I.I. 2 La fine del processo: la solennità dell’evento
III.2. La stampa italiana e i criminali di guerra
III.2.3. Il mito del buon italiano e del cattivo tedesco
L’esigenza di evitare una pace punitiva per il paese fu preponderante durante il periodo di discussione del trattato di pace, dalla conferenza di Potsdam, dal17 luglio al 2 agosto 1945, fino alla firma del trattato a Parigi il 10 febbraio 1947532, entrato poi in vigore il 15 settembre 1947. A questo fine, si cercò di minimizzare le responsabilità italiane nella guerra dell’Asse e si tese ad esaltare la distinzione netta fra l’Italia e la Germania nazista, sottolineando la diversità della condotta di guerra delle truppe italiane rispetto a quelle tedesche nei paesi occupati, cioè in Grecia, in Jugoslavia e in Unione Sovietica. Focardi ha sottolineato l’efficacia di questa retorica polarizzata:
All’immagine del “cattivo tedesco”, guerriero fanatico e capace di ogni nefandezza, si contrappose quella del cosiddetto “bravo italiano”: malamente equipaggiato, catapultato
529Focardi, “L'Italia fascista come potenza occupante cit., p. 165. 530 Ibidem.
531 Ibidem.
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contro il proprio volere in una guerra sciagurata, il soldato italiano aveva solidarizzato con le popolazioni dei paesi invasi, le aveva aiutate contro la fame e la miseria dividendo quel poco che aveva e, soprattutto, le aveva protette dai soprusi e dalle violenze dei commilitoni germanici salvando così molte vite, come era il caso di migliaia di ebrei strappati dalle grinfie degli sterminatori tedeschi.533
Questa distinzione faceva parte della strategia di difesa della condotta italiana da parte di Palazzo Chigi, che trovò espressione nel libro di un funzionario del ministero degli Esteri, Mario Luciolli, intitolato Mussolini e l’Europa534. Secondo l’autore, il soldato italiano
poteva aver compiuto «qua e là i suoi piccoli furti e le sue marachelle, ma a nessun militare, di nessun grado, sarebbe venuto in mente di organizzare scientificamente la spogliazione delle popolazioni civili, né di organizzarne il maltrattamento»535. La differenza di comportamento fra il soldato italiano e quello tedesco era apparsa evidente alle popolazioni dei paesi invasi dall’Asse: il primo era infatti visto come un «un fratello colpito da un comune flagello», mentre il secondo come «un feroce tiranno»536.
La spinta all’autodifesa nazionale dopo la fine della guerra fu evidente anche sulla stampa. I giornali della sinistra antifascista avevano pubblicato, fino al primo semestre del 1945, articoli di dura condanna dei criminali italiani, i quali però andarono a diminuire successivamente. Iniziò progressivamente a farsi spazio sulle pagine di questi quotidiani la raffigurazione dei «bravi italiani» in contrapposizione ai «cattivi tedeschi».
Già nell’ottobre 1944, l’«Italia Libera», ricordando il sacrificio di molti militari italiani che erano caduti combattendo a fianco dei greci contro i tedeschi, aveva scritto: «se il fascismo valeva il nazismo, il soldato italiano era qualcosa di diverso dal soldato tedesco»537. Un
anno più tardi, il 28 ottobre 1945, lo stesso giornale dimostrava di aver sviluppato pienamente la retorica del «buon soldato italiano» in un articolo intitolato I greci lo sanno. Per l’«Italia Libera», il popolo ellenico sapeva che l’«infame impresa» era frutto della «provincialesca megalomania» di Mussolini e che non era stata voluta dai soldati italiani, i quali avevano combattuto solamente per costrizione e senza alcuno «spirito aggressivo». Mentre i soldati tedeschi avevano mostrato «lo “stile” dei dominatori», quelli italiani
533Focardi, “L'Italia fascista come potenza occupante cit., p. 165.
534Il volume fu pubblicato a Roma per i tipi della casa editrice Leonardo, sotto lo pseudonimo di Mario
Donosti.
535Mario Donosti [Mario Luciolli], Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista, Leonardo, Roma, 1945, pp.
97-98.
