I.I. 2 La fine del processo: la solennità dell’evento
III.1. Quando i criminali di guerra sono connazionali: le strategie politiche e giuridiche
La questione dei criminali di guerra italiani emerse per la prima volta nell’ottobre del 1943, quando alcuni giornali britannici, come il «Times» e il «New Chronicle» pubblicarono una serie di articoli sui crimini di guerra commessi dalle truppe italiane sotto il comando di Mario Roatta e Vittorio Ambrosio. La protesta sulle pagine di questi giornali si scatenò in seguito al fatto che i due generali si erano rifugiati a Brindisi insieme al re e a Badoglio ed erano stati riconfermati da quest’ultimo nei posti di comando. Roatta era rimasto Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, mentre Ambrosio Capo di Stato Maggiore delle Forze armate. Durante l’occupazione militare italiana della Jugoslavia, essi avevano comandato la Seconda Armata di stanza in Slovenia e Dalmazia, dove avevano ordinato rappresaglie, incendi di villaggi, uccisioni di civili, saccheggi e deportazioni di popolazione in campi di concentramento. Essi erano fra i maggiori responsabili della politica di repressione antipartigiana portata avanti dal regime fascista. Per questo, la Jugoslavia si mostrò risentita di fronte alla loro riconferma ai vertici militari da parte di Badoglio. Il parlamento inglese recepì le proteste da parte dei giornali inglese e discusse della questione dei criminali di guerra italiani.
Il governo italiano reagì con un memorandum del segretario del ministero degli Esteri, Renato Prunas, inviato il 12 novembre 1943 ai governi alleati442. Il governo Badoglio affermava di voler agire per proprio conto per l’accertamento delle accuse e la punizione dei colpevoli. Al contempo, veniva sottolineata l’umanità dell’occupazione italiana, dal momento che i militari italiani si sarebbero impegnati a «salvare vite umane, attenuare e neutralizzare l’azione tedesca, evitare effusione di sangue, reprimere vendette e persecuzioni razziali»443. Questo memorandum conteneva i capisaldi della posizione italiana che, come ha evidenziato Focardi, si sarebbe imperniata:
442 Cit. in Filippo Focardi, I mancati processi ai criminali di guerra italiani, in Luca Baldissara, Paolo Pezzino (a
cura di), Giudicare e punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005, p. 186.
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1. sulla rivendicazione del diritto di procedere autonomamente al vaglio delle accuse e al giudizio in Italia, presso tribunali italiani, dei civili e dei militari accusati di aver commesso crimini di guerra; 2. sulle rivendicazioni del carattere umanitario dell’occupazione italiana e dei meriti acquisiti nella protezione delle popolazioni civili, in particolare degli ebrei; 3. Sulla distinzione della condotta italiana ispirata a umanità e solidarietà rispetto a quella tedesca contraddistinta da una brutalità senza limiti.444
Il memorandum tuttavia non bastò a difendere la posizione di Roatta e Ambrosio, che il 18 novembre 1943 furono allontanati dai loro incarichi su pressione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Nella dichiarazione fatta il 23 maggio 1944 dal governo Badoglio di unità nazionale si affermava l’intenzione da parte italiana di eseguire «accurate e rigorose indagini per precisare torti e violenze fasciste e adottare le più severe sanzioni per i colpevoli»445. Come vedremo nel prossimo paragrafo, le forze antifasciste ribadirono più
volte il proposito di procedere contro i presunti criminali di guerra italiani. Per gli ambienti militari e monarchici, invece, il proposito punitivo rappresentava solo uno strumento per garantire l’impunità degli accusati, fra i quali figuravano importanti esponenti delle proprie fila, come Roatta e Ambrosio.
Gli ambienti militari e monarchici incontrarono difficoltà a contrastare le rivendicazioni che provenivano dai paesi membri delle Nazioni Unite. L’articolo 29 dell’armistizio attribuiva infatti alle Nazioni Unite il diritto di ottenere la consegna dei criminali di guerra italiani:
Benito Musssolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovano sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando Militare Alleato o dal Governo Italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite. Tutti gli ordini impartiti dalle Nazioni Unite a questo riguardo verranno osservati.446
Il problema si presentò nell’ottobre 1944, quando il Sim, il servizio segreto militare, informò il ministero degli Esteri che la Jugoslavia stava compilando liste di criminali di guerra italiani e raccogliendo una documentazione d’accusa nei loro confronti. Il 27 ottobre 1944, il segretario generale del ministero degli Esteri, Renato Prunas, si rivolse alla Direzione affari politici dello stesso ministero – a novembre fece lo stesso con il Sim- per
444Focardi, I mancati processi ai criminali di guerra italiani cit., p. 186. 445Cit. ivi, p. 187.
