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Il limite delle “norme imperative”.

I limiti rispetto all’esercizio dell’autonomia della volontà delle part

3.3 Il limite delle “norme imperative”.

Tra le varie questioni sollevate nel Libro verde sulla trasformazione della Convenzione di Roma in strumento comunitario e sul suo rinnovamento, che la Commissione europea ha pubblicato nel gennaio 2003, figurava anche l’opportunità o meno di chiarire il significato dell’espressione “norme imperative” utilizzata dalla Convenzione in vari articoli, in ragione del fatto che questo concetto “copre una realtà multiforme”, rivestendo significati diversi nei vari articoli del testo convenzionale.

129 Per quanto lo scopo di tale tecnica sembri essere di tipo protettivo, trattandosi di una

limitazione “guidata” dell’oggetto della scelta da operarsi in relazione a determinati contratti, ritenuti “sensibili”, si tratta di una scelta metodologica non sempre e non necessariamente finalizzata a portare in concreto a risultati “protettivi”. In ciò distinguendosi nettamente dalla tecnica utilizzata per i contratti conclusi con i consumatori e con i lavoratori, consistente nel rendere applicabili al contratto le norme liberamente scelte dalle parti ma in concorso cumulativo con le disposizioni imperative della legge di residenza della parte contrattualmente debole, ove in concreto a lei più favorevole.

Nerina Boschiero “La nuova disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti

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Sotto il comune denominatore delle “norme imperative” la convenzione ricomprende, in effetti, due distinte tecniche di limitazione dell’autonomia delle parti. Si tratta, da un lato, della nozione (propria della dottrina privatistica) di norme inderogabili dalla volontà contrattuale, più comunemente note come “norme imperative semplici”, definite all’art. 3, par. 3 della Convenzione come “norme alle quali la legge di un determinato paese non consente di derogare per contratto”. Dall’altro, si tratta delle “norme che disciplinano imperativamente il caso concreto indipendentemente dalla legge che regola il contratto”, nozione, fornita all’art. 7, par. 1 e 2, che ricalca la più diffusa definizione dottrinale delle c.d. “norme di applicazione necessaria”.130

Questi due gruppi di norme pur essendo accomunati dal carattere dell’imperatività, si differenziano tra loro per il diverso modo di operare: le norme del primo tipo risultano inderogabili anche sul piano interno, essendo sottratte alla libera disponibilità delle parti. Esse risultano normalmente applicabili se appartenenti alla legge regolatrice del contratto, e non (viceversa) se appartenenti ad un diverso ordinamento. Ne consegue che i contraenti, facendo uso del proprio potere di autonomia internazionalprivatistica, possono liberamente escludere le

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Ugo Villani, La Convenzione di Roma sulla legge applicabile ai contratti, cit., pag. 199- 201.

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norme semplicemente imperative degli ordinamenti che sarebbero altrimenti applicabili in mancanza di scelta131.

Tra queste disposizioni imperative, alcune, presentano un grado di imperatività rafforzata, trattandosi di norme alle quali gli Stati riconoscono un’importanza tale da esigerne comunque l’applicazione in presenza di una connessione tra la situazione giuridica e il proprio territorio, a prescindere dalla legge regolatrice del contratto. Dunque, pur appartenendo tutte al medesimo genus, quello delle norme imperative, quelle di “applicazione necessaria” ne rappresentano un sottogruppo, più ristretto, in ragione del loro grado di imperatività “qualificata”, tale da imporne l’applicazione extraterritoriale quale che sia la legge regolatrice del contratto.

Per cui, la categoria delle norme contemplate dall’art. 3, par. 3, del regolamento ha contorni più ampli di quella delle norme di applicazione necessaria. Per esse è infatti richiesta una minore intensità valutativa, essendo sufficiente che l’ordinamento cui appartengono le consideri indisponibili, ossia non ne consenta la deroga contrattuale.132

Si fa riferimento, come già nella Convenzione di Roma, ad un risultato da ottenere, con la conseguenza ovvia che se i valori tutelati dalla norma

131 Resta ferma la loro subordinazione alle norme imperative semplici che formano parte

integrante del proprio statuto contrattuale.

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Franco Mosconi- Cristina Campiglio, “Diritto internazionale privato e processuale”, cit., pag. 388.

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imperativa non sono lesi dalla legge designata dai contraenti, non v’è alcun motivo di limitare l’autonomia delle parti e al contratto dovrebbero continuare ad applicarsi le disposizioni della legge scelta.133

L’art. 3, par. 3 del regolamento Roma I, dispone che la scelta di una legge straniera ad opera dei contraenti, qualora nel momento della scelta tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione si riferiscano ad un unico Stato, diverso da quello la cui legge è stata scelta, non può limitare o escludere l’applicazione delle norme cui la legge di tale Stato non permette di derogare mediante contratto.

In riferimento a tale disposizione (già prevista nella Convenzione di Roma), ci si era interrogati se l’obbligo di rispettare le norme non convenzionalmente derogabili dai privati, dovesse valere anche rispetto ad un contratto risultante totalmente interno ad uno Stato non facente parte della Comunità, per il quale non valgono, quindi, quegli obblighi di “lealtà” reciproca che gli Stati comunitari hanno tra di loro. Il fatto che, pur in presenza di un tale interrogativo e pur introducendo nel par. successivo (nuovo rispetto alla Convenzione) una distinzione tra Paesi membri dell’Unione e Paesi terzi, l’art. 3, par. 3 del regolamento

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mantenga la stessa formulazione indifferenziata della Convenzione, induce a dare oggi a quell’interrogativo una risposta positiva.134

La possibilità di invocare la frode alla legge nel diritto internazionale è sempre stata controversa in dottrina. In materia di contratti internazionali, in particolare, ci si chiede come sia possibile considerare fraudolenta la designazione di una legge, quando le parti non fanno altro che avvalersi della facoltà di scegliere il diritto applicabile, così come a loro riconosciuta nel regolamento. Tale perplessità trova conferma in giurisprudenza, dove le applicazioni del concetto di frode in materia contrattuale sono scarne e non univoche.