536 Ivi, pp. 271-273.
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avevano espresso nelle loro facce e nei loro modi «l’umiltà di chi pare chieda scusa d’essere entrato contro la sua voglia in casa d’altri», e di questo i greci se ne erano resi conto. Questi avevano infatti fraternizzato coi militari italiani durante il periodo di occupazione e li avevano confortati dopo l’8 settembre, quando erano divenuti prigionieri dei tedeschi. Il riferimento alla svolta dell’armistizio era fondamentale per evidenziare la differenza della condotta italiana da quella tedesca. Il giornale individuava un «filo rosso» che univa il comportamento delle truppe italiane prima dell’armistizio, ispirato da sentimenti di solidarietà con il popolo greco e di ostilità verso il «tracotante alleato», con il comportamento antitedesco di molti reparti che dopo l’8 settembre si erano uniti ai partigiani greci nella lotta contro la Germania. Si legge infatti sul quotidiano: «tra l’Italia antifascista e le nazioni oppresse vi è un vincolo di solidarietà cementato nel sangue e nel comune martirio». Il riferimento a questo «vincolo di solidarietà», a questo «filo rosso» della condotta italiana, aveva comunque un scopo preciso, che consisteva nel rivendicare che, grazie a tale comportamento, «l’Italia antifascista può[oteva] trattare a fronte alta con chiunque»538. Questo vincolo attenuava, anche se non cancellava, «la pagina vergognosa della guerra mussoliniana»539.
Questa rappresentazione del soldato italiano venne alimentata anche dalla stampa di matrice socialista e comunista. Quest’ultima propose infatti l’idea che i soldati italiani avrebbero compiuto nelle terre d’occupazione un percorso «da occupanti a partigiani»540.
Focardi lo ha descritto come un cammino «di maturazione umana, morale e politica compiuto da migliaia di militari italiani nei Balcani e in Russia, che, disgustati dalle violenze commesse dai commilitoni tedeschi contro le popolazioni civili, avevano solidarizzato con queste e simpatizzato con le ragioni della resistenza partigiana, passando infine dopo l’armistizio a combattere contro il “comune nemico” germanico»541. Il soldato
italiano assumeva così tratti di umanità che lo dispensavano da qualsiasi responsabilità per i crimini commessi nelle terre occupate. Questo aspetto era evidente nel dossier sugli
Italiani in Jugoslavia curato nel 1945 da Marta Chiesi e Romano Bilenchi per la rivista
comunista «Società». I due autori descrivevano ampiamente i crimini commessi (gli incendi di case, le razzie di bestiame, le fucilazioni per rappresaglia), ma addossavano le
538 Le due Italie, «L’Italia Libera», 27 ottobre 1944. 539 Saluto alla Grecia,«L’Italia Libera», 17 ottobre 1944.
540 È il titolo di uno dei paragrafi del libro di Luigi Longo, Un popolo alla macchia, pubblicato da Mondadori
nel 1945.
541 Filippo Focardi, “Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra
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colpe di questi solamente ai soldati tedeschi, oppure a giovani fascisti dei battaglioni Mussolini, a ottusi ufficiali fascisti e alle bande locali di collaborazionisti sanguinari. I militari italiani avevano invece ripugnato tali crimini, come dimostravano i protagonisti del dossier: il fiorentino Brunetto Parri, che era passato con i partigiani di Tito già prima dell’armistizio; o il tenente Ferdinando Pepi, uno delle migliaia di soldati italiani della divisione Garibaldi che dopo l’8 settembre aveva combattuto a fianco dei partigiani jugoslavi contro i tedeschi. Dal dossier emerge chiaramente la retorica tipica del «buon italiano» costretto a una guerra a lui invisa, mentre Mussolini è «il responsabile delle nostre miserie»542, e l’ufficiale nazista«una nullità assoluta come politico e come militare»543. I militari italiani hanno dovuto battersi in una «guerra voluta dal duce»544, ma «nonostante la loro veste d’oppressori […] seppero farsi benvolere dalle popolazioni della zona»545. Un passaggio di questo dossier è particolarmente significativo: quando viene
diffusala notizia dell’armistizio, «centinaia di migliaia di soldati, decine e decine di Divisioni, intere armate, tutto un esercito, insomma, ha appreso una decisione di così enorme importanza come l’ultimo dei più pacifici cittadini»546. E così, «si palesa subito la
decisa volontà della Divisione di lottare contro i tedeschi e da allora nessun atto, né individuale né collettivo, rompe tale volontà; nulla ci pare più naturale che di combattere a fianco o almeno per la causa degli alleati, che è la causa della libertà»547. È interessante vedere come gli autori esaltino proprio la svolta dell’armistizio come momento in cui un gran numero di soldati italiani, «tutto un esercito», gioendo per la notizia, ha mostrato il suo vero spirito pacifico e ha preso poi la ferma decisione di lottare contro i tedeschi, seguendo quell’istinto naturale alla solidarietà e all’umanità.