446 Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze,
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promuovere la raccolta di documentazione sulle sevizie compiute da parte jugoslava contro i civili e i militari italiani prima e dopo l’8 settembre. La contromossa elaborata da Prunas consisteva dunque nello stilare una lista dei crimini compiuti dagli jugoslavi contro gli italiani da contrapporre a Belgrado. Il Sim dello Stato maggiore generale si occupò così della raccolta di quattro diverse documentazioni: una prima sui crimini commessi dagli jugoslavi a danno degli italiani; una seconda sui crimini a danno della popolazione jugoslava da parte delle fazioni jugoslave; una terza sull’attività svolta dalle truppe italiane a favore dei civili jugoslavi; una quarta sulle accuse per crimini di guerra rivolte dalla Jugoslavia agli italiani. Tale azione di controdocumentazione era finalizzata a riversare le accuse di crimini di guerra sulle autorità jugoslave e a rivendicare l’azione umanitaria delle truppe italiane nei territori occupati. In realtà, un rapporto segreto del Sim del 14 febbraio 1945 dimostra che Roma fosse perfettamente a conoscenza dei crimini compiuti in Jugoslavia dalle truppe italiane: «Atti di forza e rappresaglie contro le popolazioni dei paesi dai quali si aveva ragione di credere fosse partita l’azione dei partigiani ai danni delle nostre truppe sono stati compiuti: abitati sono stati bruciati, partigiani sorpresi con le armi in pugno passati per le armi, popolazioni deportate»447.
Dal punto di vista giuridico, le autorità militari e i responsabili del ministero degli Esteri cominciarono a elaborare una difesa della posizione italiana di fronte all’obbligo,previsto dall’armistizio, di consegnare i presunti criminali di guerra alle Nazioni Unite. In questo senso, uno degli artefici e fervido sostenitore della tesi difensiva italiana fu il generale Giovanni Messe, Capo di Stato maggiore generale. Messe aveva comandato il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) e aveva organizzato l’ultima difesa delle forze italiane in Africa settentrionale. Dopo essere stato fatto prigioniero dagli inglesi, fu liberato su richiesta di Badoglio e nominato capo di Stato maggiore delle forze armate. Egli era dunque direttamente coinvolto nella questione dei criminali di guerra italiani. Il 9 novembre 1944, Messe informò il Presidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri Ivanoe Bonomi della fucilazione, compiuta il 15 agosto in Jugoslavia, di tre ufficiali della Divisione Garibaldi e dell’arresto di altri undici ufficiali. La gravità dell’evento consisteva nel fatto che la Jugoslavia intendeva procedere anche contro gli italiani che dopo l’8 settembre avevano deciso di schierarsi a fianco di Tito. Il generale richiese un immediato intervento del governo per la scarcerazione degli undici ufficiali e per la tutela di ogni militare italiano, rivendicando il diritto esclusivo delle autorità italiane nel processare i
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propri criminali di guerra. La tesi di Messe si rifaceva alla Dichiarazione finale della Conferenza tripartita di Mosca, firmata il 30 ottobre 1943 da Stati Uniti, Urss e Gran Bretagna.
Come ha ben spiegato Focardi, i punti essenziali di questa tesi riguardavano, in primo luogo, la distinzione fatta a Mosca fra l’Italia e la Germania: «mentre nel caso della Germania era stata prevista la possibilità di procedere per crimini di guerra contro qualsiasi responsabile, ufficiale, soldato o semplice membro del partito nazista che fosse, nel caso dell’Italia era stato previsto di procedere soltanto «contro i capi fascisti e i generali dell’esercito», contro coloro cioè che avevano dato gli ordini, non contro gli esecutori»448.
