217. 402Ivi, p. 220.

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10 dicembre 1946. Essi avrebbero potuto dunque essere applicati anche nel processo a Reder. A parte l’accenno sopra menzionato, però, «niente di tutto ciò […] è dato ritrovare nella sentenza del Tribunale militare di Roma, tutta protesa a distinguere le responsabilità in merito alle 335 vittime»404. La Corte si era profusa infatti a specificare che, fra le 335 vittime, 320 di queste erano state uccise per l’ordine fatto da Maeltzer di giustiziare dieci persone per ogni soldato tedesco morto, altre 10 persone erano state fucilate per la morte di un trentatreesimo soldato tedesco direttamente da parte di Kappler. La fucilazione di altre cinque persone dipendeva invece da un errore che sarà valutato in seguito.

La Corte ha dovuto poi affrontare la successiva tesi della difesa che sosteneva come l’eccidio delle Fosse Ardeatine dovesse essere considerato – se non come legittima rappresaglia - come legittima repressione collettiva. La difesa si era appellata all’articolo 50 della Convenzione dell’Aja del 1907, che stabiliva la liceità di alcune pene collettive, pecuniarie o altre, nel caso in cui le popolazioni civili potessero essere considerate solidalmente responsabili di un atto compiuto da individui, a condizione però che fosse dimostrata l’impossibilità di individuare i colpevoli e che l’occupante avesse emanato in precedenza una norma all’interno del territorio occupato che stabilisse i criteri di determinazione della solidarietà collettiva. Nessuna di queste condizioni si era realizzzata: non era stata emanata alcuna norma interna dall’occupante tedesco, né era stata tentata alcuna ricerca dei colpevoli prima dell’esecuzione dell’eccidio da parte del comando della polizia tedesca, se non come azione marginale e successiva alla preparazione dell’atto di rappresaglia, né la maggior parte dei fucilati delle Fosse Ardeatine poteva in alcun modo essere considerata solidalmente responsabile con gli attentatori.

Le obiezioni di Roberto Ago, però, riguardano le motivazioni che hanno portato la Corte a escludere l’ipotesi della repressione collettiva. Se questa avesse esaminato infatti con più attenzione l’articolo 50 della Convenzione dell’Aja, avrebbe escluso immediatamente tale ipotesi, senza neanche doversi appellare alla mancanza delle condizioni della responsabilità collettiva: «sarebbe stato compito della Corte di domandarsi se fosse vero il presupposto necessario dell’argomentazione stessa, e cioè che un eccidio come quello considerato potesse comunque essere compreso tra le pene previste da quella disposizione»405. Nelle intenzioni degli autori della Convenzione, infatti, queste ultime

avrebbero dovuto essere per lo più pecuniarie e sono in ogni caso tipicamente collettive e

404 De Paolis e Pezzino, La difficile giustizia cit., p. 58. 405 Ago, L’eccidio delle Fosse Ardeatine cit., p. 220-221.

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quindi non possono mai essere dirette a colpire persone singole. Per questo, secondo Ago, «l’esclusione del tentativo di giustificare l’eccidio delle Fosse Ardeatine facendolo rientrare sotto il titolo delle pene o repressioni collettive espressamente previste e disciplinate dalle leggi di guerra avrebbe quindi potuto esser compiuta dalla Corte in maniera indubbiamente più decisa e probante di quanto non sia in fatto risultato»406. Il giurista quindi ha approvato la decisione della Corte di non ritenere la strage delle Fosse Ardeatine una repressione collettiva, ma non ne ha condiviso il percorso argomentativo. Esclusa dunque la configurabilità sia della rappresaglia che della repressione collettiva, la Corte ha concluso che l’eccidio delle Fosse Ardeatine rientrasse, secondo l’art. 185 c.p.m. di guerra, negli atti di violenza commessi, senza necessità o senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, da militari o nemici a danno di civili che non prendevano parte alle operazioni. Il giurista ha sottolineato la gravità di tali atti e dunque il valore storico della loro punizione: «uccisioni di civili, o di internati, o di ostaggi a seguito di atti di violenza di ignoti contro le forze occupanti, che […] furono portate dalla Germania nella seconda guerra mondiale ad un punto tale di intensità e di atrocità da indurre fino dal 1941 le potenze alleate ad indicare tali crimini tra quelli la cui punizione avrebbe dovuto costituire uno degli obiettivi primari della guerra»407. Il giudizio conclusivo di Roberto Ago sul processo a Kappler tiene comunque in considerazione la complessità della sentenza:

Per quanto […] nulla possa obiettarsi al dispositivo finale della sentenza, […] vi è forse invece da rammaricarsi che l’errore iniziale in cui è caduta la Corte stessa quanto alla qualificazione giuridica dell’attentato in via Rasella […] abbia finito per togliere alla sentenza almeno una parte di quel valore storico che essa avrebbe potuto avere come autorevole contributo […] alla precisazione di alcuni fra i più delicati principi del diritto internazionale di guerra.408

Anche nel processo a Reder, la tesi difensiva si sviluppò seguendo la stessa linea del processo a Kappler. Essa sostenne che Reder aveva esercitato il diritto di rappresaglia o di repressione collettiva contro i civili a causa delle azioni partigiane. Questa volta, però, le argomentazioni della Corte hanno addotto delle motivazioni molto simili a quelle sostenute dal giurista Roberto Ago per il processo a Kappler. Secondo la corte, il diritto di rappresaglia non poteva sussistere, perché non si poteva imputare allo Stato italiano un

406 Ivi, p. 221. 407 Ibidem. 408 Ivi, p. 222.

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illecito internazionale solo per il fatto di accettare l’azione di corpi volontari che non rispondono ai requisiti dell’articolo 1 della Convenzione dell’Aja. Non si può attribuire quindi una responsabilità allo Stato italiano per le azioni compiute dai partigiani e di conseguenza non può sorgere per lo Stato offeso il diritto di procedere tramite rappresaglia. L’azione di Reder inoltre, non rispettando il principio di proporzionalità fra il danno subito e quello arrecato, violava i criteri della rappresaglia e dimostrava così di avere uno scopo solamente vendicativo.

Il Collegio ha inoltre escluso che si potesse parlare di repressione collettiva, sebbene la difesa avesse tentato questa strada anche per le azioni di Reder, e lo ha fatto utilizzando di nuovo argomentazioni molto simili a quelle espresse da Roberto Ago per il processo a Kappler. Il Tribunale di Bologna «si mostrava molto più deciso, rispetto a quello romano che aveva giudicato Kappler»409, affermando che la repressione collettiva riguardava solo i

beni e non avrebbe dovuto prevedere in alcun modo l’uccisione di persone: «Ritiene pertanto il Collegio che troppa è la distanza tra la natura sostanziale di questo istituto e lo sterminio di centinaia e centinaia di inermi cittadini italiani perché sotto il profilo della legittima repressione collettiva, sempreché ammissibile, possa scriminarsi la condotta sanguinosa di Reder»410. Esclusa dunque la pretesa di liceità di una repressione collettiva, la Corte ha concluso, come per Kappler, che le azioni di Reder ricadessero in un uso della violenza, senza necessità o senza giustificato motivo, contro privati cittadini italiani che non prendevano parte alle operazioni militari.