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La questione dell’ordine superiore

I.I. 2 La fine del processo: la solennità dell’evento

I.2. Il dibattito sui crimini di guerra fra i giuristi italiani

I.2.3. La questione dell’ordine superiore

Una questione molto dibattuta, che si legava strettamente al tema dell’ammissibilità della responsabilità individuale, era quella dell’ordine superiore, in quanto esimente per escludere la responsabilità del singolo per i crimini di guerra. Coloro infatti che non ammettevano la responsabilità individuale, ritenevano generalmente l’ordine superiore come un’esimente, poiché la disciplina e l’obbedienza militare non avrebbero permesso ai subordinati di sindacare gli ordini ricevuti. La responsabilità dunque apparteneva solamente al superiore. Essi inoltre mettevano in discussione la possibilità che il subordinato comprendesse la portata dell’ordine ricevuto, che egli fosse cioè consapevole che nell’eseguirlo stesse commettendo reato. Questa era la tesi di Hans Kelsen158, che nel

suo libro La pace attraverso il diritto scriveva: «si può ragionevolmente presumere che

156 Vedovato, op. cit., p. 287. 157Miglioli, op. cit., p. 60.

158Hans Kelsen (Praga 1881-Berkeley 1973) fu un giurista e filosofo della politica austriaco. Fu professore di

diritto pubblico e di filosofia del diritto all’Università di Vienna (1917-30), Colonia (1930-33), Ginevra (1933- 40), Praga (1936-38), Harvard (1941-42) e Berkeley (1942-52). Kelsen collaborò alla stesura della Costituzione austriaca nel primo dopoguerra e fu anche giudice della Corte di giustizia costituzionale austriaca. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/hans-kelsen/.

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ogni soldato conosca ciò che il diritto internazionale vieta? […] Come può un soldato sapere che un ordine che viola le regole di guerra non sia una rappresaglia e come tale legittima? Come può considerare un tale comando “senza dubbio alcuno” contro la legge?»159. Alcuni giuristi come Nuvolone invece facevano appello al diritto umano, per affermare che ogni subordinato avrebbe dovuto rifiutarsi di commettere delitti contro l’umanità, proprio in nome di quei principi, che, essendo umani, erano vincolanti per ogni uomo e in qualsiasi circostanza. Essi auspicavano che il diritto internazionale si perfezionasse in quella direzione, ovvero che prevedesse l’entrata in vigore di questi principi umani. A sostegno della loro tesi, sovvenivano non solo le norme stabilite dallo Statuto dell’IMT (International Military Tribunal), in particolare l’articolo 8, ma anche alcune norme dei codici penali nazionali. Il codice penale italiano, per esempio, prevede la punibilità del militare che esegue un ordine che costituisce manifestamente reato (articolo 40 del c.p.m. del 1941). Nel caso in cui l’ordine sia un’evidente violazione della legge, anche il militare è chiamato a risponderne. Coloro i quali non ritenevano il subordinato responsabile personalmente per gli ordini eseguiti, in nome della disciplina militare, sembrano dunque non considerare queste norme di diritto interno, che mettono in dubbio la loro posizione.

La questione dell’ordine superiore, così come quella della responsabilità individuale, non trovavano quindi una sistemazione precisa nell’ordinamento giuridico e i giuristi che sostenevano la responsabilità individuale sapevano che, per affermare questo principio, era necessario superare il diritto internazionale oppure ricorrere al diritto umano e dunque a principi non ancora assimilati in toto dall’ordinamento giuridico.

Fra gli autori italiani che presero posizione sulla questione vi era il già menzionato Pietro Nuvolone, che nella sua analisi prendeva in considerazione casi particolarmente significativi per l’analisi dei processi del secondo dopoguerra. Il giurista analizzava infatti la diversa posizione dei vari soggetti attivi dei delitti di lesa umanità che sono caratterizzati da una pluralità di autori (ovvero che più persone si siano rese responsabili di questi). Nuvolone distingueva fra tre differenti posizioni: «quella del mandante generico, ravvisabile negli uomini responsabili del governo; quella del mandante specifico, ravvisabile nel capo di un reparto o di una amministrazione civile o militare; quella dell’autore diretto, ravvisabile in coloro che ànno [sic] eseguito materialmente il