La prima distinzione consisteva dunque nel fatto che mentre per l’Italia sarebbero stati portati a processo soltanto i vertici militari, responsabili di aver ordinato atroci delitti, e non coloro che avevano eseguito gli ordini dei superiori, per la Germania si sarebbe potuto imputare di crimini di guerra chiunque si fosse reso complice a qualsiasi livello, sia militare che civile. In secondo luogo, Messe individuava nel documento firmato a Mosca un’importante indicazione sulla titolarità del diritto di giudicare i criminali di guerra: «mentre a proposito dei criminali tedeschi la dichiarazione di Mosca aveva previsto che essi fossero riportati nei luoghi dove avevano commesso i propri delitti per esservi processati secondo le leggi locali, nel caso dei criminali italiani affermava semplicemente che essi dovevano essere “arrestati e consegnati alla giustizia”»449. Sebbene quest’ultima
affermazione fosse generica, a parere di Messe essa poteva essere interpretata in un unico modo: si doveva intendere la “giustizia italiana”. Secondo il generale, spettava unicamente alle autorità italiane la competenza di giudicare i presunti criminali di guerra italiani. Le conclusioni di Messe sul comportamento della Jugoslavia non potevano dunque che essere di dura condanna: «da queste considerazioni derivava che l’azione degli jugoslavi era stata doppiamente illegittima: essa si era rivolta contro gli esecutori di ordini superiori non passibili di punizione e aveva leso il diritto dell’Italia a giudicare direttamente i presunti colpevoli»450.
Le considerazioni fatte dal generale Messe furono condivise dal ministero degli Esteri, che il 12 novembre 1944 inviò una nota di protesta e un memorandum alla Commissione alleata, agli ambasciatori in Italia di Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e al
448Focardi, I mancati processi ai criminali di guerra italiani cit., p. 189. 449 Ibidem.
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rappresentante jugoslavo presso la Commissione consultiva. In questo documento, il ministero degli Esteri chiedeva l’immediata liberazione e consegna degli undici ufficiali arrestati e condannava la fucilazione dei tre militari italiani, in quanto violazione del diritto. La linea di difesa elaborata da Messe fu dunque recepita in pieno dagli organi istituzionali, in particolare dal ministero degli Esteri, che trovò così una sorta di «giustificazione giuridica» alla propria posizione.
Come vedremo nel prossimo paragrafo, le argomentazioni del capo di Stato maggiore non furono condivise solo dalle istituzioni, ma anche dalla stampa. I giornali di ogni orientamento politico, ad eccezione di quelli comunisti, rivendicarono infatti la giurisdizione italiana in materia di crimini di guerra, quando nel febbraio 1945 la stampa pubblicò la notizia che il governo jugoslavo aveva consegnato una lista di presunti criminali di guerra italiani alla United Nations War Crimes Commission. A titolo d’esempio, prendiamo in considerazione l’articolo pubblicato dal giornale monarchico «Italia Nuova», il quale insistette proprio sulla distinzione fra il caso dell’Italia e quello della Germania. Secondo il giornale, solamente i nazisti potevano essere considerati criminali di guerra per la loro maggiore responsabilità nella guerra rispetto agli italiani, i quali invece costituivano un caso ben diverso. Il quotidiano monarchico rivendicava inoltre la cobelligeranza come prova della capacità morale dell’Italia di giudicare i propri cittadini accusati di crimini i guerra. È interessante notare come l’argomento della distinzione netta fra il caso italiano e quello tedesco proveniente dalla tesi di Messe sia al centro anche delle rivendicazioni dell’«Italia Nuova». Il tema stesso della cobelligeranza venne utilizzato dal generale con finalità analoghe, come vedremo in questo paragrafo. È questa un’ulteriore prova della vicinanza fra gli ambienti militari, di cui Messe era uno degli esponenti più in vista, e la stampa, in questo caso monarchica, che rifletteva la stessa posizione del generale sulla questione dei criminali di guerra italiani.
