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Come si affligge il cuore e come si intorpidisce lo spirito, quando nel cielo si accumulano le nubi e rovesciano le loro cascate, come rovesciavano le naiadi le loro urne traboccanti! In questi pomeriggi tristi e piovosi il pensiero va a coloro che non ci sono più; agli amici che sono partiti verso il regno delle tenebre, lasciando nel focolare una poltrona vuota e nello spirito un’assenza che non si può colmare. Sembra che il cuore tremi al pensare che l’acqua piovana filtri dalle spaccature della terra e scenda giù, come il pianto, raggiungendo la bara, e bagnando il corpo freddo dei cadaveri. Il fatto è che l’uomo non pensa mai che la vita possa finire; con l’immaginazione anima il corpo esanime le cui molecole si scompongono ed entrano nel vortice dell’eterno cosmo, negando l’ineludibile legge della natura. Tutti noi, nei momenti di tristezza, quando soffia il vento nella stretta canna fumaria del camino, o quando la pioggia sferza i vetri, o quando il mare si agita e si scatena; tutti, chi più, chi meno, ripercorriamo con l’immaginazione il lungo cammino della vita e, nel ricordare gli assenti, che non ritorneranno mai più, crediamo di sentire le loro voci angosciose nel lamento della raffica di vento che passa, nel rumore della pioggia e nei cavalloni dell’oceano in tempesta. Quindi il figlio pensa all’amorevole padre, i cui capelli bianchi gli tornano in mente alla vista della neve rimasta sugli alberi; l’innamorato, a cui il cielo portò via la fidanzata dai modi gentili, crede di sentire il suo balbettio da bambina nel rumore malinconico della pioggia; e il criminale, tormentato dal rimorso, si tappa le orecchie per non sentire la forte sonorità dell’oceano che, come fece Dio con Caino, gli dice: Dov’è tuo fratello? E nessuno pensa che ormai questi corpi si siano dissolti e che i loro atomi, erranti e dispersi, vadano dal bocciolo di rosa color incarnato alla carne della tigre carnivora; dalla fiamma che tremola sulla candela agli occhi della donna innamorata; nessuno vuole

96 credere al fatto che solo l’anima sopravvive mentre la vile materia si dissolve; perché così ci rendiamo conto di essere legati all’aspetto terreno, ed è nettamente maggiore la presenza di sentimenti egoisti in noi che, avendo il diritto di pensare che i nostri corpi sono eterni, non accettiamo che la spietata morte si sia portata via i nostri cari e, denigrando Dio, allunghiamo la vita oltre il confine giallastro dove cominciano i territori della morte.

Questo sentimento è ancora più forte nei popoli che non hanno ancora raggiunto un superiore grado di civiltà e di cultura. Gli egizi pensavano che i loro parenti defunti avessero ancora bisogno di cibarsi. Per questo dipingevano all’interno dei sepolcri e delle cripte, domestici e servitori con vassoi pieni di deliziose vivande, brocche d’acqua e grandi tozzi di pane. Il nostro popolo conserva ancora questa credenza e, nel giorno dei morti, lascia al cimitero la cosiddetta offerta.

Giorni fa, discorrevo con una dama in merito a questi usi e costumi. La pioggia non mi permetteva di uscire da casa sua, così lì, prigionieri, passammo la serata a parlare di fantasmi e di gente risuscitata.

– Lei crede nella trasmigrazione dell’anima? – mi chiese. Scoppiai a ridere e, stringendole la mano, le risposi:

– Quando guardo degli occhi e delle labbra come queste, credo nella trasmigrazione degli spiriti. In lei vive l’anima di Cleopatra. Non è così?

