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Per edificazione di tutti quei bellimbusti entusiasti che accolgono con alloro e palme le coriste importate da Mauricio Grau, riporto una lettera che fa parte del mio archivio segreto e che – se la memoria non mi inganna – ricevetti, tra poco sarà un anno, lo stesso giorno in cui la

troupe francese lasciò il nostro teatro.

La lettera dice così:

Mon petit Cochon bleu,

Con un piede nella staffa e il meglio della mia bellezza in valigia, butto giù qualche riga illuminata dalla luce giallastra di una candela, creata appositamente da un qualche commerciante disgraziato per screditare la fabbrica dell’Estrella. La mia collega ronfa sulla sua branda rustica di ferro ed io, seduta su un baule dove tra pochissimo affonderà ciò che ancora rimane del mio guardaroba, occupo il tempo facendo scarabocchi e buttando giù un paio di righe come fate voi giornalisti, uomini che, in mancanza di champagne e vini di borgogna, bevete a grandi sorsi questo liquido denso e tenebroso chiamato inchiostro. Lo spettacolo sta per terminare e ho ancora una buona parte della notte a mia disposizione. Io, che sono abituata a dissipare il denaro altrui, spreco i giorni e le notti, che neanche questi mi appartengono: faccio parte di quest’epoca.

Se avessi avuto la fortuna di M. Perret, il mio collega; se la sorte, questa folle, più folle di noi, mi avesse mandato due mila

124 pesos (dieci mila franchi!), sotto forma di biglietto della lotteria, non avrei preso la penna per scrivere le mie confessioni. Gli uomini scrivono quando non hanno denaro; le donne lo fanno quando vogliono chiedere qualcosa.

In mancanza di altri svaghi, dunque, parleremo della mia vita. Soddisferò la vostra curiosità, così non vi vedrò sulle punte dei piedi sporgendovi alla finestra della mia vita privata. Una donna come me, che ha la sfacciataggine di presentarsi sul palcoscenico con le vesti economiche del Paradiso, può benissimo scrivere la sua biografia senza farsi scrupoli.

Non so dove sono nata. Presumo che i miei genitori, un po’ deboli di memoria, passate alcune settimane dalla mia nascita si scordarono di me. Tutti i ricordi che ho partono dal covo impregnato di fumo che vide trascorrere i miei primi anni in compagnia di una signora consumata, sulla sessantina, che faceva la maschera in un piccolo teatro parigino. Perché quella brava donna mi aveva accolto? Non potetti mai saperlo, ma ho il sospetto che questa buona azione abbia poco a che vedere con la carità. Io mi occupavo della cucina e ogni volta che ce n’era bisogno rattoppavo il guardaroba sfilacciato della mia protettrice. La ricompensa per le mie fatiche quotidiane erano pizzicotti e bacchettate. Mangiavamo male e si dormiva peggio perché, se lo spettacolo finiva dopo la mezzanotte, e io puntualmente aspettavo che la maschera rientrasse a casa, dovevo rimettermi in piedi perché era già sorta l’alba, per preparare la misera colazione, come meglio potevo, e fare i lavori di casa.

Raramente assistevo agli spettacoli. La mia protettrice temeva, e non aveva tutti i torti, che frequentare la gente che andava a teatro avrebbe corrotto le mie abitudini. Ma più diventavo grande, più crescevano, con me, le mie ambizioni. Il tugurio in cui vivevamo reprimeva i miei istinti di indipendenza e ed euforia. Un giovane illuminatore teatrale che viveva accanto alla mia mansarda, mi aveva fatto rendere conto di essere bella. Compì dieci, dodici, quindici anni e una mattina serena di settembre, avvolsi con cura un fagotto, ci misi dentro gli stracci con colori stridenti che ero

125 soluta indossare nei giorni di festa e, senza aspettare il ritorno di Madame Ulisse, visto che non c’era altro da prendere, presi la porta. Puntini sospensivi.

Se avete il filo di Arianna, seguitemi come potete nel grande labirinto parigino. Se non lo avete, e non siete tanto in grado di guidare il timone costeggiando gli scogli, attenetevi a seguirmi da lontano, quando riapparirò a fior di terra. Victor Hugo ha detto:

Nei roveti della vita, alcune cose restano tali e quali: la pecora,

la sua bianca lana, l’uomo e la sua virtù.

Dove c’è scritto uomo metteteci donna: è una semplice correzione di refusi.