In risposta alle richieste di Belgrado, furono fatte ulteriori pressioni sul governo da parte degli ambienti militari. Intervenne infatti anche il ministro della Guerra, il liberale Alessandro Casati, che scrisse una lettera al Presidente del Consiglio Bonomi. Casati parlò di lesione degli «essenziali diritti della sovranità italiana che si concreta[va]no, tra l’altro, nell’essere l’autorità italiana l’unica competente a giudicare del comportamento dei suoi cittadini e dei suoi soldati nell’adempimento dei loro doveri»451 e chiese quindi a Bonomi
451 Cit. in Davide Conti, Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra,
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che opponesse un fermo rifiuto alle richieste di Belgrado. Come ha evidenziato Davide Conti, questa lettera «eludeva completamente gli elementi essenziali del ragionamento ovvero sia la responsabilità dell’aggressione militare del governo fascista italiano sia la condotta bellica del regio esercito, dei battaglioni “M” e delle milizie collaborazioniste, largamente incentrata sulle tecniche della controguerriglia e del coinvolgimento dei civili nelle rappresaglie»452. Secondo Casati, l’unica azione legittima da parte jugoslava sarebbe stata consegnare le prove di colpevolezza verso gli indiziati al governo italiano e di richiedere a Roma che fosse istituita un’inchiesta a loro carico. Nonostante ciò, le reali intenzioni di Casati non appaiono essere tanto l’istituzione di un’inchiesta a carico dei presunti criminali, quanto la difesa dell’esercito e degli ambienti militari. Casati infatti scriveva: «A me sembra indispensabile venga tutelata – per il presente e per l’avvenire – la serenità spirituale di chi adempie al proprio dovere. Riterrei necessario si avesse in tal senso una formale precisazione da parte del Governo italiano per evitare che avesse nuovo alimento il senso già troppo diffuso in Italia di completa sfiducia verso le Autorità»453.
Anche il generale Messe espresse la propria opinione in seguito alla notizia della lista dei criminali di guerra italiani stilata dalla Jugoslavia. Egli si rivolse a Bonomi e al ministro degli Esteri De Gasperi per chiedere «una energica ed efficace azione diplomatica diretta in un primo tempo a neutralizzare e in un secondo tempo a far respingere la richiesta jugoslava»454. Così come nella lettera del 9 novembre 1944, Messe ripropose la sua interpretazione della Dichiarazione di Mosca, ponendo l’attenzione sul tema della cobelligeranza. Per il generale, la distinzione fatta a Mosca fra i criminali di guerra tedeschi e quelli italiani doveva essere considerata «frutto del riconoscimento alleato della cobelligeranza italiana, una sorta di “premio” degli Alleati all’Italia di Badoglio per il suo impegno antitedesco»455. Come conseguenza di tale riconoscimento, la dichiarazione di Mosca aveva assunto un «valore “modificativo” dell’articolo 29 dell’armistizio italiano. Essa cioè faceva decadere le clausole armistiziali sui criminali di guerra, ripristinando di fatto le norme del diritto internazionale, secondo cui ogni Stato era competente a sanzionare gli eventuali comportamenti scorretti dei propri militari all’estero»456. L’Italia veniva così esentata dall’obbligo di consegnare i propri cittadini imputati di crimini di
452 Davide Conti, Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra, Odradek
Edizioni, Roma, 2011, p. 243.
453Cit. ibidem.
454 Citato in: Focardi, I mancati processi ai criminali di guerra italiani cit., p. 190. 455Ivi, p. 191.
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guerra, in nome del riconoscimento alleato della cobelligeranza:questa le avrebbe attribuito quella patente di superiorità morale che le permetteva di giudicare in patria i presunti criminali. Quella stessa superiorità dell’Italia antifascista di cui parlava anche il giornale «Italia Nuova». A supporto della sua argomentazione, Messe sottolineava che l’Italia fosse tra quei paesi a cui spettava il diritto di processare militari tedeschi accusati di crimini di guerra sul proprio territorio. Questo per demarcare nuovamente come i destini dell’Italia e della Germania si fossero strutturalmente divisi dopo la partecipazione italiana alla lotta antitedesca. Le considerazioni fatte da Messe divennero la base della posizione giuridica italiana sulla questione dei criminali di guerra. L’interpretazione della dichiarazione di Mosca proposta dal generale risultava essere comunque una sorta di «giustificazione» giuridica, un mero strumento per evitare la punizione dei presunti criminali italiani. Essa infatti «”forzava” il significato della dichiarazione di Mosca ed era in contrasto con i veri propositi dei suoi estensori, che non avevano inteso né distinguere fra italiani e tedeschi né riconoscere all’Italia alcuna competenza giurisdizionale in materia di crimini di guerra»457.