Il regolamento Roma I (così come la Convenzione di Roma), non contiene alcun riferimento letterale alla frode alla legge, e anziché

invalidare il negozio di scelta abusivo, se ne limitano gli effetti elusivi,

facendo salva l’applicabilità della lex fori o di un ordinamento straniero.

La problematica dei limiti dell’autonomia delle parti viene affrontata in termini oggettivi, dando rilevanza alla natura e allo scopo delle norme interne violate, anziché all’intento soggettivo delle parti. Le potenzialità elusive dell’optio legis possono essere neutralizzate senza che sia necessario dare la prova, assai difficile nella pratica, dell’intento fraudolento delle parti.

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Franco Mosconi, Cristina Campiglio, “Diritto internazionale privato e processuale”, cit., pag. 389.

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L’approccio adottato dalla Convenzione consente di rispettare, finché possibile, la scelta operata dalle parti. La legge designata regola il contratto, fintantoché non esista un contrasto con la ratio di una norma imperativa. Ma anche in caso di contrasto, le norme imperative prevalgono in modo puntuale sulle norme incompatibili della legge designata, senza inficiare l’optio iuris in quanto tale. Ciò significa, in particolare, che saranno sempre regolate dalla lex voluntatis tutte le questioni relative alla conclusione ed all’esecuzione del contratto, come quelle relative alla conclusione e all’interpretazione dell’accordo, nonché all’adempimento delle obbligazioni che ne derivano: tali questioni sono disciplinate, in genere, da norme dispositive o suppletive, la cui importanza è spesso decisiva nella soluzione di controversie nascenti da un contratto internazionale.

Il principale difetto di questa impostazione è che può condurre ad una forma di dépeçage, minacciando talvolta la coerenza della disciplina.135

Per tali motivi, la norma del regolamento Roma I, non intende affatto imporre una vera e propria “applicazione” automatica delle norme imperative dell’ordinamento che disciplinerebbe il contratto in mancanza di scelta. Da un lato, infatti, è solo dal “confronto” tra le due distinte leggi in presenza che può emergere la volontà delle parti di sottrarsi a

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Andrea Bonomi, “Le norme imperative nel diritto internazionale privato”, Schulthess Polygraphischer Verlag Zurich 1998, pag. 20-25.

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norme imperative “sgradite”, ben potendo anche risultare dal loro esame comparativo che i valori giuridici tutelati dalla legge altrimenti applicabile siano allo stesso modo (o maggiormente) tutelati dalla legge scelta dalle parti.

Inoltre, nonostante la terminologia utilizzata dall’art. 3, par. 3 del regolamento Roma I, che sembra volersi riferire ad una vera e propria incondizionata applicazione di queste norme, si ritiene che si debba escludere una loro forzata applicazione extraterritoriale nei confronti di contratti interni “internazionalizzati”. Lo scopo di questa norma è di prevenire l’evasione di norme imperative altrimenti applicabili.136

Ulteriori considerazioni si possono svolgere riguardo all’art. 3, par.4 del regolamento Roma I, il quale configura una seconda limitazione alla libertà di scelta dei privati contraenti. L’assunto di partenza riguarda l’esistenza di norme di diritto comunitario non suscettibili di deroga per volontà privata: qualora le parti convengano di sottoporre il loro contratto al diritto di uno Stato terzo e, nel momento in cui operano questa scelta, a prescindere da essa, il contratto sia totalmente intracomunitario, deve comunque essere assicurato il rispetto di quelle prescrizioni comunitarie. Posto che le disposizioni di diritto comunitario non soggette a deroga per volontà privata, dovrebbero fare già parte

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Nerina Boschiero “La nuova disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti

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come tali della normativa vigente in ciascuno Stato membro, il valore aggiunto di tale statuizione, rispetto a quanto previsto nel paragrafo precedente, sta nel far scattare la limitazione anche quando “gli elementi pertinenti” siano distribuiti su più Stati, tutti facenti parte dell’Unione.137

Tale disposizione, limita a far salve le disposizioni imperative del diritto comunitario che non possono essere convenzionalmente derogate nella

sola ipotesi in cui tutti gli elementi del contratto, ad eccezione della

scelta di legge, risultino localizzati all’interno della Comunità, e non già

anche nell’ipotesi in cui la situazione contrattuale considerata presenti

collegamenti, sì rilevanti, ma non esclusivi con l’ordinamento comunitario.

Per cui tale limite sarà destinato ad operare in casi del tutto residuali, escludendosi dal suo campo di applicazione le disposizioni fondamentali del diritto comunitario primario, così come le norme imperative del diritto comunitario che la Corte di giustizia ha ritenuto debbano applicarsi nelle ipotesi di contratti c.d. misti, ossia non interamente localizzati nello spazio comunitario, a condizione che presentino con lo stesso forti legami: si fa qui riferimento, in particolare, alla giurisprudenza Ingmar, sentenza con la quale la Corte si è pronunciata in

137 Non si fa altro che introdurre una distinzione tra fattispecie totalmente interne all’area

dell’Unione e fattispecie che sono invece collegate a Stati che non ne fanno parte.

Franco Mosconi- Cristina Campiglio, “Diritto internazionale privato e processuale”, pag. 389- 390.

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merito all’incidenza esercitata dalle norme armonizzate di diritto comunitario in materia sui sistemi di conflitto degli Stati membri138.