Come ha spiegato Focardi, «si trattava di una visione fuorviante, che generalizzava un comportamento certo lodevole, ma che aveva riguardato solo una parte delle truppe di stanza nei Balcani, non la maggioranza di esse. Un numero ridotto di unità – fra cui in blocco le camicie nere – era rimasto infatti al fianco dei tedeschi aderendo poi massicciamente a Salò, mentre il grosso dei soldati era stato disarmato dalla Wehrmacht e avviato alla prigionia»548. Su 600 mila militari italiani presenti nei Balcani e nelle isole
542Marta Chiesi e Romano Bilenchi (a cura di), Italiani in Jugoslavia in «Società», 1945, p. 183. 543 Ivi, p. 184.
544 Ivi, p. 206. 545 Ibidem. 546 Ivi, p. 207. 547 Ibidem.
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dell’Egeo al momento dell’armistizio, circa 38 mila, di cui 20 mila camicie nere, avevano affiancato i tedeschi, mentre circa 400 mila uomini furono fatti prigionieri dai tedeschi. Dei circa 155 mila scampati, una parte decise effettivamente di combattere contro gli ex alleati tedeschi al fianco dei movimenti di resistenza. Una stima del loro numero risulta difficile, ma si può desumere dalla storiografia una cifra approssimativa di 50 mila soldati. Un’altra parte cercò invece di nascondersi fra la popolazione civile.
Un altro episodio che contribuì a radicare nell’opinione pubblica nazionale l’immagine autoassolutoria del «bravo italiano» fu la polemica originata dalla questione della sorte dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica. Questa si scatenò nell’agosto 1945, quando le autorità di Mosca resero noto il numero di prigionieri di guerra italiani nei loro campi di internamento, una cifra di circa 19 mila persone, molto inferiore rispetto a quanto ci si aspettasse in Italia. Sulla stampa si contrapposero, da un lato, settori moderatori e conservatori e, dall’altro, sinistra social comunista. Tuttavia, è interessante notare come sia i primi, fautori di una campagna antisovietica, sia i secondi, che avevano scatenato una contropolemica per processare le autorità fasciste, non intaccarono il mito del buon soldato italiano. Da parte dei settori conservatori, il cui rappresentante era il generale Messe, si intendeva dimostrare, mettendo in evidenza la bontà della condotta italiana, che l’Unione Sovietica non avesse alcun diritto di trattenere militari italiani. La stampa di sinistra invece, con in prima fila il socialista Giusto Tolloy, sottolineava l’intesa fra le truppe italiane e il popolo sovietico, con il proposito di smentire le accuse al governo di Mosca di una sua presunta crudeltà verso i prigionieri italiani. Da questi due intenti politici contrapposti emergeva comunque un’immagine univoca del soldato italiano.
Sul «Corriere d’informazione» scriveva ad esempio Messe: «nessuno poté impedire al nostro soldato di far conoscere alla popolazione russa tutta la bontà, la generosità, la profonda sensibilità del suo animo, così come fu sempre possibile ai Comandi italiani – spesso in aperto contrasto con le direttive tedesche – di assicurare ai prigionieri da noi catturati trattamento e condizioni di vita degne di un popolo civile»549. Si specificava inoltre che «le nostre truppe pesarono il meno possibile sulle popolazioni e si registrarono solo alcuni «casi di razzia di qualche gallina e di altri furtarelli»550. Per questo motivo, «rapporti più che cordiali si stabilirono fra le nostre truppe e le popolazioni civili. La iniziale diffidenza dei Russi lentamente ma decisamente si scaldò al calore latino e ben