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delitto»160. Egli si soffermava in particolare sulla prima. Il mandante generico è colui che, da alte posizioni di comando, pur non avendo dato ordini specifici, ha dato delle direttive per l’esecuzione del delitto, e si presenta quindi come l’ispiratore del comando. I governanti tedeschi rientravano in questa categoria, poiché costoro, sebbene non avessero dato di volta in volta l’ordine, avevano impartito «dei generali ordini in bianco ai loro sottoposti per legittimare qualsiasi abuso e qualsiasi violenza»161. Essi erano dunque colpevoli «di aver posto le premesse giuridiche interne per la commissione di tutti i delitti di lesa umanità, l’istigazione permanente e generale alla criminalità»162 e su di loro pesava

la maggiore responsabilità. Nuvolone offriva anche delle precise indicazioni su come avrebbe dovuto svolgersi il processo nei loro confronti:

Non potrebbero essere chiamati di volta in volta dei vari crimini: una fredda e rigorosa analisi della fattispecie potrebbe condurre a una minimizzazione delle loro responsabilità. […] La loro condotta di governo, i loro ordini in bianco, le loro direttive, vanno pertanto considerati come crimini per sé stessi, indipendentemente dalle conseguenze che, in concreto, e a seconda delle circostanze, i medesimi abbiano avuto.163

È interessante notare che i processi ai criminali di guerra tedeschi in Italia avrebbero assunto proprio quella forma che Nuvolone temeva. Nel momento in cui gli Alleati rinunciarono a istituire un unico grande processo ai criminali nazisti, la cosiddetta «Norimberga italiana»164, si dovette giudicare i responsabili tramite singoli processi. Ciò avrebbe comportato in parte quella «minimizzazione delle responsabilità» degli accusati, che Nuvolone prevedeva. Dobbiamo comunque notare che qui Nuvolone si riferisse alla categoria del mandante generico che non è quella a cui apparterebbero gli imputati dei procedimenti svolti in Italia.

Nel passare all’esame delle altre due tipologie di soggetto, Nuvolone si trovava ad affrontare la questione dell’ordine superiore e della responsabilità del subordinato. Egli era consapevole di trovarsi di fronte a una tematica molto delicata, che prevedeva un’analisi

160 Nuvolone, op. cit., p. 113. 161Ibidem.

162 Ivi, p. 114. 163Ivi, p. 113.

164Notiamo per chiarezza che con l’espressione «mancata Norimberga italiana» Michele Battini e Filippo

Focardi fanno riferimento a due concetti differenti: il primo intende il progetto alleato di istituire un unico e grande processo in Italia contro i criminali di guerra nazisti accusati di aver compiuto crimini in territorio italiano, mentre il secondo intende la mancata punizione dei militari e civili italiani accusati di crimini di guerra. Qui faccio riferimento all’accezione usata da Battini.

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dettagliata. L’autore infatti presentava una casistica varia e complicata, cercando di districarsi fra i vari livelli di colpevolezza, e riportava la questione sul duplice piano del diritto internazionale e del diritto umano. Se infatti per quest’ultimo un ordine che prevedeva la commissione di delitti di lesa umanità era sempre illegittimo e coloro che l’avevano emanato e coloro che l’avevano eseguito erano da ritenere responsabili, nel diritto internazionale la questione si complicava. In alcuni casi, Nuvolone ammetteva l’esclusione della colpevolezza: «unicamente quando il mandante specifico abbia obbedito a un obbligo preciso, la cui violazione avrebbe potuto mettere in pericolo grave lui o i suoi prossimi congiunti. […] Nel caso in cui l’obbligo era, sì, vincolante, ma non così da non potersi sottrarre senza pericolo grave al suo adempimento, la responsabilità potrà essere attenuata ma non esclusa»165. Si deve inoltre considerare che solitamente un comandante di

unità aveva una notevole sfera di discrezionalità e dunque di autonomia, che gli permetteva di valutare la situazione secondo il suo criterio personale, pur avendo egli l’obbligo di rispettare gli ordini. Perciò se un comandante aveva violato le norme del diritto umano, egli era pienamente responsabile dei crimini che aveva ordinato. Per l’esecutore diretto, invece, i limiti di discrezionalità erano molto ridotti e un comportamento disobbediente aveva conseguenze più pericolose, perciò il giudizio deve essere molto scrupoloso. È necessario però valutare anche un altro fattore: «se nell’esecuzione egli non abbia messo qualcosa di proprio, un animus particolare, che permetta di considerare il crimine come opera sua. Le modalità dell’esecuzione, la particolare barbarie usata, gli eccessi di zelo sono tutte circostanze di fatto di cui bisognerà prendere esatta nota»166.