La mia bella interlocutrice, compiaciuta, si rasserenò, poco prima si era accigliata per il tono ambiguo della conversazione, e mi disse:

– Non so se i morti ritornano o se le anime trasmigrano in altri corpi; ma le racconto una storia. Juan si sposò in seconde nozze con Antonia. Del primo matrimonio ebbe una figlia di sette anni, che i genitori chiamavano Rosalía, mentre i vicini del villaggio Pasionaria. La prima moglie di Juan era tutto quello che si può considerare un angelo di Dio. Paziente, molto compiacente, premurosa, accontentava gli occhi

97 del marito e il volto fresco della bambina. Le comari del paese, per via del suo colorito pallido, degli occhi grandi cerchiati di blu, e dell’eccessiva magrezza del suo corpo malaticcio, dicevano che la madre di Pasionaria non avrebbe vissuto ancora per molto. Lei, serena e rassegnata, attendeva la morte cantando, come le rondini aspettano l’inverno. Una sera, Andrea – si chiamava così – si aggravò parecchio, al punto da dover chiamare D. Domingo, il guaritore. Tutto inutile! La povera madre morì, senza che nessuno potesse evitarlo. Poco prima di entrare in agonia chiamò la figlia, che al tempo aveva cinque anni, e le disse:

– Rosalía: ormai sto morendo. Vorrei portarti con me; ma il cammino è piuttosto lungo e freddo. Resta qui; tuo padre ha bisogno di te e tu gli parlerai di me così non mi dimenticherà. A domani!

Andrea chiuse gli occhi, e Rosalía baciò, piangendo, le sue mani che sembravano di neve. A domani! È vero: domani è il cielo!

Juan era ancora giovane e passati undici mesi si consolò. Dopo un anno esatto si sposò con Antonia. Costei era maligna, scontrosa e diffidente. La matrigna – come la chiamavano nel villaggio – fece soffrire moltissimo la povera bambina. La trattava con severità, di solito quando Juan non era in casa la picchiava, e un giorno arrivò persino a ustionarle le mani con il ferro da stiro rovente. Rosalia piangeva; nient’altro. Quando le sue sofferenze erano troppe, diceva a bassa voce, con il viso attaccato agli angoli:

– Madre! Madre cara!

Ma la povera defunta non la sentiva. Come deve essere pesante il sonno dei morti! Le bambine della tenuta, vedendola tanto triste, la invitavano a giocare con loro. Ma lei non ci andava perché le sue scarpette non avevano più le suole e i ciottoli della strada le si incastravano alla pianta. Dopo una serie di moine fatte al marito, Antonia era riuscita ad allontanarle l’affetto del padre. Una sera

98 Pasionaria parlò di sua madre; quella stessa sera la lasciarono senza cena e la picchiarono.

– Maledetta matrigna! – dicevano le anime buone del vicinato. – Che Dio si ricordi della povera Pasionaria!

Dio ha una buona memoria e si ricordò di lei. Quando nessuno se lo aspettava, e senza che ci fosse un cambiamento evidente nella condotta perversa dei genitori, Pasionaria si riprese, come la miccia di una lampada quando sale l’olio. Era ancora molto pallida, ma i suoi occhi luccicavano come il lumino acceso accanto all’Eucarestia.

– Stai meglio, Pasionaria? – Eccome, ormai sto bene!

Tuttavia, un medico che in quel periodo viveva nella tenuta vide la bambina e la sua prognosi su fatale. “Alla caduta delle foglie ci lascerà.”

Pasionaria smentiva col suo cambiamento questa previsione. Pasionaria, mentre faceva i lavori di casa, cantava, ogni volta che Antonia, indolente ed egoista, si recava in città con le fattoresse. Quando la matrigna rientrava Pasionaria si zittiva. Come gli uccelli che tacciono alla vista del fucile dei cacciatori! La buona gente della tenuta mormorava, dimostrando grande compassione, che Pasionaria era pazza. L’avevano vista parlare da sola negli angoli, e avevano anche sentito queste parole:

– Madre! Cara Madre!

Pasionaria non era pazza. Pasionaria parlava con la madre. La santa donna, che aveva una sedia d’avorio e oro accanto agli angeli, chiese udienza al Nostro Signore Dio per domandargli:

– Signore, sono estremamente lieta ed esultante nella tua gloria, perché ti sto guardando; ma se non ti dispiace, vorrei parlarti con franchezza. Ho in terra un piccolo pezzo della mia anima che sta soffrendo molto e preferisco soffrire con lei piuttosto che godere da sola. Lasciami andare da lei, perché la poveretta mi reclama e sta morendo.

99 – Addio!