Eccomi di nuovo qui, meno povera di prima, dopo aver fatto le mie escursioni sotterranee. Le porte di un teatro si aprono alla mia bellezza che sta maturando e il cielo delle scenografie copre la mia spregiudicatezza con i suoi stracci. L’impresario era un uomo che soffriva di gotta, malato e sporco, che pagava decisamente male tutte le infelici figuranti. Con quello che guadagnavo io in quel teatro potevo comprare tre paia di stivali e qualche scatola di fiammiferi. Ma questa era una questione del tutto secondaria. Non ho mai desiderato di diventare un’artista di teatro. Sapevo leggere appena; le mie grandi conoscenze musicali avrebbero attirato sulla mia testa un acquazzone di patate lesse. O l’arte non faceva per me o ero io che non ero nata per fare l’artista. L’unica cosa che cercavo nel teatro era una sorta di vetrina aristocratica permanente e ben posizionata. Quando una donna decide di fare della sua bellezza un commercio di azioni, il miglior mercato è un teatro.

Quelli che non conoscono e non sanno nulla delle quinte, immaginano che la porta di questo giardino delle Esperidi sia sorvegliata con grande attenzione da draghi e mostri fantastici.

126 Chiaramente, in questo paradiso… di Maometto, a differenza di tutti gli altri paradisi, le porte sono aperte ai peccatori.

Tuttavia io, persa come un atomo nella massa color rosa dei cori, vivevo in maniera incresciosa, presa a gomitate dalla miseria e vittima delle privazioni.

La mia bellezza, magnifica e particolare secondo l’illuminatore, il mio ex vicino, passava inosservata in quel teatro, come un pezzo di raso, blu o bianco, in un grande negozio pieno di pizzo, seta e stoffe d’oro. La competizione era temibile. Come la sposa di Marlborough dall’altro della sua torre, aspettavo, non il ritorno, ma l’apparizione di qualcuno che non conoscevo ancora.

Però ahimè! In tutto questo tempo non arrivò nessun principe russo, nessun lord inglese. Penso che i principi russi siano degli esseri immaginari che hanno vissuto solo nelle teste vuote dei romanzieri. Il denaro si stava allontanando da me, come le rondini quando arriva l’inverno e gli amici quando arriva la povertà.

La mia vecchia protettrice si ricordò di me. Mi fece delle proposte vantaggiose e, affascinata dalle sue grandi promesse, venni in America, il paese dell’oro. Gli yankees, che conoscono in modo ammirevole ogni tipo di merce, eccetto le donne, mi scambiarono per una vera parigina. A New York si cena.

Ci sono visi rossi e sanguigni che valgono dieci milioni e spaventose finanziere abbottonate che custodiscono una fortuna nei loro portafogli. Io non parlo inglese, ma loro parlano l’oro. Per rispondergli mi bastava una sola parola del vocabolario: Yes.

Gli americani sono gli unici uomini a parlare in soldi. L’Avana è un paese fortunato. Fa molto caldo. I neri servono per far risaltare il biancore iperboreo delle europee.

Ci sono uomini che, a furia di vivere tra il pan di zucchero, si abituano a sbriciolare la loro fortuna come una zolletta di zucchero messa nell’acqua. Ma mentre l’Avana è il paese dello zucchero, New York è il paese dell’oro. Non parlatemi di razze nè di fisicità: non esistono uomini più aitanti degli yankees.

127 Le mie impressioni di viaggio stanno per giungere alla conclusione. Siamo già in Messico. Mi avevano detto che questa è la terra della primavera. Tuttavia, io non l’avevo vista che nell’esuberante corsetto della Leroux e nei mazzi di fiori che il direttore d’orchestra manda a comprare tutte le sere. Mi aspettavo di vedere correre sabbia dorata per le strade, come correva tra le onde del Pattolo; sfortunatamente, non ho trovato altro che giornalisti accomodanti, amici che vogliono cenare di tanto in tanto ed eleganti dandy che ci trattano come se fossimo dame del Faubourg Saint-Germain. È’ un semplice equivoco: Notre-Dame de Lorette è più distante.

Ogni sera mi ritrovo corteggiata dietro le quinte da una turba di uomini eleganti e di giovanotti che mi guardano a capo scoperto, curandosi di trattenere il fumo dei sigari per non darmi fastidio. E tutti quanti si contendono i miei sorrisi; mi spediscono mille fiori che diffondono il loro profumo per l’hotel Rambouillet e – colmo dei colmi! – mi scrivono delle lettere. I più audaci usano invitarmi a mangiare del ribes o prendere dello champagne… vermouth. Mi incontrano per strada e, nel farsi da parte, cortesi, per lasciarmi la strada libera sul marciapiede, si tolgono il copricapo. Alcuni libertini mi hanno baciato la mano.

Neanche qui ci sono principi russi. Ma, in compenso, ho un’ampia collezione di autografi, che vale molto di più. Questa è la prima città in cui vengo trattata come una signora. Vedrete anche voi se ho motivo per esserne grata.

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