Il periodo immediatamente successivo alla fine della guerra, fra maggio e giugno 1945, fu importante per la questione dei criminali di guerra italiani. L’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo intraprese infatti il primo e ultimo tentativo di portare in giudizio italiani imputati di crimini di guerra. All’inizio di maggio furono arrestati un gruppo di funzionari di Pubblica sicurezza, accusati di aver ordinato in Istria esecuzioni sommarie di cittadini italiani e slavi, e un gruppo di quindici camicie nere del battaglione Tevere, responsabili di aver fucilato numerosi civili del paese di Matesicic, durante un rastrellamento in Croazia nel luglio 1942, e di aver internato in un campo di concentramento tutte le donne del villaggio. Fra i responsabili del primo gruppo di arresti, vi erano il prefetto della provincia del Carnaro Temistocle Testa, il questore Vincenzo Genovese e il commissario Agostino Pileri. Di fronte agli arresti, intervennero il sottocapo di Stato Maggiore Ercole Ronco e il ministro della Guerra Casati rivolgendosi a Bonomi e mettendolo in guardia «circa la pericolosità di un procedimento giudiziario che avrebbe potuto favorire i propositi punitivi di Belgrado nei confronti dei criminali di guerra italiani. Si temeva in particolare che un eventuale riconoscimento in sede processuale dei partigiani jugoslavi come “legittimi belligeranti” avrebbe messo a disposizione delle autorità jugoslave una formidabile base giuridica per procedere su vasta scala contro gli italiani»458.
457 Ibidem.
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L’azionista Mario Berlinguer, allora Alto commissario aggiunto per la punizione dei delitti del fascismo nonché responsabile dell’inchiesta, inviò una lettera al segretario generale dell’Alto commissariato Giovanni Battista Boeri, in cui esprimeva le proprie riserve verso le considerazioni dello Stato maggiore dell’Esercito e la propria volontà di procedere contro i responsabili. Tuttavia, non si ottenne alcun risultato, come era successo con Roatta. Il gruppo delle camicie nere fu rimesso in libertà l’8 giugno senza passare da un procedimento penale, mentre i funzionari di Pubblica sicurezza rimasero in carcere con l’accusa di collaborazionismo, mentre quella per crimini di guerra era stata lasciata cadere. In questo periodo, ebbe un notevole peso anche l’occupazione temporanea di Trieste e di parte della Venezia Giulia (1 maggio- 12 giugno 1945) poiché - come ricordato - tutte le forze politiche reagirono con un istinto all’autodifesa nazionale. Sebbene la stampa comunista facesse eccezione continuando a sostenere le richieste straniere di estradizione, a livello istituzionale gli esponenti comunisti collaborarono con gli altri per neutralizzare tali richieste.
Fra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1945, il governo italiano ricevette dalla Commissione alleata un primo elenco di militari e civili italiani accusati di crimini di guerra, richiesti in parte dalla Jugoslavia e in parte dalla Gran Bretagna. Inizialmente, gli Alleati reclamarono al governo italiano solo indagini conoscitive per il rintraccio dei nominativi della lista. Gran Bretagna e Stati Uniti procedettero per proprio conto in Italia a punire i crimini commessi contro i loro prigionieri di guerra ed emisero e eseguirono anche alcune sentenze di morte, fra cui quella contro il generale Nicola Bellomo, fucilato dagli inglesi l’11 febbraio 1945. Alla fine di dicembre di quello stesso anno, erano arrivati alle autorità italiane, tramite gli Alleati, elenchi di presunti criminali di guerra italiani, che contenevano 447 nominativi fatti dalla Jugoslavia, 497 dalla Gran Bretagna, sei dalla Grecia e tre dall’Albania. L’Unione Sovietica, invece, poiché non era parte della Commissione delle Nazioni Unite, aveva inviato all’Italia una propria lista con dodici nominativi. Era compito del governo militare alleato in Italia imporre l’arresto e la consegna dei presunti criminali di guerra italiani. In novembre, la Commissione alleata aveva presentato alle autorità italiane un secondo elenco di persone da “rintracciare”, con il quale i nominativi salivano a centonove. Fra questi, che rischiavano di essere arrestati in qualsiasi momento dagli Alleati, si trovavano i principali responsabili della politica di occupazione in Slovenia, Dalmazia e Montenegro.