La gloria, per una madre, non è tale senza i suoi figli.

Quella notte Andrea apparve alla figlia e le parlò in questo modo: – Ti avevo detto che sarei tornata e ora mi hai qui. Da oggi in poi non ti abbandonerò: tu mi darai metà dei tozzi di pane secco che ti danno da mangiare e quando queste anime malvagie ti frusteranno, divideremo per due il dolore.

E così fu. Per questo Pasionaria era felice, nonostante il medico le avesse detto che sarebbe morta. Tuttavia, non esiste una corporatura che possa resistere a tale violenza. Alla caduta delle foglie morì. Juan, che in fondo non era così malvagio, si asciugò una lacrima, e il signor curato la portò a dormire in campo santo. Naturalmente, non appena Dio seppe della sua morte, si rivolse agli angeli dicendo:

– Andate a prenderla, ho qui pronta per lei una piccola seggiola bassa di avorio e oro, e un baule pieno di giocattoli e dolci.

Gli angeli eseguirono il mandato, così madre e figlia si misero in cammino. Ma per Andrea la porta del cielo era chiusa dato che era considerata sospetta, allora San Pietro, chiamandola in disparte, per non far sentire nulla alla figlia, le disse:

– Sai già quello che il signore ha stabilito: perdonami, vecchietta ma chi va a Roma perde la poltrona.

– Lo so bene. Non farò altro che raggiungere la porta per lasciare lì la bambina e farla entrare da sola. Ora che potrà godere della gloria di Dio non avrà più bisogno di me. L’unica cosa che chiedo è un posticino in Purgatorio, con finestra al cielo; così potrò vederla da lì–. San Pietro ne discusse col Signore, il quale diede il suo consenso, così la madre salutò Pasionaria.

– Madre cara, se tu non entri vengo con te.

– Taci, piccola, vado un attimo da tuo padre e torno presto.

Presto, certo! Pasionaria la sta ancora aspettando. La povera madre è in Purgatorio, felice di vedere con la coda dell’occhio Pasionaria, che sta

100 tutto il giorno a giocare con gli angeli. Dio sostiene che, quando arriverà il giorno del giudizio il Purgatorio non ci sarà più e allora la madre buona si salverà. Dio mio! Quand’è che finirà il mondo, in modo tale che queste povere anime non saranno si assentino?...

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Gli amori di Cometa

D’oro, così è la coda di Cometa. Arriva dalle immense profondità dello spazio e ha lasciato molte ciocche dei suoi capelli luminosi sulle punte di cristallo delle stelle. Le civette volevano acciuffarle; ma Cometa avanzò impassibile, senza voltare lo sguardo, come fece Ulisse passando in mezzo alle sirene. Venere lo provocava con il suo sensuale sbatter di ciglia di mezzanotte, come se avesse già sonno e volesse farsi accompagnare a casa. Ma Cometa vide il tallone alato di Mercurio, che sorrideva in maniera mefistofelica, e passò piuttosto serio a una distanza stimabile di ventisette milioni di leghe. Ed eccolo lì. Io penso che in uno dei suoi viaggi abbia trovato la stella di neve, lì dove non arriva l’occhio di Dio, nel luogo che i mistici chiamano inferno. Per questo ha i capelli ritti. Ha visto molte terre, molti cieli; le sue avventure amorose fanno morire dal ridere le Sette Sorelle, e quando pubblicherà le sue memorie vedrete che i pianeti le compreranno per leggerle di nascosto, badando che non finiscano nelle mani delle stelle vergini. Ha molto successo con le donne: è d’oro!

A me non si era ancora mostrato. Io, di solito, non ricevo visite alle quattro e trentadue del mattino; mentre questo grande nottambulo abbandona le sue lenzuola blu molto presto, per spiare la camera da letto di Aurora dal buco della serratura, dopo che la divina bionda salta giù dal letto con le braccia nude e i capelli sciolti. La sua pupilla d’oro spia dalla serratura dell’Oriente. Forse in quel momento Aurora scende i tre scalini di opale del suo letto nuziale e, per coprire i suoi piedi intirizziti, cerca le pantofole di mirto che gli angeli rivestono all’interno con piume bianche staccate dalle loro ali. E lui la guarda; la cinge col fluido dorato dei suoi occhi; la palpeggia con la vista: sente le morbide

102 ondosità del suo seno; guarda come socchiude le palpebre, scoprendo le pupille nontiscordardimè e accoglie in viso le prime gocce di rugiada che cadono giù dalle trecce bionde, quando la dea immerge la testa nel grande catino di brillanti, e si sistema la chioma scompigliata dal cuscino con il pettine d’avorio. Cometa è innamorato. Per questo si sveglia molto presto.