549 Maresciallo G. Messe, Gli italiani in Russia, «Corriere d’informazione», 16 novembre 1945. 550 Ibidem.
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presto l’indifferenza divenne simpatia, la simpatia affetto, fiducia, stima. Gli Italiani avevano saputo conquistare l’animo dei Russi, di tutti i Russi»551. Lo stesso non si può
certo dire per i militari tedeschi, verso i quali i russi nutrivano un profondo odio. Il trattamento dei prigionieri russi da parte dei tedeschi era infatti «di eccezionale rigore ed a volte bestiale»: «nessuna pietà per i deboli e gli ammalati; […] la razione giornaliera ridotta ad un solo rancio e ad una brodaglia disgustosa di miglio»552. I Comandi italiani non rimasero però indifferenti a questi fatti e si operarono per salvare i russi dalla loro sorte: «cominciarono a non segnalare ai Tedeschi il numero esatto dei prigionieri, ed a trattenerne forti aliquote […] allo scopo di sottrarre il più possibile i prigionieri ai patimenti che venivano loro inflitti nei campi germanici»553. Di tutt’altro tipo era il trattamento che i russi ricevevano nei campi italiani: «ben vestiti, rasati, nutriti, non avevano nulla del prigioniero catturato in combattimento e tanto meno di quello che soffre e stenta in un campo di concentramento»554. È evidente come la raffigurazione del bravo italiano che assicurava ai prigionieri una «vita dignitosa» fosse totalmente opposta a quella del cattivo tedesco, che procurava loro una «vita di stenti, privazioni e sofferenze»555. Il quadro idilliaco dei buoni rapporti fra le truppe italiane e la popolazione russa è ben presente anche in un altro articolo di Messe pubblicato anch’esso sul «Corriere d’informazione». Il generale metteva in risalto che «i rapporti fra le truppe del C.S.I.R. e la popolazione civile sono sempre stati improntati a reciproca comprensione e a vera e propria cordialità. Infatti, un modo affine di concepire gli affetti, la famiglia, l’amore della terra, una particolare tendenza al sentimentalismo […] costituirono un substrato sentimentale assai fecondo nelle reciproche relazioni fra truppe e popolazione»556. Buona parte del merito di questi buoni rapporti apparteneva agli italiani, che avevano mostrato tutta la loro generosità, offrendo alla popolazione russa un aiuto prezioso: «i nostri medici prestavano disinteressatamente la loro opera e fornivano anche medicinali. Nostri soldati volontariamente si sottoponevano talvolta alla trasfusione per donare il loro sangue a favore di vite umane russe. Infortunati sul lavoro, vittime di incidenti automobilistici e di
551 Giovanni Messe, Gli italiani in Russia, «Corriere d’informazione», 16 novembre 1945. 552 Ibidem.
553 Ibidem. 554 Ibidem. 555 Ibidem.
556Giovanni Messe, Cordialità fra il C.S.I.R e la popolazione russa, «Corriere d’informazione», 28 novembre
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bombardamenti aerei furono raccolti e curati»557. Questa azione di benevolenza, fatta di «aiuti individuali, spiccioli, premurosi che il nostro soldato, nella sua innata bontà e generosità, non fece mai mancare alle persone che gli erano vicine», era – secondo Messe - sempre rivolta «ad attutire il peso di una dura occupazione qual era quella tedesca, sia agendo al di fuori e spesso in contrasto con le norme germaniche, sia […] imponendoci talvolta dei sacrifici e delle limitazioni che solo la nostra grande bontà e dirittura morale potevano suggerirci»558.
Molto simile a quella di Messe era la raffigurazione che delle truppe italiane in Russia diede il socialista Giusto Tolloy. Sebbene quest’ultimo fosse guidato, diversamente da Messe, dall’interesse per le realizzazioni del comunismo sovietico, Tolloy presentava comunque il soldato italiano come ben disposto alla popolazione russa, con cui aveva familiarizzato e simpatizzato:
Quanto più il nostro soldato era tratto a starsene lontano dall’odioso teutone tanto più egli si avvicinava con l’abituale familiarità al popolo russo e gli capitava di passare così di sorpresa in sorpresa. Il sentimento familiare saldo come in una provincia agricola italiana; la donna sana e forte, spregiudicata ma non immorale da ragazza ed intenta ai suoi doveri dopo sposata; l’istruzione diffusa fra i giovani in modo semplicemente sbalorditivo […]; le realizzazioni poderose, visibili nelle fabbriche e nelle costruzioni; l’adorazione per Lenin e l’odio per i tedeschi […], tutto ciò sorprendeva ed attirava le simpatie del nostro soldato.559
Come ha spiegato Focardi, da parte della stampa vi era l’intenzione di mettere in risalto le «qualità umane del soldato italiano facendo un paragone col torvo soldato tedesco, raffigurato altero e sprezzante nei confronti degli Untermenschen slavo bolscevichi, dedito allo sfruttamento sistematico dei territori ucraini e russi, inflessibile e crudele coi prigionieri sovietici, sterminatore di ebrei»560.
L’immagine autoassolutoria del «buon italiano» era dunque penetrata a fondo nell’opinione pubblica italiana, tanto che i giornali di ogni schieramento politico, ad eccezione di quelli comunisti, non avevano fatto altro che riprodurre questa retorica.
557 Giovanni Messe, Cordialità fra il C.S.I.R e la popolazione russa, «Corriere d’informazione», 28 novembre
1945.
558Ibidem. .
559 Giusto Tolloy, Con l’armata italiana in Russia, Ugo Mursia Editore, 2010, pp. 55-56. 560Focardi, “Il cattivo tedesco e il bravo italiano” cit., p. 147
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L’immagine del «bravo italiano» oscurava in realtà le responsabilità italiane per la guerra d’aggressione e i crimini commessi contro i civili e i partigiani, soprattutto in Jugoslavia.