Nonostante ciò, Nuvolone riteneva che il subordinato potesse rifiutarsi di eseguire un ordine illegittimo, poiché l’azione esecutiva di tale comando non era doverosa:

La legge non può imporre di commettere un delitto; essa si limita, da un punto di vista generale, a imporre un dovere di ubbidienza agli ordini gerarchici; ma se, in concreto, il subordinato non eseguisce un ordine illegittimo, è evidente che, pur trattandosi di ordine vincolante nessuna pena gli potrà essere applicata, perché la sua disobbedienza dovrà ritenersi giustificata proprio in base al principio generale da cui discende lo stesso art. 51 del codice penale: per cui non è punibile chi commette il fatto che costituisce normalmente un illecito per adempiere a un dovere impostogli da una norma giuridica. E qui si tratta di un dovere di astensione sancito da una norma penale!167

165Nuvolone, op. cit., p. 119-120. 166Ivi, p. 121.

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L’analisi di Nuvolone mostra come la questione dell’ordine superiore presentasse una casistica molto complicata, se si prendeva in considerazione il diritto internazionale. Se invece si facesse appello al diritto umano, verrebbero meno le difficoltà interpretative. È interessante inoltre prendere in considerazione le considerazioni di Nuvolone, poiché esse erano il frutto di un’analisi de jure condito e non de jure condendo, come lo erano le sue riflessioni in relazione al «diritto umano» ancora da codificare.

Contrario a questa tesi invece era Giuseppe Vedovato. Egli si dimostrava consapevole del fatto che alcune norme degli ordinamenti internazionali e interni prevedevano l’insussistenza dell’esimente dell’ordine superiore nel caso sopra citato e ammetteva inoltre che «l’ammissione della irresponsabilità per atti compiuti in obbedienza ad ordini superiori ricevuti […] contribuì in modo notevole a rendere inefficace il sistema punitivo dei crimini di guerra stabilito dal trattato di Versailles: percorrendo la strada degli ordini gerarchici, si correva il rischio di concentrare tutta la responsabilità nel massimo organo dello Stato, il quale, in quanto tale, sfuggiva alle misure di repressione»168. Nonostante ciò,

Vedovato prendeva subito le distanze da questa posizione:

Il desumere da questi precedenti che “nessun imputato potrà addurre a sua discolpa la sua posizione di funzionario o di subalterno”, costituisce, a dirla con Orlando, una vera e propria “aberrazione giuridica”. Quando si sia ricevuto un ordine specifico senza facoltà di sindacarne la legittimità sostanziale, come può un subordinato sottrarsi ad un preciso dovere di obbedienza? Che l’atto ordinato dal superiore sia delittuoso, non può essere giudicato dal subordinato, se non quando tale giudizio rientri nella competenza che direttamente spetti a quest’ultimo. Distinzione sottile che ben si può dire trovi solo eccezionalmente luogo nell’ordinamento militare, in cui non è concepibile – e tanto meno in tempo di guerra! – che il subordinato abbia la capacità di discutere l’ordine del superiore e di rifiutarsi di obbedirvi.169

Perciò Vedovato giudicava come una pecca particolarmente grave la scelta degli alleati di aver stabilito, già nell’accordo di Londra, l’impossibilità di appellarsi al tema dell’esimente dell’ordine superiore da parte del subordinato. Ciò rendeva, a suo parere, il processo di Norimberga illegittimo, in quanto esso aveva reso inoperanti dei principi giuridici fondamentali, a causa di una manifesta volontà politica. Di opinione contraria era invece Giuliano Vassalli, che vedeva nel «superamento […] della concezione dell’ordine dell’autorità come causa giustificante anche di fatti costituenti manifestamente delitto,

168 Vedovato, op. cit., pp. 290-291. 169 Ivi, pp. 291-292.

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spesso ripugnante ed atroce delitto»170 uno dei più importanti insegnamenti da trarre dalla punizione dei delitti contro l’umanità. Per realizzare questo progetto, di vitale importanza, era più che giustificabile l’applicazione di norme ancora incerte del diritto internazionale.