Quando i quotidiani annunciarono il suo arrivo dubitai della sua esistenza. Pensavo fosse un pretesto del sole per obbligarmi ad abbandonare il letto di prima mattina. Il padre della luce è maldisposto nei miei confronti perché non compongo versi per lui e perché non mi piace sua figlia, Alba.

Il biancore irreprensibile di quella donna mi esaspera; e poi da quando amo con tutta l’anima una bruna, odio le bionde, in particolare le inglesi. La notte è bruna… Come te! Scusatemi! Avrei dovuto dire: Come Voi!

Ma, malgrado le mie perplessità, Cometa esisteva. Un sacerdote che dice la messa prima dell’alba lo aveva visto. Non era, quindi, un pretesto del sole rovente per farmi stare sveglio e vendicarsi di ogni mia mancanza. I fornai lo conoscevano e lo salutavano. Il grande viaggiatore dello spazio era in Messico.

Gli osservatori esperti di Chapultepec non hanno ancora aperto bocca e mantengono un atteggiamento prudente per evitare di compromettersi. Non sanno ancora se questo Cometa provenga da una buona famiglia. E hanno più che ragione. Non è necessario fare amicizia con uno sconosciuto che, a giudicare dall’aspetto, sembra un avventuriero polacco. Soprattutto, non bisogna fargli credito. Cos’è venuto a fare?

L’onestà di Cometa è alquanto discutibile. Esce all’alba dalla stanza da letto bollente di Aurora e, ancora non contento di averla così disonorata, spia dal buco della serratura fino a quando lei finisce di

103 lavarsi. Non so se Aurora è sposata; ma sposata o no, quando Cometa esce da casa sua evita di parlare ad alta voce per difendere la sua reputazione.

Cometa non è un gentiluomo. Fa sfoggio delle sue vigliaccherie: esce con insolenza, umiliando gli astri poveri con il lusso opulento del suo vestito e, senza rispetto nei confronti del pudore delle stelle vergini, compromette la dignitosa reputazione di una signora. Non ha pudore. Dovrebbe quanto meno coprirsi il volto con un mantello.

Aspettai invano che il grande sconosciuto apparisse nel soffitto di camera mia. Per questo escursionista, che non viene da Chicago, non esistono uomini autorevoli, né visite di etichetta. Inoltre, dovetti aspettarlo in piedi e armato, come un marito geloso attende l’amante di sua moglie, per dargli la buonanotte, passando. Erano le quattro e mezza del mattino. Le stelle mormoravano tra di loro, dietro i ventagli, e qualcosa come un enorme getto di champagne, emesso da una fonte blu, si scorse in Oriente. Era Cometa. La luna, questo enorme vassoio d’argento su cui il sole ripone monete d’oro, si nascondeva, sveglia e pallida, ad Ovest. Gli astri ed io avevamo freddo.

Ma adesso, se Cometa non prevede il diffondersi dell’epidemia o la possibilità di un conflitto internazionale con il Guatemala, potrebbe, certo, scontrarsi con questo guscio di noce sul quale stiamo viaggiando nell’oceano oscuro dello spazio. Questa supposizione non è del tutto inaccettabile. Esistono 281milioni di probabilità contro quest’ipotesi; ma ce n’è una a favore. Se lo scontro bloccasse il movimento di traslazione, tutto quello che non è fissato alla superficie terrestre si distaccherebbe da questa ad una velocità di sette leghe al secondo. Il tenore Prats raggiungerebbe la luna in quattro minuti. Se lo scontro non facesse altro che arrestare il movimento di rotazione, i mari si distaccherebbero dalla madre terra con insolenza e l’Equatore e i poli si

104 invertirebbero. Che spettacolo meraviglioso! I mari che si svuotano sulla terra, come piatti che vengono rovesciati! L’astronomo Wiston crede e sostiene che il diluvio universale sia stato provocato dallo scontro di una cometa: quella che apparve nuovamente nel 1680.

Il bandito dello spazio avrebbe potuto anche avvolgerci nella sua opulenta coda da loggione. Le comete dovrebbero usare un vestito ampio. Sfortunatamente, le loro grandi code d’oro, eterna disperazione per le attrici, misurano dai trenta agli ottanta milioni di leghe. Se l’estremità di una di queste code gigantesche penetrasse nella nostra atmosfera, cariche come sono di idrogeno e di carbonio, la vita sul pianeta sarebbe impossibile. Sentiremmo, innanzi tutto, una pesantezza smisurata, come se avessimo appena finito di mangiare al ristorante di Recamier e poi, per via della riduzione di azoto, una gioia immensa e una tremenda eccitazione nervosa, prodotto della rapida combustione del sangue nei polmoni e della sua altrettanto rapida circolazione nelle arterie. Moriremmo tutti ridendo a crepapelle! Servín abbraccerebbe Joaquín Moreno e García de la Cadena il generale Aréchiga.

Ma chi è che pensa a questa fine del mondo spaventosa, vita mia?

L’odore delle rose dura poco e lo champagne evapora in atomi impercettibili se, smemorati, lo lasciamo nel calice. Il nostro affetto vola dove sono dirette le note che si perdono, gemendo, nello spazio. Domani tu avrai i capelli bianchi e io le rughe. Sulle tue ginocchia salteranno contenti i tuoi figli. Non preoccuparti: abbiamo tempo per amarci, perché l’amore dura molto poco. Di notte chiudi i balconi per non far entrare la luce impertinente dell’aurora molto presto al mattino e fai in modo che la tua previdenza dorma, così da non poter pronosticare i disinganni e le delusioni che ci riserva il futuro. Il mondo è vecchio, ma noi siamo giovani. Quando sarai ad un ballo, non penserai mai alla sveglia all’alba, o al freddo che sentirai al momento di andare via perché

105 le tue spalle nude tremeranno, al brusco contatto con la tramontana di dicembre, e sentirai salire in gola lo sbadiglio imprudente del fastidio. La candela splende, e c’è molta luce sugli specchi, sui diamanti e negli occhi. La musica pulsa nell’aria e il valzer, come l’onda blu di un fiume tedesco, trascina le coppie legate strette, come i corpi di Paolo e Francesca.

I calici di Boemia traboccano di vino che dà calore al corpo, e la bocca semiaperta della donna emette parole che danno calore all’anima. Nel frattempo Alba si stiracchia, e pensa di doversi alzare. Non pensiamo a lei. Fuori soffia un vento freddo che strappa le carni nude della povera gente che ha passato la notte mendicando e rientra a casa senza neanche un tozzo di pane secco.

Non penserai, per l’amor di Dio, al capote di pelle pesante che dorme, aspettandoti, nel guardaroba, né ai finestrini chiusi della tua carrozza. La fine del mondo e l’uscita da un ballo sono una cosa sola. La parte finale della festa è un misto di silenzio e fatica; il momento in cui si spengono le luci e ognuno torna a casa sua; c’è chi va a dormire sotto le lenzuola trapuntate e chi tra le quattro pareti della tomba. Le candele luccicano, lambendo il piattello del candelabro attorcigliato; i tacchini del buffet mostrano le ossa del torace rosicchiate e il ventre aperto; i musicisti, che stanno lottando con tutte le loro forze contro il sonno, come fece Giacobbe con l’angelo, non trovano aria a sufficienza nei loro polmoni per buttarla fuori dai loro acuti clarinetti, e tantomeno forza nelle loro flosce articolazioni per usare l’arco del violino; sulla tela bianca che copre i tappeti ci sono molti fiori calpestati e altrettanti centrini fatti a pezzi; nelle donne iniziano a spuntare le occhiaie, e la cipria cade dalle loro guance, come il polline cade da un fiore; i